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La responsabilità civile da fatto illecito e l’arricchimento senza causa
Art. 2043. (Risarcimento per fatto illecito).
Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.
GIURISPRUDENZA IN TEMA DI RESPONSABILITA CIVILE DA FATTO ILLECITO
- 2 – , Sentenza n. 12126 del 17/05/2018 (Rv. 648400 – 01)
Presidente: ORILIA LORENZO. Estensore: UBALDO BELLINI. Relatore: UBALDO BELLINI. P.M. CELESTE ALBERTO. (Conf.)
- (RUGGIERO FIDALMA) contro O. (DEL VILLANO STEFANO)
Rigetta, CORTE D’APPELLO MILANO, 29/01/2013
089 GIUDIZIO CIVILE E PENALE (RAPPORTO) – 001 IN GENERE
GIUDIZIO CIVILE E PENALE (RAPPORTO) – IN GENERE Giudizio civile inerente a fatto costituente reato – Responsabilità dell’autore del fatto – Configurabilità – Presupposti – Corrispondenza del fatto ad una astratta figura di reato – Sufficienza.
In tema di risarcimento del danno (anche non patrimoniale), perché si configuri la responsabilità civile dell’autore di un fatto costituente reato non è richiesto che il fatto costituisca anche nel caso concreto un illecito penalmente sanzionato, essendo per converso sufficiente che esso corrisponda, nella sua oggettività, ad una fattispecie astratta di reato.
Sez. 3 – , Ordinanza n. 2483 del 01/02/2018 (Rv. 648247 – 02)
Presidente: DI AMATO SERGIO. Estensore: ENZO VINCENTI. Relatore: ENZO VINCENTI.
- (CARNUCCIO FRANCESCO) contro M. (STRANGIO SEBASTIANO)
Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO REGGIO CALABRIA, 09/03/2015
152 RISARCIMENTO DEL DANNO – 004 CONCORSO DEL FATTO COLPOSO DEL CREDITORE O DEL DANNEGGIATO
RISARCIMENTO DEL DANNO – CONCORSO DEL FATTO COLPOSO DEL CREDITORE O DEL DANNEGGIATO Concorso del fatto colposo del danneggiato – Caratteristiche – Incidenza sul risarcimento del danno – Interruzione del nesso causale tra la condotta altrui e danno – Configurabilità – Fattispecie.
In tema di risarcimento del danno per fatto illecito, quanto più le conseguenze della condotta altrui sono suscettibili di essere previste e superate attraverso l’adozione, da parte dello stesso danneggiato, delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze del caso concreto, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del suo comportamento imprudente nella produzione del danno, fino al punto di interrompere il nesso eziologico tra condotta e danno quando lo stesso comportamento sia da escludere come evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale. (Nella fattispecie, da inquadrarsi all’interno dell’art. 2043 c.c., la S.C., accogliendo il ricorso, ha ritenuto che la Corte d’Appello avesse omesso di verificare e valutare l’incidenza causale della condotta di una bambina nove anni, caduta da un precipizio situato a cinque metri dalla sede stradale, rispetto alla responsabilità da condotta omissiva colposa dell’ente pubblico territoriale.).
Sez. 1 – , Ordinanza n. 16196 del 20/06/2018 (Rv. 649479 – 01)
Presidente: TIRELLI FRANCESCO. Estensore: ROBERTO MUCCI. Relatore: ROBERTO MUCCI. P.M. DE AUGUSTINIS UMBERTO. (Diff.)
- (AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO .) contro F.
Rigetta, CORTE D’APPELLO ROMA, 20/07/2012
148 RESPONSABILITA’ CIVILE – 002 AMMINISTRAZIONE PUBBLICA – IN GENERE
RESPONSABILITA’ CIVILE – AMMINISTRAZIONE PUBBLICA – IN GENERE Risarcimento del danno per lesione di interesse legittimo – Disciplina antecedente la legge n. 205 del 2000 – Indagini del giudice ordinario – Necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento dell’atto illegittimo davanti al giudice amministrativo – Esclusione – Fondamento – Fattispecie.
In tema di responsabilità per fatto illecito della P.A., l’inesistenza della cd. “pregiudiziale amministrativa”, già affermata nella giurisprudenza di legittimità prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, è stata confermata dall’art. 30 del citato codice, che ha espressamente svincolato la domanda di risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi dal giudizio di annullamento dell’atto amministrativo presupposto. Pertanto, il giudice di merito procede correttamente a scrutinare la legittimità della condotta tenuta dall’amministrazione, pur in assenza della domanda di annullamento dell’atto dinanzi al giudice amministrativo, pervenendo alla statuizione di condanna risarcitoria previo accertamento della sussistenza degli ordinari elementi dell’evento dannoso, della sua ingiustizia, della sua riferibilità ed imputabilità all’amministrazione. (Fattispecie relativa ad una domanda risarcitoria proposta dinanzi al giudice ordinario, prima della legge n. 205 del 2000, a seguito della risoluzione, con delibera CIPE, di un contratto di programma tra il Ministero per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno e una società, per la realizzazione di iniziative industriali con parziale finanziamento a carico dello Stato).
Sez. 3 – , Ordinanza n. 17019 del 28/06/2018 (Rv. 649441 – 02)
Presidente: CHIARINI MARIA MARGHERITA. Estensore: SALVATORE SAIJA. Relatore: SALVATORE SAIJA. P.M. FINOCCHI GHERSI RENATO. (Conf.)
- (ZOINA ELISABETTA) contro G. (GRANDINETTI ERNESTO)
Rigetta, TRIBUNALE ROMA, 09/12/2015
152 RISARCIMENTO DEL DANNO – 014 VALUTAZIONE E LIQUIDAZIONE – IN GENERE
RISARCIMENTO DEL DANNO – VALUTAZIONE E LIQUIDAZIONE – IN GENERE Divieto di frazionamento della domanda di risarcimento – Limiti – Criterio dell’interesse oggettivo del creditore – Fattispecie.
In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, il danneggiato, a fronte di un unitario fatto illecito produttivo di danni a cose e persone, non può frazionare la tutela giudiziaria, agendo separatamente per il risarcimento dei relativi danni, neppure mediante riserva di farne valere ulteriori e diversi in altro procedimento, trattandosi di condotta che aggrava la posizione del danneggiante-debitore, ponendosi in contrasto al generale dovere di correttezza e buona fede e risolvendosi in un abuso dello strumento processuale, salvo che risulti in capo all’attore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata. (In applicazione di questo principio la S.C. ha confermato la decisione impugnata che aveva ritenuto illegittima la condotta processuale dell’attore il quale, dopo aver proposto una prima azione di risarcimento per i danni materiali subiti in occasione di un sinistro stradale, ne aveva proposta una seconda per quelli alla persona, nonostante che alla data dell’esercizio della prima azione l’intero panorama delle conseguenze dannose fosse pienamente emerso).
Sez. 3, Sentenza n. 19180 del 19/07/2018 (Rv. 649737 – 02)
Presidente: SPIRITO ANGELO. Estensore: PAOLO SPAZIANI. Relatore: PAOLO SPAZIANI. P.M. CARDINO ALBERTO. (Conf.)
- (PIZZI GUIDO CARLOS) contro N.
Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO BRESCIA, 03/06/2014
148 RESPONSABILITA’ CIVILE – 025 CAUSALITA’ (NESSO DI)
RESPONSABILITA’ CIVILE – CAUSALITA’ (NESSO DI) Comportamento sopravvenuto di altro soggetto o dello stesso danneggiato – Causa unica ed esclusiva dell’evento danno – Interruzione del nesso causale – Configurabilità – Limiti – Fondamento.
Si ha interruzione del rapporto di causalità tra fatto del danneggiante ed evento dannoso per effetto del comportamento sopravvenuto di altro soggetto (che può identificarsi anche con lo stesso danneggiato), quando il fatto di costui si ponga, ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p., come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale e rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito, ma non quando, essendo ancora in atto ed in fase di sviluppo il processo produttivo del danno avviato dal fatto illecito dell’agente, nella situazione di potenzialità dannosa da questi determinata si inserisca una condotta di altro soggetto (ed eventualmente dello stesso danneggiato) che sia preordinata proprio al fine di fronteggiare e, se possibile, di neutralizzare le conseguenze di quell’illecito. In tal caso lo stesso illecito resta unico fatto generatore sia della situazione di pericolo sia del danno derivante dall’adozione di misure difensive o reattive a quella situazione, sempre che rispetto ad essa coerenti ed adeguate.
Approfondimento teorico:
in Giuricivile, 2018, 4 (ISSN 2532-201X)
Di Fabio Colamorea
17 Aprile 2018
Sempre più attuale si presenta, alla luce dei recenti ripensamenti circa la configurabilità dei c.d. danni punitivi, il tema della funzione che oggi riveste la responsabilità da atto illecito, o extracontrattuale.
L’analisi in questione può trovare un utile punto di partenza nel raffronto tra l’art. 2043 c.c., norma cardine della disciplina della responsabilità extracontrattuale, e l’art. 2041 c.c. che, nonostante riguardi la sola azione di ingiustificato arricchimento, è considerato dai più la norma-base posta a fondamento di tutti i rimedi risarcitori.
La tesi più accreditata, infatti, ritiene che la citata disposizione positivizzi nel nostro ordinamento il principio di necessaria causalità degli spostamenti di ricchezza, in virtù del quale ogni trasferimento di ricchezza da un soggetto ad un altro deve essere giustificato, di guisa che l’assenza della causa legittima il depauperato a ripetere quanto pagato o ad ottenere adeguata indennità.
Il rimedio dell’azione di ingiustificato arricchimento, quindi, in quanto esplicativa di un principio dell’ordinamento, presenta un ambito di applicazione generale, mentre gli altri due rimedi restitutori, ossia la ripetizione dell’indebito e la negotiorum gestio, risultano applicabili solo quando il contesto presenti alcuni elementi volti a renderlo speciale rispetto al genus dell’arricchimento ingiustificato.
L’art. 2033 c.c. in tema di ripetizione di indebito, infatti, fa riferimento ad un “pagamento non dovuto”, con ciò richiedendo che la prestazione indebita si inserisca in un preesistente rapporto obbligatorio tra le parti, di cui il pagamento rappresenta l’adempimento.
In questo, l’art. 2033 c.c. si differenzia dall’art. 2041 c.c., poiché il primo richiede che la prestazione abbia carattere solutorio, ponendosi come adempimento di un rapporto obbligatorio astrattamente valido ma in concreto improduttivo di effetti, mentre la norma sull’arricchimento ingiustificato prescinde da un eventuale rapporto tra le parti.
Quanto alla gestione di affari altrui di cui agli artt. 2028 ss c.c., l’elemento caratterizzante ha natura soggettiva, consistendo nella consapevolezza, da parte dell’agente, di gestire un affare altrui. Ne deriva che, laddove il soggetto abbia agito credendo erroneamente di amministrare un affare proprio, non sarà applicabile la norma speciale citata, bensì l’art. 2041 c.c., in quanto la condotta del depauperato rappresenta per la controparte un ingiustificato arricchimento.
Chiarito, dunque, che l’art. 2041 c.c. si presenta quale norma generale posta a fondamento dei rimedi restitutori, occorre interrogarsi sui rapporti tra questo ed il successivo art. 2043 c.c., che, come noto, rappresenta la disposizione centrale in tema di responsabilità aquiliana, per ricavare dal confronto tra le fattispecie utili indizi circa la funzione di quest’ultima forma di responsabilità.
Rapporto tra arricchimento senza causa e art 2043 cc
In via preliminare, occorre evidenziare che l’arricchimento ingiustificato può verificarsi sia per effetto di un comportamento dell’impoverito che per una condotta di indebita ingerenza dell’arricchito sulla sfera giuridica altrui. Quest’ultima figura è quella che presenta maggiori profili di interesse ai fini della presente trattazione, in quanto consente di evidenziare in modo plastico la differenza tra la fattispecie di cui all’art. 2041 c.c. e quella aquiliana.
Originariamente, si riteneva che il discrimen fra le due ipotesi fosse costituito dall’ingiustizia del danno. A sostegno di tale assunto si adduceva un argomento di ordine testuale, in quanto, per il sorgere della responsabilità extracontrattuale, l’art. 2043 c.c. richiede che la condotta dell’agente cagioni ad altri un “danno ingiusto”, mentre ai sensi dell’art. 2041 c.c., è sufficiente che taluno si arricchisca, senza giusta causa, a danno di un’altra persona.
Tuttavia, questa impostazione è stata successivamente superata perché, a ben vedere, un arricchimento ed un danno “senza giusta causa” non sono altro che un arricchimento ed un danno “con causa ingiusta” e, quindi, anch’essi ingiusti. Ne deriva che il discrimen tra le due figure non può rinvenirsi nell’ingiustizia del danno, in quanto tale elemento è comune ad entrambe le fattispecie.
Se ne è ricavato, dunque, che il reale elemento discretivo tra gli istituti è offerto dall’elemento soggettivo che connota l’ipotesi di cui all’art. 2043 c.c. e che, invece, risulta del tutto assente nella disciplina del rimedio restitutorio in analisi.
Entrambe le fattispecie, infatti, sono costituite da un fatto del soggetto agente, da un danno ingiusto e dal nesso di causalità che avvince il fatto ed il danno. Tuttavia, l’art. 2043 c.c. richiede, affinchè sorga la responsabilità del danneggiante, che il fatto sia colposo o doloso.
La distinzione tra funzione indennitaria e funzione riparatoria
Ciò posto ed avvicinandoci alla risposta al quesito della presente trattazione, ossia quello relativo alla funzione della responsabilità aquiliana, è necessario interrogarsi, restando nell’ambito della distinzione tra gli artt. 2041 e 2043 c.c., sulle conseguenze derivanti dall’applicazione dell’una o dell’altra norma.
Infatti, in caso di ingiustificato arricchimento, l’art. 2041 c.c. pone, a carico dell’arricchito, l’obbligo di indennizzare la controparte della diminuzione patrimoniale patita, mentre l’art. 2043 c.c. obbliga l’agente a risarcire il danno cagionato.
Ritorna a pieno titolo, quindi, la distinzione tra funzione indennitaria e funzione riparatoria delle obbligazioni che, come si dirà infra, muovono su logiche distinte.
La funzione riparatoria, infatti, mira a ristorare il danneggiato del danno subito, secondo la logica della traslazione, che comporta il trasferimento dei costi del danno da chi lo ha subito a chi lo ha, con una condotta dolosa o colposa, cagionato.
Viceversa, la funzione indennitaria, tipica delle cosiddette obbligazioni da fatto lecito, non è ispirata alla logica della traslazione, bensì a quella della distribuzione, mirando, con intenti equitativi, ad una ripartizione dei costi tra danneggiato e danneggiante.
La distinzione tra le due funzioni si coglie proprio con riferimento ai due diversi istituti ai quali ineriscono.
Come anticipato, infatti, la funzione indennitaria caratterizza le obbligazioni da fatto lecito, tra cui rientra l’ingiustificato arricchimento, mentre quella riparatoria è propria delle obbligazioni da fatto illecito.
Non deve stupire che anche a seguito di un fatto lecito possa sorgere un’obbligazione in capo al danneggiante, in quanto in tali ipotesi il danno deriva da comportamenti che, per la loro rilevanza pubblica o privata, vengono autorizzati dall’ordinamento e, quindi, non possono considerarsi illeciti. Ciononostante, l’ordinamento non considera irrilevante e privo di tutela il danno derivante dal comportamento autorizzato, obbligando, invece, il danneggiante a corrispondere un’equa indennità.
Un esempio emblematico in tal senso è fornito dall’espropriazione per pubblica utilità che, se effettuata dalla pubblica amministrazione in maniera conforme alle disposizioni legislative, risulta pienamente legittima e, quindi, inidonea a far sorgere una responsabilità aquiliana in capo all’ente pubblico espropriante. Tuttavia, l’espropriazione, ancorchè legittima, cagiona un danno al privato espropriato, che perde un bene di sua proprietà e, pertanto, ha diritto ad un equo indennizzo.
La funzione riparatoria della responsabilità aquiliana
Occorre chiedersi per quale motivo il legislatore abbia previsto un’obbligazione risarcitoria, con funzione riparatoria, per la responsabilità aquiliana ed un obbligo indennitario per l’ipotesi di ingiustificato arricchimento.
La risposta a tale quesito si rinviene nell’indicato discrimen tra le due fattispecie, costituito dall’elemento soggettivo che caratterizza l’illecito extracontrattuale.
L’art. 2043 c.c., infatti, richiedendo un fatto colposo o doloso dell’agente, presuppone un giudizio di colpevolezza di quest’ultimo, che giustifica la traslazione su di lui dell’intero costo del danno. Viceversa, in caso di ingiustificato arricchimento, tale giudizio di riprovevolezza manca e, quindi, è prevista una mera distribuzione dei costi del danno tra le due parti.
In definitiva, può affermarsi che la funzione tipica della responsabilità aquiliana è riparatoria, in quanto, preso atto della sussistenza di un danno ingiusto cagionato da un comportamento colpevole del soggetto agente, mira a ristorare il danneggiato del danno patito, facendone gravare i costi sulla controparte danneggiante.
Tuttavia, è bene sottolineare che questa non è l’unica funzione a cui la responsabilità aquiliana può assolvere.
Invero, i primi commentatori del codice del 1942 ritenevano, ponendosi in un filone interpretativo che fissava le proprie radici nella disciplina del codice previgente, che il termine “ingiustizia” di cui all’art. 2043 c.c. andasse riferito non già al danno, come risultante da una agevole lettura del dato normativo, bensì al fatto. Ne derivava un rafforzamento del giudizio di riprovevolezza del danneggiante e, conseguentemente, una diversa funzione della responsabilità aquiliana, ispirata ad una logica sanzionatoria più che riparatoria.
In altri termini, si riteneva che l’obbligo al risarcimento del danno mirasse a punire il colpevole piuttosto che a ristorare il danneggiato.
Tuttavia, una lettura della norma più aderente al dato letterale e l’emersione, con l’evoluzione della società, di danni sempre nuovi e più complessi, hanno determinato una rivisitazione dell’originario orientamento e gli interpreti hanno finito per attribuire all’art. 2043 c.c., come innanzi dimostrato, funzione riparatoria.
Per lungo tempo, anzi, si è ritenuto che questa fosse l’unica funzione ascrivibile al rimedio risarcitorio, non potendo essere accompagnata anche da finalità alternative, prima fra tutte quella sanzionatoria.
Si riteneva, in particolare, che la funzione riparatoria e sanzionatoria fossero incompatibili fra loro perché muovono su due prospettive nettamente distinte. La prima, infatti, risulterebbe orientata interamente a tutela del danneggiato e, quindi, sarebbe parametrata esclusivamente su tale parte e sull’entità del danno subito, mentre la seconda, mirando a sanzionare gli illeciti, guarderebbe alla figura del danneggiante e determinerebbe l’entità del risarcimento in base al vantaggio da questi conseguito.
Le due posizioni apparirebbero troppo distanti e, quindi, inconciliabili.
A sostegno della funzione meramente riparatoria della responsabilità extracontrattuale si riportava, poi, l’art. 1223 c.c. in tema di quantificazione del danno.
È noto, infatti, che in tema di responsabilità aquiliana, l’art. 2056 c.c. rinvia, per la determinazione del danno risarcibile, ad alcune norme previste per la responsabilità da inadempimento contrattuale, ossia gli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c. .
In particolare, la prima delle citate disposizioni stabilisce che il risarcimento del danno deve corrispondere alla perdita subita dal creditore / danneggiato, ossia al danno emergente, ed al suo mancato guadagno, cioè al lucro cessante.
La norma, quindi, parametra espressamente il quantum del risarcimento al danno subito dal soggetto leso, senza prestare alcuna attenzione alla condizione del soggetto danneggiante ed ai vantaggi da questi eventualmente conseguiti.
Se ne è ricavata, quindi, la funzione meramente riparatoria della responsabilità aquiliana.
Tuttavia, la giurisprudenza si è dovuta nel tempo confrontare con due aspetti che hanno portato ad una rivisitazione di tale orientamento.
L’evoluzione giurisprudenziale: i punitive damages
Innanzitutto, ha assunto rilievo la tematica del cosiddetto illecito efficiente, figura speculare a ciò che, in tema di responsabilità contrattuale, si definisce inadempimento efficiente, ossia quell’inadempimento i cui costi, cioè il risarcimento del danno, risultano per il debitore meno onerosi rispetto ai costi della prestazione dovuta, con la conseguenza che al debitore conviene più rendersi inadempiente che adempiere all’obbligazione.
Specularmente, per illecito efficiente si intende l’ipotesi in cui la condotta dell’agente gli procuri un vantaggio superiore al danno cagionato alla controparte, di guisa che, anche laddove il danneggiante venga condannato al risarcimento del danno, egli risulterebbe comunque arricchito dalla condotta illecita tenuta.
Non vi è chi non veda la sostanziale ingiustizia di un sistema che sembra consentire un arricchimento dovuto alla commissione di un illecito. Ove si ritenesse, infatti, che il risarcimento abbia come unica funzione quella riparatoria e che debba essere quantificato esclusivamente in base al danno patito, si finirebbe per incentivare la commissione di illeciti che producano un vantaggio superiore al danno cagionato.
Il secondo aspetto con cui la giurisprudenza si è dovuta confrontare è rappresentato da un dato positivo. Si è preso atto, infatti, di una serie di disposizioni legislative speciali che, evidentemente ispirate all’esigenza di evitare le irragionevoli conseguenze di cui si è detto innanzi, espressamente prevedono il potere del giudice di quantificare il danno risarcibile alla luce anche del vantaggio conseguito dal danneggiante o, comunque, indipendentemente dal danno subito dall’altro.
Il riferimento è innanzitutto all’art. 125 d. lgs. 30/2005 (Codice della proprietà industriale) che individua due criteri di determinazione del danno risarcibile.
Infatti, al comma 1, la citata disposizione stabilisce che il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 c.c. e, quindi, non apporta alcuna significativa novità alla disciplina generale codicistica.
Viceversa, il successivo comma 3 prevede che in ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento.
È la già richiamata tematica dell’illecito efficiente: il giudice può quantificare il risarcimento dovuto in base al vantaggio conseguito dall’agente quando questo sia maggiore rispetto al danno cagionato.
Secondo la tesi più accreditata, la norma, fortemente asistematica rispetto al nostro ordinamento civile, positivizza la figura anglosassone dei punitive damages, in quanto espressamente consente al giudice di derogare all’art. 1223 c.c., parametrando il quantum del risarcimento agli utili realizzati dal danneggiante.
Un ruolo analogo è attribuito, poi, all’art. 96, co. 3 c.p.c., introdotto nel 2009 per supplire all’inefficienza dei due commi precedenti rispetto al fine di evitare liti temerarie e, quindi, ridurre il carico di lavoro per la magistratura civile.
I primi due commi dell’art. 96 c.p.c., infatti, prevedono la possibilità per il giudice, su istanza di parte, di condannare il soccombente che abbia agito o resistito in giudizio in mala fede o colpa grave alle spese ed al risarcimento dei danni.
Tuttavia, l’esperienza giudiziaria ha manifestato in modo evidente le complessità applicative di tali norme, dovute alla difficoltà di provare il danno patito dalla parte vittoriosa e, soprattutto, di quantificarlo. Dunque, le citate disposizioni non rispondevano adeguatamente all’esigenza deflattiva del contenzioso.
Il successivo comma 3 della norma, quindi, ha introdotto la possibilità per il giudice di condannare la parte soccombente al “pagamento di una somma equitativamente determinata”.
L’uso dei termini evidenziati non è casuale, in quanto il legislatore, non definendo il nuovo strumento come risarcimento, lo ha svincolato dalla funzione riparatoria tipica dell’obbligazione risarcitoria. Il nuovo istituto, quindi, non risponde a logiche riparatorie, mirando invece a sanzionare l’abuso, da parte del soccombente, della sua posizione processuale.
D’altronde, che l’art. 96, co. 3 c.p.c. preveda uno strumento con funzione sanzionatoria è altresì confermato da due ulteriori rilievi: da un lato, la sua quantificazione in via equitativa, e non secondo le regole di cui agli artt. 1223 ss c.c., dall’altro, la possibilità di esperirlo d’ufficio da parte del giudice, indicativa del bene sovraindividuale che la norma mira a tutelare.
La disposizione, infatti, non è posta a salvaguardia degli interessi della parte vittoriosa, bensì del bene superiore della corretta amministrazione della giustizia, che risulta leso dalle liti temerarie.
Qualcuno ha obiettato, sollevando questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, co. 3 c.p.c., che se il bene tutelato fosse effettivamente la giurisdizione, la norma avrebbe dovuto prevedere il pagamento della somma non già in favore della controparte vittoriosa, bensì dell’erario, vero soggetto danneggiato.
Tuttavia, la Consulta, nel rigettare la questione, ha chiarito che non risulta irragionevole che, quantunque il bene tutelato sia sovraindividuale, la norma individui il beneficiario della somma nella parte privata, in quanto questa ha la possibilità di esigere l’adempimento del condannato con maggiore facilità e minori costi rispetto all’ente pubblico, per cui la previsione appare in linea con la richiamata funzione sanzionatoria.
La funzione sanzionatoria del risarcimento del danno: le Sezioni Unite del 2017
Sono numerose le altre norme che, in maniera analoga a quelle citate, prevedono ipotesi in cui il quantum del risarcimento prescinde dall’esatta determinazione del danno patito dal danneggiato, per cui qualunque elencazione sarebbe inutile e mai esaustiva.
Appare più opportuno considerare, invece, che le Sezioni Unite della Cassazione, con una recente pronuncia del 2017, dopo aver richiamato tali fattispecie, sono giunte per la prima volta a riconoscere la possibilità che, a determinate condizioni, nel nostro ordinamento il risarcimento del danno assolva anche ad una sanzionatoria.
La questione sottoposta all’attenzione della Suprema Corte, invero, non riguardava direttamente l’esistenza nel nostro sistema di danni c.d. punitivi, inerendo, invece, la possibilità di riconoscere nel nostro ordinamento le sentenze straniere che condannino taluno al risarcimento del danno con funzione sanzionatoria. Tuttavia, per rispondere a tale interrogativo, la Corte ha dovuto prendere posizione anche sulla diretta configurabilità di risarcimenti punitivi nel nostro Paese.
I Giudici di legittimità, prendendo le mosse dalle norme speciali innanzi citate, sono giunti ad affermare che la funzione sanzionatoria non è incompatibile con il fine riparatorio che innerva la responsabilità aquiliana, in quanto la tesi della incompatibilità si presenta anacronistica e, soprattutto, contrastante con i più recenti approdi legislativi.
Tuttavia, la Corte chiarisce che di norma l’obbligazione risarcitoria risponde ad una finalità riparatoria, sicchè la figura dei punitive damages è astrattamente configurabile nel nostro ordinamento ma solo laddove ciò sia espressamente previsto dalla legge, non essendo possibile, invece, ricavare una generale funzione sanzionatoria della responsabilità aquiliana.
Si evidenzia, in particolare, che l’art. 23 Cost., quando prevede che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge, sancisce il principio di legalità, che viene inteso in modo rigoroso dalla Corte, richiedendo che la prestazione risarcitoria a titolo sanzionatorio sia espressamente prevista dalla legge.
Questa precisazione comporta importanti riflessi in ordine al riconoscimento in Italia di sentenze straniere che condannino al risarcimento con funzione punitiva, in quanto, affinchè ciò sia possibile, è necessario, secondo la Suprema Corte, che i c.d. danni punitivi siano previsti, nell’ordinamento straniero in questione, da una norma di legge idonea a garantire la tipicità della fattispecie, ossia gli elementi costitutivi della stessa, e la sua prevedibilità da parte dei destinatari.
Il principio di legalità inteso in senso così rigoroso richiama, a ben vedere, logiche proprie del diritto penale piuttosto che di quello civile e ciò non deve meravigliare, perché è coerente con la nuova funzione sanzionatoria ascrivibile all’obbligazione risarcitoria.
I rapporti tra le disposizioni speciali e il risarcimento codicistico
Avviandoci alla conclusione, pare opportuno scandagliare i rapporti tra le disposizioni speciali ed il generale criterio di determinazione del risarcimento individuato dalle norme codicistiche.
Secondo un primo orientamento condiviso dalla citata pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, infatti, resta fermo il principio della generale funzione riparatoria dell’obbligazione risarcitoria, potendo questa essere affiancata da una funzione sanzionatoria solo nelle ipotesi espressamente previste dalla legge, come nei casi sopra indicati.
Viceversa, un indirizzo più smaliziato sostiene che la funzione sanzionatoria sia implicita anche nell’art. 1223 c.c., mentre ciò che cambia tra le norme codicistiche e quelle speciali è semplicemente la prevalenza che viene attribuita ad una o all’altra funzione.
Le previsioni speciali, quindi, consentono di condannare al risarcimento del danno in funzione (anche) prevalentemente sanzionatoria, oltre che riparatoria, mentre secondo i canoni codicistici, il giudice può solo sanzionare il fatto illecito, obbligando al risarcimento del danno, che rappresenta il limite massimo del risarcibile, con conseguente prevalenza della funzione riparatoria su quella sanzionatoria.
Ne deriva che le due tensioni finalistiche che originariamente si ritenevano incompatibili sono invece, secondo questa innovativa impostazione, entrambe presenti nella stessa essenza della responsabilità aquiliana, con l’unico limite della indefettibilità del fine riparatorio, nel senso che la funzione sanzionatoria può accompagnare quella riparatoria, può essere addirittura prevalente rispetto ad essa, ma non può prescinderne.
In altri termini, il giudice non potrà condannare il danneggiante ad un risarcimento che sia assolutamente svincolato dall’esigenza di riparare il danno subito dal danneggiato.
Se ciò è vero, è altresì vero che non necessariamente il danno deve essere risarcito per intero per assolvere alla sua funzione sanzionatoria, essendo ben possibile, infatti, che il danneggiante sia condannato, a talune condizioni, ad un risarcimento inferiore al danno cagionato.
Un esempio pertinente è fornito dalla recente legge Gelli – Bianco in tema di responsabilità medica, che all’art. 7 ha stabilito tra l’altro che il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene del rispetto, da parte dell’esercente la professione sanitaria, delle linee guida e delle buone pratiche assistenziali.
Il quantum del risarcimento, quindi, non è determinato dal giudice solo rispetto al danno patito dal paziente, potendo essere ridotto, con funzione stavolta premiale, laddove il medico abbia rispettato le linee guida e le buone pratiche assistenziali.
In definitiva, oggi la funzione riparatoria non è più l’unica che il risarcimento del danno è chiamato ad assolvere, perché, quantunque non possa prescindersi da essa, la stessa può essere accompagnata, purchè ciò sia previsto dalla legge, da altre finalità, quali quella sanzionatoria e quella premiale, scopi che incidono profondamente non solo sulla possibilità di riconoscere la responsabilità aquiliana in capo al danneggiante, ma anche sulla determinazione del danno risarcibile.
Fonte: Resp. civ. e prev., fasc.1, 2001, pag. 18
Autori: Stefano Bastianon
RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA SUL DANNO PATRIMONIALE ALLA PERSONA
1. Premessa. – 2. Danno alla salute e danno patrimoniale. – 3. Danno patrimoniale e lesione della capacità lavorativa. – 4. Danno patrimoniale e incapacità lavorativa specifica. – 5. La prova del danno patrimoniale da lucro cessante: l’art. 4 l. n. 39/77. – 6. Danno patrimoniale e reddito futuro. – 7. I minori e il reddito futuro. – 8. Il danno patrimoniale e i congiunti.
1. Premessa.
In materia di danno alla persona lato sensu inteso, il tema della risarcibilità del danno patrimoniale da lucro cessante, ossia di quello che Franco Bile ha felicemente definito il “danno da compromissione del reddito”, rappresenta indubbiamente un aspetto che, nonostante i fiumi di inchiostro versati sia dal formante giurisprudenziale sia da quello dottrinale, continua a mantenere vivo l’interesse dell’interprete. Sotto il profilo meramente quantitativo, infatti, l’operatore giuridico non può rimanere indifferente rispetto al considerevole numero di sentenze che ogni anno la giurisprudenza, di merito e di legittimità, pronuncia proprio in tema di danno patrimoniale; da un punto di vista qualitativo, invece, è sufficiente leggere alcune di tali pronunce per rendersi conto delle difficoltà che, alle soglie del terzo millennio, alcune corti di merito ancora incontrano nel gestire e, soprattutto, nell’applicare concetti quali “incapacità lavorativa generica”, “prova del danno patrimoniale”, “prova presuntiva”, “diminuzione del reddito” ed altre simili.
Nelle pagine che seguono, pertanto, senza alcuna pretesa di esaustività, si cercherà di dare conto di quelle che ancora oggi rappresentano alcune delle principali problematiche connesse al tema della risarcibilità del danno patrimoniale in senso stretto unitamente agli orientamenti elaborati dalla giurisprudenza in subiecta materia2. Danno alla salute e danno patrimoniale.
A rischio di fare etichettare l’inizio di questo lavoro come il classico frutto della fatica dell’ovvio, mi sembra importante, per tutte le implicazione che inevitabilmente ne scaturiscono, richiamare la nota dicotomia, divenuta ormai vero e proprio ius receptum, che qualifica, da una parte, la lesione all’integrità psicofisica (c.d. danno biologico) come un danno evento, sempre presente e sempre risarcibile indipendentemente dalle ripercussioni della lesione sulla capacità di reddito della vittima ; e, dall’altra, il danno patrimoniale come un danno conseguenza, risarcibile soltanto se e nella misura in cui venga accertata una flessione, attuale o futura, delle capacità reddituali del soggetto leso.
Secondo Cass. n. 4801/99, infatti, “il danno biologico è un danno evento, che trova la sua fonte di tutela nell’art. 2043 c.c., accanto al danno patrimoniale vero e proprio (art. 2043 c.c.) e al danno morale (art. 2059 c.c.), che sono tipici danni conseguenze. L’evento biologico della menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé considerata, dà luogo di per sé al danno biologico, che come tale va provato e risarcito, indipendentemente dal fatto se da detta menomazione sia poi derivata anche una perdita patrimoniale (intesa anche sotto il profilo della mancanza di guadagno), che costituisce quindi un danno conseguenza, ontologicamente differente da quello biologico”Non deve, pertanto, stupire la presa di posizione di Cass. n. 3119/95 secondo cui “il risarcimento del danno biologico, inteso come menomazione all’integrità psicofisica del soggetto, costantemente presente in ogni fatto illecito che arrechi danno alla persona in sé e per sé considerata, non comporta una duplicazione della liquidazione di un elemento di danno in relazione a quello connesso all’attività lavorativa, prendendosi in questo secondo caso in considerazione le perdite e il mancato guadagno in dipendenza della menomata capacità lavorativa e di guadagno del soggetto. Non può, dunque, esistere in linea di principio la lamentata duplicazione, trattandosi di danni ontologicamente diversi, l’uno, quello patrimoniale, strettamente legato all’effettiva riduzione della capacità di guadagno e l’altro, quello biologico, associato alla menomazione degli attributi e dei requisiti biologici della persona, nella cui valutazione assume preminente rilievo la gravità dell’inabilità”
Più recentemente, ma in perfetta sintonia con il passo testé riportato, Cass. n. 4231/99 ha sottolineato che da tempo “la giurisprudenza ha enucleato con sufficiente precisione il concetto di danno alla salute, distinguendolo da quello patrimoniale alla persona: il primo consiste nel livello di integrità psicofisica della persona (o, più precisamente, nella incidenza negativa che il fatto lesivo determina rispetto al livello precedente al suo verificarsi); il danno patrimoniale alla persona, invece, consiste nel pregiudizio che il fatto lesivo determina nella capacità di produrre reddito da parte della persona danneggiata. Le due voci di danno attengono a due distinte sfere di riferimento con la conseguenza che il giudice deve procedere a due distinte liquidazioni”
3. Danno patrimoniale e lesione della capacità lavorativa.
Una volta chiarita la natura del danno patrimoniale “puro” e la sua ontologica diversità rispetto al danno biologico – inteso come “menomazione dell’integrità psicofisica in sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si ricollega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica, e si estende quindi a tutti gli effetti negativi incidenti sul bene primario della salute, quale diritto inviolabile alla pienezza della vita e all’esplicazione della propria personalità morale, intellettuale e culturale” -, viene automaticamente meno qualsiasi necessità di mantenere l’antica, quanto inopportuna, distinzione tra la cd. capacità lavorativa generica e la c.d. capacità lavorativa specifica.
Preso atto, infatti, che la nascita del danno biologico e la sua conseguente autonoma risarcibilità ha eliminato in radice la stessa necessità di assicurare sempre e comunque la liquidazione di una somma di denaro anche nei casi in cui la vittima non ha risentito una perdita o una riduzione del reddito, la Cassazione non ha potuto fare altro che riconoscere la finzione sottesa alla nozione di incapacità lavorativa generica. Secondo Cass. n. 3260/93, infatti, “la riduzione della capacità lavorativa generica, intesa come potenziale attitudine alla prestazione di attività lavorativa da parte di un soggetto che non svolge al momento attività produttiva di reddito né sia in procinto presumibilmente di svolgerla, in quanto costituente lesione di un generico modo di essere del soggetto che non comporta alcun rilievo sul piano della produzione di reddito e, quindi, si sostanzia in una menomazione della salute intesa in senso lato, è risarcibile perciò in quanto tale e, cioè, come danno biologico (…). Risulta infatti errata l’affermazione (…) secondo cui con la voce ‘danno biologico’ si risarcisce esclusivamente la lesione al bene della integrità psicofisica dell’individuo in sé e per sé considerata senza tener conto dei riflessi sulla capacità lavorativa del soggetto, perché ciò non è sempre vero in quanto, quando tali riflessi consistono (…) nella diminuzione della capacità lavorativa generica, intesa come innanzi s’è visto, affermare la sua autonoma risarcibilità significherebbe duplicare, ai fini risarcitori, la valenza dello stesso fatto, considerato per un verso danno alla salute e, per l’altro, menomazione della capacità lavorativa”
Tale principio è stato successivamente ribadito in diverse altre pronunce, alcune delle quali anche molto recenti. In Cass. 6736/98, infatti, la Cassazione ha sottolineato che “una volta affermato il diritto al risarcimento del danno cosiddetto biologico (cioè dei pregiudizi che la persona risente in conseguenza della menomazione arrecata alla sua integrità fisiopsichica e che sono rappresentati dall’incidenza negativa di tale menomazione sull’esplicazione delle attitudini del soggetto nella sfera privata e nelle relazioni sociali), anche la cosiddetta capacità lavorativa generica – e cioè la potenziale attitudine all’attività lavorativa – si presenta come un aspetto della personalità, e perciò il risarcimento del danno biologico ne esaurisce la rilevanza”
(Analogamente, in Cass. n. 4231/99 il Supremo Collegio, riprendendo un concetto già elaborato anche da Cass. n. 8769/98 ha sottolineato nuovamente che, proprio perché “il danno biologico è indipendente dal ruolo che i requisiti e attributi biologici della persona sono in grado di svolgere sulle capacità di reddito, la riduzione della capacità lavorativa generica, in quanto costituisce lesione di un generico modo di essere del soggetto che non comporta alcuna conseguenza sul piano della produzione del reddito, è risarcibile solo quale danno biologico”. Secondo i giudici della legittimità, invero, non par dubbio “che il danno patrimoniale alla persona può essere liquidato soltanto quando si accerti, anche a mezzo di presunzioni semplici, che il singolo soggetto danneggiato che agisce per il risarcimento, per effetto del fatto lesivo della sua integrità psicofisica, subirà una perdita della sua specifica capacità futura di guadagno. In difetto di tale prova, la menomazione della sua capacità lavorativa, non incidente sulla specifica capacità futura di guadagno, deve rilevare sotto il profilo del danno alla salute”
Più recentemente, Cass. n. 13460/99 ha confermato la pronuncia resa dal giudice di secondo grado che aveva escluso il risarcimento del danno patrimoniale da invalidità permanente sul presupposto che la vittima non aveva provato di aver subito una perdita patrimoniale e, quindi, un danno patrimoniale da lucro cessante, sottolineando che “la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine del soggetto all’attività lavorativa indipendentemente dalla produzione di un reddito, è risarcibile quale danno biologico”
È noto, tuttavia, che i pregiudizi sono duri a morire. Non deve, pertanto, stupire la presa di posizione di Cass. n. 4685/99 la quale, contrariamente al principio secondo cui “ove la lesione – pur non contraendo il reddito – renda più onerosa l’erogazione dell’energia lavorativa, di tale fatto deve tenersi debito conto nella liquidazione del danno biologico, vuoi elevando il grado percentuale di invalidità permanente (…), vuoi incrementando il valore monetario del punto di invalidità” , ha ritenuto che “in caso di lesioni subite da un lavoratore dipendente, l’invalidità parziale permanente rende presumibile l’influenza negativa sulla percezione di speciali compensi per una prestazione di lavoro più intensa del normale o sull’ulteriore sviluppo di carriera o su una possibilità di lavoro alternativo, oppure può richiedere l’impiego di uno sforzo maggiormente usurante per mantenere il precedente standard lavorativo, talché la circostanza che il detto lavoratore abbia trovato altra occupazione con eguale retribuzione non vale ad escludere il risarcimento per lucro cessante”. Di contrario avviso, si è invece recentemente mostrata Cass. n. 6616/00 che ha ribadito il principio secondo cui nulla spetta a titolo di risarcimento del danno patrimoniale da invalidità permanente al lavoratore dipendente che non sia in grado di fornire la prova “di aver subito alcun pregiudizio economico in conseguenza delle lesioni riportate avendo regolarmente continuato a percepire il reddito da lavoro di cui fruiva e avendo continuato a svolgere la stessa attività in precedenza espletata sulla quale nessuna incidenza hanno avuto le lesioni riportate”
4. Danno patrimoniale e incapacità lavorativa specifica.
Prima di passare all’esame della prova del danno patrimoniale non appare superfluo svolgere alcune brevi osservazioni in merito al rapporto che intercorre tra la riduzione della capacità lavorativa specifica e la risarcibilità del danno patrimoniale. È noto, infatti, che uno degli errori più frequentemente commessi è quello di voler ravvisare a tutti i costi una sorta di equazione tra la riduzione della capacità lavorativa specifica e il danno patrimoniale da invalidità (sia essa temporanea o permanente) tale per cui provata la prima risulterebbe provato anche il secondo.
Per contro, da numerose pronunce della Cassazione risulta evidente che l’accertamento della riduzione della capacità lavorativa specifica, pur essendo necessario ai fini della risarcibilità del danno patrimoniale, non è tuttavia sufficiente, dovendosi altresì verificare se la riduzione della capacità lavorativa specifica determina una riduzione della capacità di guadagno. Secondo Cass. n. 1764/98, infatti, “il giudice, oltre ad accertare in quale misura la menomazione fisica abbia inciso sulla capacità di svolgimento dell’attività lavorativa specifica e questa, a sua volta, sulla capacità di guadagno (e, quindi, di produrre ricchezza), deve anche accertare se e in quale misura in tale soggetto persista o residui, dopo e nonostante l’infortunio subito, una capacità generica ad attendere ad altri lavori, confacente alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte. Solo se dall’esame di questi elementi risulterà provata una riduzione della capacità di guadagno, il danno conseguente (e non la causa di questo, cioè la riduzione della capacità di lavoro specifica) sarà risarcibile sotto il profilo del lucro cessante” In quest’ottica, emblematica risulta la pronuncia resa da Cass. n. 4235/99 nella quale il ricorrente aveva impugnato la decisione resa in grado di appello osservando che in presenza di una lesione macropermanente (nella specie pari al 18%), non era necessaria la prova rigorosa della diminuzione della capacità lavorativa. Secondo il giudice di legittimità, per contro, “in tal modo il ricorrente prospetta il superamento del principio fondamentale per cui l’attore deve provare l’esistenza del danno del quale chiede il risarcimento. Anche senza richiamare la distinzione tra danno-effetto e danno-conseguenza e la qualificazione del danno patrimoniale alla persona come danno-conseguenza che deve essere ulteriormente dimostrato, è pacifico che il danno patrimoniale consiste nella diminuita capacità di produrre reddito specifica e personale derivante dal pregiudizio alla persona. Pertanto, quando l’attore non ne provi l’esistenza, la mancanza di prova non può essere sostituita da altri elementi o dal richiamo di norme che si ritengano attinenti alla quantificazione del pregiudizio. In particolare, posto che il lucro cessante futuro consiste in una riduzione del reddito concreta (anche se determinabile presuntivamente ed equitativamente), la sua prova non può esaurirsi nell’entità della lesione” Analogamente, nel caso deciso da Cass. n. 4385/99 il ricorrente aveva impugnato la decisione del giudice dell’appello che aveva escluso il risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante pur in presenza di un’accertata invalidità lavorativa specifica del 25%. La Cassazione, nel respingere il ricorso, rileva che “per costante giurisprudenza di questo S.C., il danno patrimoniale alla persona deve essere specificamente provato. Pertanto, il giudice deve accertare – in base alle prove fornite dall’attore danneggiato, ma anche avvalendosi delle presunzioni semplici per il danno da invalidità permanente che si proietta nel futuro – in quale misura la menomazione fisica (o psichica) abbia inciso sulla capacità di svolgimento dell’attività lavorativa specifica e questa, a sua volta, sulla capacità di guadagno (e, quindi, di produrre ricchezza). Ne deriva che il danno patrimoniale alla persona può essere liquidato soltanto quando si accerti, anche a mezzo di presunzioni semplici, che il singolo soggetto danneggiato che agisce per il risarcimento, per effetto del fatto lesivo alla sua integrità psicofisica, subirà una perdita della sua specifica capacità futura di guadagno. In difetto di tale prova, non sono sufficienti altre osservazioni o considerazioni che dovrebbero, come ritenuto dal ricorrente, sostituire la prova (positiva) mancante”5. La prova del danno patrimoniale da lucro cessante: l’art. 4 l. n. 39/77.
Se si conviene sul fatto che il danno patrimoniale da lucro cessante può e deve essere risarcito soltanto se e nella misura in cui l’accertata lesione si riflette sulla capacità del danneggiato di produrre reddito (attuale o futuro, si vedrà infra), non par dubbio che ai fini della quantificazione del risarcimento in parola il parametro di riferimento è quello rappresentato dal reddito della vittima
Ciò premesso, è noto che con l’art. 4 legge n. 39/77 (cd. legge sulla miniriforma della normativa in materia di r.c. auto) il legislatore nazionale ha introdotto una norma ad hoc destinata, perlomeno sulla carta, ad agevolare l’individuazione del reddito lavorativo a seconda del tipo di attività svolta dalla vittima.
Ai sensi del 1° comma dell’art. 4, infatti, “nel caso di danno alle persone, quando agli effetti del risarcimento si debba considerare l’incidenza dell’inabilità temporanea e dell’invalidità permanente su un reddito di lavoro comunque qualificabile, tale reddito si determina per il lavoro dipendente, sulla base del reddito di lavoro maggiorato dei redditi esenti e delle detrazioni di legge, e per il lavoro autonomo sulla base del reddito netto risultante più elevato tra quelli dichiarati dal danneggiato ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche negli ultimi tre anni (…)”
Resta, in ogni caso, salva la possibilità per il danneggiato di fornire la prova contraria rispetto ai dati risultanti dalla documentazione fiscale. Secondo Cass. n. 11368/96, infatti, “il danno patrimoniale da invalidità permanente ed inabilità temporanea, conseguite ad un sinistro stradale, va liquidato sulla base delle risultanze delle dichiarazioni dei redditi presentate dal danneggiato nei tre anni precedenti il sinistro, ai sensi dell’art. 4 l. n. 39/1977. Le risultanze di tali dichiarazioni, tuttavia, fondano una mera presunzione iuris tantum “sull’entità del reddito percepito dal danneggiato: ne consegue che questi, ove alleghi di aver presentato una dichiarazione infedele o di averla del tutto omessa, può sempre provare aliunde la reale consistenza dei propri redditi, fermo restando il questo caso l’obbligo del giudice di segnalare l’evasione al competente ufficio delle imposte“
Sicuramente più delicata risulta l’interpretazione del 3° comma della norma in esame a mente del quale, “in tutti gli altri casi il reddito che occorre considerare ai fini del risarcimento non può comunque essere inferiore a tre volte l’ammontare della pensione sociale”.
Se si osserva la giurisprudenza del Supremo Collegio sul punto, è possibile rinvenire due diverse interpretazioni dell’espressione “in tutti gli altri casi”. Secondo Cass. n. 10269/94, infatti, “in tema di risarcimento danni alla persona derivanti dalla circolazione stradale, il criterio di liquidazione previsto dall’art. 4 del d.l. 23 dicembre 1976, n. 857, convertito nella legge 26 febbraio 1977, n. 39, è applicabile nei soli casi in cui il danneggiato sia percettore di reddito di lavoro, poiché l’inciso “in tutti gli altri casi”, di cui al terzo comma del citato articolo, va riferito alle ipotesi in cui il reddito da lavoro non risulti in base ai criteri indicati nei due commi precedenti e non anche nelle ipotesi in cui il soggetto sia privo di un reddito”
Per contro, secondo Cass. n. 5669/94, l’espressione “in tutti gli altri casi” di cui al terzo comma dell’art. 4 “ricomprende (…) non solo l’ipotesi in cui l’invalidità permanente ed il conseguente danno futuro sia stato riportato da soggetti che non siano lavoratori dipendenti o autonomi, ma anche quella, più generale, in cui il danno futuro incida su soggetti attualmente privi di reddito, in relazione a particolari contingenze, ma potenzialmente idonei a produrlo”
Tale interpretazione “estensiva” è stata successivamente avallata dalla stessa Corte costituzionale con la pronuncia n. 445/95 secondo cui il terzo comma dell’art. 4 “è applicabile anche ai lavoratori dipendenti o autonomi non solo nell’ipotesi (…) di reddito attuale negativo in relazione a particolari contingenze, ma in tutte le ipotesi di reddito, anche positivo, con caratteristiche (esiguità, discontinuità o precarietà del lavoro, livello di mansioni inferiore alle capacità professionali del lavoratore, ecc.) tali da escludere che esso possa costituire la componente di base del calcolo probabilistico delle possibilità di reddito futuro, e sempre che il materiale probatorio non fornisca altri elementi di calcolo più favorevole di quello operato sulla base convenzionale del triplo annuo della pensione sociale”
6. Danno patrimoniale e reddito futuro.
In materia di risarcimento del danno conseguente alla menomazione della capacità reddituale della vittima, due sono le problematiche più frequentemente affrontate dalla giurisprudenza: da una parte, la difficoltà di fornire la prova di un danno che, in caso di invalidità permanente, finisce inevitabilmente per proiettarsi nel futuro con conseguente impossibilità di pervenire ad una precisa quantificazione dello stesso; e, dall’altra, la rilevanza da doversi attribuire all’assenza, al momento dell’evento lesivo, di un’attività lavorativa in atto, soprattutto nel caso di minori o comunque di soggetti ancora dediti agli studi. Sul punto, infatti, autorevole dottrina ha sottolineato che, se da una parte “non sorgono particolari problemi in tutti i casi in cui il soggetto leso né svolge attualmente né è ragionevolmente in procinto di svolgere in futuro una qualsiasi attività lavorativa (…), le cose cambiano quando il leso sia persona che pur non lavorando ancora o non lavorando più al momento dell’evento dannoso abbia nel proprio progetto di vita, secondo previsioni di ragionevole attendibilità, il prossimo inserimento nel mondo del lavoro”
A tale proposito, peraltro, da tempo la nostra giurisprudenza ha riconosciuto che “in tema di liquidazione dei danni conseguenti alle lesioni dell’integrità fisica, la mancanza di un reddito al momento dell’incidente subito da un soggetto che non abbia ancora raggiunto l’età lavorativa, può escludere il danno patrimoniale, sotto il profilo del lucro cessante, conseguente all’invalidità temporanea, ma non anche il danno futuro collegato all’invalidità permanente che, proiettandosi nel futuro, verrà ad incidere sulle capacità di guadagno della vittima dal momento in cui questa inizierà un’attività lavorativa”
Attraverso il riferimento alla nozione di danno futuro, pertanto, è stato possibile riconoscere, anche ai soggetti attualmente privi di reddito, il risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, senza per questo ricorrere all’ormai anacronistica finzione rappresentata dall’incapacità lavorativa generica. In altre parole, ciò che conta quando ci si trova in presenza di soggetti non ancora svolgenti una determinata attività lavorativa, non è tanto fare riferimento alla cd. capacità lavorativa specifica – che non avrebbe alcun senso -, bensì riferirsi alla “capacità di produrre reddito, attuale o futuro”, da determinarsi “secondo un corretto giudizio di prognosi sulle concrete attitudini e potenzialità del soggetto”
A questo punto, tuttavia, il discorso si sposta inevitabilmente sul problema della prova di un danno che, tanto in un caso quanto nell’altro, si qualifica necessariamente come futuro.
Sotto tale profilo, l’orientamento della Cassazione risulta consolidato e costante nell’affermare che “quanto al danno patrimoniale da invalidità permanente, trattandosi di danno che si proietta nel futuro e, quindi, da valutare su base prognostica, il danneggiato ovviamente nell’ambito delle prove potrà avvalersi anche delle presunzioni semplici, per cui provata la riduzione della capacità di lavoro specifico, se essa è di una certa entità e non rientra tra i postumi permanenti di piccola entità (cd. micropermanenti, le quali non sono producenti danno patrimoniale, ma costituenti solo componenti del danno biologico) può presumersi che anche la capacità di guadagno risulti ridotta nella sua proiezione futura (non necessariamente in modo proporzionale), qualora già svolga un’attività o presumibilmente la svolgerà. Trattasi, però, pur sempre di una prova presuntiva e non di un automatismo, con la conseguenza che potrà essere superata dalla prova che, nonostante la riduzione della capacità di lavoro specifico, non vi è stata alcuna riduzione della capacità di guadagno e, quindi, che non vi è stato alcun danno patrimoniale in concreto”
Emblematico del principio testé illustrato risulta il caso deciso da Cass. n. 3961/99 relativo ad un chirurgo plastico che a seguito di un sinistro stradale aveva riportato postumi invalidanti nella misura del 9%, oltre ad un’invalidità temporanea totale di quaranta giorni e un’invalidità temporanea parziale (nella misura del 50%) per ulteriori venti giorni. In quella occasione, infatti, il Supremo Collegio ha sottolineato che “le lesioni personali, le quali abbiano una notevole e negativa incidenza sullo svolgimento della vita lavorativa, incidono presuntivamente sulla capacità di guadagno e di concorrenza dell’individuo (…). Quindi, mentre al lavoratore dipendente, che durante il periodo di invalidità totale temporanea ha percepito l’intera retribuzione dal suo datore di lavoro, nulla spetta a titolo di risarcimento di questa causale (…), non altrettanto può dirsi per il lavoratore autonomo. Quest’ultimo soggetto, quanto meno sotto il profilo della presunzione semplice, salvo prova contraria, va ritenuto che abbia avuto una riduzione del suo reddito pari per grado e durata all’invalidità temporanea che l’ha colpito, salva l’ipotesi che detto grado di invalidità sia talmente ridotto (microinvalidità), da non potersi egualmente presumere che abbia influito sulla capacità di lavoro e, quindi, sulla capacità di produrre reddito”
Sul carattere necessariamente presuntivo dell’accertamento del danno patrimoniale futuro, Cass. n. 11616/92 ha sottolineato che il giudice deve fare riferimento “a tutte quelle circostanze, relative alla natura del lavoro svolto dal danneggiato, alle sue prospettive di carriera e di guadagno futuro ed al possibile incremento di questo, sulle quali possa comunque incidere quell’invalidità, limitando od escludendo il conseguimento di ulteriori vantaggi. Trattandosi di un giudizio che si proietta nel futuro e che si fonda, quindi, su una previsione, la liquidazione non può che essere equitativa (…)”
Sui delicati rapporti tra prova presuntiva e automatismo, interessante risulta anche il caso deciso da Cass. n. 4231/99 nel quale la vittima aveva impugnato la sentenza resa in secondo grado in base al rilievo secondo cui, una volta accertata l’esistenza di una menomazione dell’integrità psicofisica pari al 25%, non sarebbe stato possibile escludere in capo al danneggiato il diritto al risarcimento del danno patrimoniale che sarebbe necessariamente e automaticamente derivato dalla lesione estetica. Il Supremo Collegio, infatti, se da una parte si dà carico di stigmatizzare l’errore commesso dal giudice di seconde cure che – disattendendo il consolidato orientamento della Cassazione in materia di micropermanenti – aveva escluso la sussistenza del danno patrimoniale in considerazione del fatto che le lesioni riscontrate non si potevano ragionevolmente ritenere idonee a determinare una diminuzione di guadagno futuro, anche in virtù delle facoltà di compensazione dell’organismo umano, dall’altra ha correttamente respinto il ricorso proposto in considerazione del fatto che la vittima, lungi dal fornire la prova della propria diminuita capacità reddituale, si era limitata ad invocare l’ automatica e presumibile rilevanza patrimoniale del danno alla salute. Tale pronuncia, pertanto, solo apparentemente contraddice Cass. n. 3635/97 che ha ritenuto risarcibile, in via autonoma, sotto il profilo patrimoniale, il danno estetico anche nel caso in cui la lesione si configuri, da un punto di vista prettamente biologico, come una micropermanente
In tale occasione, infatti, il Supremo Collegio ha certamente innovato la propria precedente giurisprudenza sia riconoscendo al danno estetico una componente patrimoniale autonomamente risarcibile sia, soprattutto, riconoscendo tale voce di danno anche in presenza di una lesione di lievissima entità; ma in nessun caso il giudice della legittimità sembra aver voluto svincolare la risarcibilità di tale voce di danno dalla prova di una flessione, attuale o futura, del reddito della vittima, come invece pretendeva la ricorrente nella pronuncia resa da Cass. 4231/99.
Al fine di liberare il campo da pericolosi quanto inopportuni fraintendimenti, deve inoltre essere sottolineato che la prova presuntiva di cui si è fatto cenno non riguarda esclusivamente le lesioni di una certa entità, ma opera, seppur diversamente, anche in materia di cd. micropermanenti. Mentre, infatti, in caso di lesioni di non modesta entità si presume che l’evento lesivo determini una riduzione della capacità reddituale della vittima, ferma restando la possibilità per il giudice di escludere il risarcimento per tale voce di danno allorché sussista la prova contraria, nel caso di micropermanenti è la vittima che si trova costretta a fornire la prova contraria in grado di vincere la presunzione di irrilevanza patrimoniale della lesione in oggetto
In materia di danno patrimoniale, pertanto, nessun automatismo può essere invocato né per affermare né per escludere l’esistenza di una riduzione della capacità della vittima di produrre reddito. In entrambi i casi ciò che opera è solo una presunzione semplice, rispettivamente di rilevanza o di irrilevanza patrimoniale della lesione in parola, superabile dalla prova contraria.
7. I minori e il reddito futuro.
Indubbiamente il tema del risarcimento del danno patrimoniale subito dai minori o comunque da soggetti non ancora svolgenti un’attività lavorativa specifica ha da sempre stimolato l’attenzione degli interpreti in considerazione delle non marginali problematiche sottese all’istituto in parola. Si è già visto che per la nostra giurisprudenza l’assenza di un reddito attuale al momento del verificarsi della lesione non ha impedito, in caso di postumi invalidanti permanenti, il riconoscimento in capo alla vittima del risarcimento del danno patrimoniale conseguente alla diminuita capacità reddituale futura.
Il vero problema, per contro, è stato quello di individuare l’attività lavorativa futura che il minore avrebbe ragionevolmente svolto e, conseguentemente, quello di procedere ad una corretta quantificazione del danno patrimoniale (futuro) da lucro cessante.
La soluzione adottata all’epoca del sistema tradizionale è a tutti nota: in assenza di un reddito attuale, al minore veniva attribuito, inventandolo, un reddito futuro molto spesso sulla base non già della capacità reddituale del soggetto leso, bensì di quella del padre, dando vita a quelli che sono stati definiti veri e propri risarcimenti per caste. L’avvento del danno alla salute come danno sempre presente e sempre risarcibile in quanto danno-evento, se da una parte ha spazzato via le elaborazioni del sistema tradizionale, dall’altra non sembra avere ancora risolto definitivamente il problema in esame. A questo punto il discorso ritorna inevitabilmente all’art. 4, 3° comma, l. n. 39/77 e alla locuzione “in tutti gli altri casi” in esso contenuta. Infatti, poiché si è visto che alcune pronunce della Cassazione, avallate dalla stessa Consulta, hanno optato per una interpretazione estensiva della norma in esame riconoscendo che il criterio del triplo della pensione sociale dovesse trovare applicazione non solo nel caso in cui l’invalidità permanente e il conseguente danno futuro sia stato riportato da soggetti che non siano lavoratori autonomi o dipendenti, ma “più in generale, allorché il danno futuro incida su soggetti attualmente privi di reddito, ma potenzialmente idonei a produrlo”, quali, ad esempio, il minore o il disoccupato, in diverse occasioni il parametro oggettivo rappresentato dal triplo della pensione sociale è stato utilizzato come strumento attraverso il quale procedere alla quantificazione del danno patrimoniale futuro risentito dalla vittima. La linearità dell’approccio testé ricordato, tuttavia, non ha impedito l’emergere di una soluzione alternativa, fondata prevalentemente su una valutazione in via presuntiva ed equitativa. Sintomatica di tale diverso orientamento risulta Cass. n. 2280/88 la quale, se da una parte ha escluso categoricamente la possibilità di applicare l’art. 4 l. n. 39/77 nell’ipotesi in cui il danneggiato non percepisca alcun reddito, dall’altra ha precisato che “tale inapplicabilità non comporta la non risarcibilità del danno da invalidità permanente, la quale, intesa come condizione impeditiva o riduttiva dell’attitudine al lavoro, pur in mancanza di un guadagno alla data dell’incidente, non può essere di per sé esclusa per effetto della sola età del danneggiato (al quale l’illecito arreca una diminuzione patrimoniale derivante da un fatto che è attuale, anche se manifesta le sue conseguenze economiche in un momento successivo) e deve essere valutata, in mancanza di un reddito, secondo i normali criteri da adottarsi per la liquidazione dei danni futuri e, quindi, in riferimento all’età e alle presumibili residue capacità del danneggiato dopo il sinistro, tenendo conto anche dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa, in base al principio dell’ id quod plerumque accidit e ricorrendo alla valutazione equitativa, consentita dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ.”Analogamente, nel caso deciso da Cass. n. 6420/98, il giudice della legittimità ha confermato la decisione resa dalla Corte di appello di Milano la quale aveva rilevato “che trattandosi di invalidità permanente subita da un minore non ancora svolgente attività lavorativa, il danno consistente nel minor guadagno che l’infortunato avrebbe in futuro percepito rispetto a quello che avrebbe percepito se la sua capacità non fosse stata menomata, non poteva che essere determinato attraverso presunzioni sulla base del tipo di attività lavorativa che il minore avrebbe svolto. In tale situazione, la Corte territoriale, avendo correttamente ritenuto inapplicabile quanto disposto dal comma 1 dell’art. 4 della legge n. 39/77, ha legittimamente fatto riferimento ex comma 2 ai fatti noti desunti “dall’avvenuto conseguimento del diploma di tecnico in apparecchiature televisive conseguito [dalla vittima], così determinando in via presuntiva ed equitativa la misura del reddito futuro con la conseguente esclusione della possibilità di ricorrere al comma 3”
(Per così dire a metà strada tra i due orientamenti testé ricordati si colloca Cass. n. 1801/91 la quale, pur senza escludere la possibilità di fare riferimento al criterio del minimo legale di cui all’art. 4, comma 3, l. n. 39/77 per quantificare il danno da invalidità permanente subito da un soggetto non ancora svolgente un’attività lavorativa, ha precisato che detto criterio “può operare solo sussidiariamente dopo la ricerca e la valutazione degli elementi di determinazione del reddito del futuro quali l’età del danneggiato, gli studi compiuti, le condizioni familiari e sociali, e nel quadro dei risultati di tale indagine”
Più in generale, mi sembra che gli angoli di (apparente) contrasto tra le diverse interpretazioni prospettate dalla Cassazione possano essere facilmente smussati, attraverso una macro distinzione all’interno del concetto di “soggetti in età non lavorativa”. L’idea, infatti, potrebbe essere la seguente: nel caso in cui la vittima sia un soggetto in età tale da escludere qualsiasi possibilità di prevedere la sua futura attività lavorativa (come nel caso del fanciullo non ancora scolarizzato), si dovrà necessariamente ricorrere al parametro forfettario del triplo della pensione sociale annua, e non già ad una valutazione più o meno equitativa sulla scorta della professione del genitore, come invece talvolta affermato dalla giurisprudenza, pena, altrimenti, il rischio di risvegliare i fantasmi di anacronistici, quanto inopportuni, risarcimenti “per caste”. In presenza, invero, di un parametro oggettivo come quello enunciato dal 3° comma dell’art. 4 l. n. 39/77 e di un soggetto che in ragione della tenera età non può manifestare alcuna particolare inclinazione verso un’attività piuttosto che un’altra, il riferimento all’attività del genitore risulta eccessivamente discriminatorio nei confronti delle classi sociali meno abbienti, oltreché giuridicamente inaccettabile nella misura in cui non tiene in alcuna considerazione il dettato dell’art. 34 Cost. a mente del quale “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Per contro, nel caso in cui sia possibile individuare, sulla base di fatti noti quali l’età del minore, le sue particolari attitudini, gli studi compiuti, le concrete prospettive di lavoro offerte nella zona in cui la vittima vive nonché la probabile attività futura della vittima, il criterio legale di cui al citato art. 4 dovrà lasciare il passo ad una valutazione presuntiva ed equitativa di tali elementi
La linearità di tale ricostruzione, peraltro, potrebbe essere vanificata da alcune recenti prese di posizione della Suprema Corte in ordine alla portata ratione personae dell’art. 4 l. n. 39/77. È noto, infatti, che nonostante le perplessità manifestate sul punto da parte della dottrina, la Cassazione ha costantemente affermato che il disposto dell’art. citato rappresenta una norma eccezionale che si riferisce solo all’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore e non anche all’azione che il danneggiato proponga nei confronti del responsabile, posto che detto rapporto è diverso e indipendente da quello assicurativo. Ne consegue, quindi, che “nel rapporto tra il responsabile ed il danneggiato, nulla è innovato. Pertanto, il danno, a norma del combinato disposto di cui agli artt. 2056 e 1226 c.c., andrà liquidato in via equitativa dal giudice, essendo fondato su situazioni future ed ipotetiche, conoscibili soltanto come probabili o possibili. Senonché, nell’ambito di detta valutazione equitativa per i danni futuri, il giudice può assumere come criterio di orientamento anche quello del triplo della pensione sociale indicato nell’art. 4 d.l. n. 857/77.
In altre parole, se il carattere (necessariamente) presuntivo ed equitativo della quantificazione di un danno futuro legittima il giudice a ricorrere al parametro legale del triplo della pensione sociale, seppur a titolo di criterio di orientamento, allora il rischio è che per tutti i casi di vittime non ancora in età lavorativa per i quali era stata ritenuta preferibile una quantificazione del danno in chiave prettamente equitativa sulla base delle specifiche particolarità del caso concreto, il criterio di cui all’art. 4, dopo essere stato estromesso per la porta, finirebbe inevitabilmente per rientrare dalla finestra. Certo: Cass. n. 4801/99 dice soltanto che il giudice può, e non deve, ricorrere al parametro legale e che in ogni caso quest’ultimo deve essere valutato a mero titolo di orientamento; ma il sospetto che il dictum del Supremo Collegio possa schiudere le porte ad una applicazione meccanica e generalizzata del criterio di cui all’art. 4 l. n. 39/77 è concreto.
8. Il danno patrimoniale e i congiunti.
Un discorso a parte merita, da ultimo, il problema del risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante subito dai congiunti in caso di morte della vittima.A tale riguardo, è noto che sin dal lontano 1970 la Cassazione ha riconosciuto l’autonoma risarcibilità di tale voce di danno, portando in esponente il fatto che “il danno patrimoniale subito da una famiglia a seguito della morte del suo capo, è costituito dalla perdita di quella parte di reddito economico che, prodotto dall’attività lavorativa del defunto, sarebbe stata destinata alla famiglia stessa. Correlativamente, la liquidazione di tale danno richiede due calcoli distinti: l’uno, preventivo, volto alla determinazione del reddito presumibilmente conseguibile dall’infortunato nel corso della sua vita lavorativa; l’altro, successivo, volto alla determinazione della parte di questo reddito che sarebbe stata destinata alla famiglia”
Ciò premesso, le questioni principalmente dibattute dalla nostra giurisprudenza attengono ai criteri in base ai quali liquidare il danno in esame. In tale ottica, pur essendo stato affermato che, trattandosi di un danno che tipicamente si proietta nel futuro, la sua liquidazione non può avvenire che in via equitativa “stante la pratica impossibilità di provvedere alla relativa determinazione con assoluta precisione”, in diverse occasioni la Cassazione è intervenuta temperando tale principio e attribuendo decisiva importanza anche alla valutazione di fattori quali l’età della vittima, le sue condizioni socio-economiche, la retribuzione percepita al momento del decesso, l’attività svolta dai genitori ovvero dagli altri prossimi congiunti. Per contro, nessuna rilevanza può essere attribuita, per negare il diritto al risarcimento, al fatto che i congiunti siano autosufficienti ovvero che non versino in uno stato di indigenza.
Per quanto riguarda il primo di tali aspetti, infatti, Cass. n. 12020/95, richiamando un orientamento costante del giudice della legittimità, ha sottolineato che “il raggiungimento da parte dei figli della maggiore età e dell’idoneità al lavoro produttivo non segna un limite invalicabile alla risarcibilità del danno derivato dalla morte del genitore, stante l’aspettativa dei superstiti di poter beneficiare degli eventuali risparmi che il defunto avrebbe costituito con la parte di reddito non destinata a proprie spese o alla famiglia”
Per quanto riguarda il secondo aspetto, invece, si segnala Cass. n. 10085/98 che ha cassato la pronuncia resa dal giudice di secondo grado in quanto quest’ultimo aveva “escluso che vi fossero elementi per ritenere che i genitori e i fratelli della vittima avrebbero in futuro beneficiato di contributi economici da parte del defunto in base all’esclusiva considerazione che non vi era in atti alcuna prova dello stato di indigenza o di bisogno dei familiari”
Più delicato, per contro, si presenta il problema di stabilire se in sede di liquidazione del danno patrimoniale futuro subito dai familiare per la morte di un congiunto si debba tenere conto anche dei probabili incrementi di guadagno della vittima. Per quanto riguarda il lavoratore dipendente, Cass. n. 8127/94 ha dato al quesito una risposta affermativa evidenziando che “il giudice deve tenere conto non solo del reddito della vittima al momento del sinistro, ma anche dei probabili incrementi di guadagno dovuti, per gli impiegati, ad eventuali immissioni in ruolo, allo sviluppo della carriera e ad altri consimili eventi che con prudente apprezzamento e sulla base dell’ id quod plerumque accidit si sarebbero verificati”. Per quanto riguarda il lavoratore autonomo, per contro, l’orientamento della Cassazione risulta più incerto. Secondo Cass. n. 4137/81 il cd. indennizzo compensativo per incremento di carriera non spetta nel caso in cui la vittima svolga una libera professione in quanto i guadagni ritraibili da una tale attività non presentano un elevato grado di probabilità e “potendo i relativi aumenti anche difettare col passare degli anni e, in ogni caso, essendo per la loro aleatorietà solo eventuali, a differenza di quanto avviene nel rapporto di lavoro dipendente”. In senso contrario, seppur con una decisione estremamente lapidaria sul punto, si è espressa Cass. n. 12020/95 la quale, ritenendo la questione sollevata dal ricorrente non sindacabile in sede di legittimità, ha avallato la pronuncia resa in secondo grado che aveva attribuito rilevanza all’indennizzo compensativo da incremento di carriera nonostante il carattere autonomo dell’attività svolta dalla vittima.
Nel caso in cui la vittima non sia il capo famiglia, bensì un figlio, l’analisi diviene inevitabilmente più complessa. Innanzitutto, si deve osservare che Cass. n. 2816/83, pur prendendo atto del definitivo superamento della famiglia patriarcale e dell’affermarsi di un modello di famiglia all’interno della quale i figli tendono a delegare la cura dei genitori alle istituzioni pubbliche, ha ritenuto illogica e contraria alla comune esperienza l’assunzione a modello di comportamento di quella che è soltanto una tendenza patologica della moderna realtà sociale e familiare. In senso contrario, tuttavia, Cass. n. 11097/92 ha ritenuto che “il risarcimento deve di regola escludersi in rapporto ai futuri risparmi che il defunto avrebbe realizzato, dovendo ritenersi probabile che il medesimo si sarebbe formato una famiglia i cui membri avrebbero avuto esclusivamente diritto sui risparmi del loro genitore e marito”
Ciò premesso, anche nell’ipotesi di morte del figlio è stato ritenuto irrilevante ai fini del risarcimento del danno patrimoniale subito dai genitori il fatto che questi ultimi disponessero di autonome fonti di reddito. Secondo Cass. n. 11236/97, infatti, “il danno futuro subito dai genitori di un minore deceduto in conseguenza di un fatto illecito si sostanzia nel venire meno delle aspettative di un contributo economico a loro beneficio, e non trova ostacolo, quanto alla sua concreta configurabilità, nella circostanza che i genitori stessi abbiano, al momento dell’evento, adeguate fonti di reddito, dovendo ritenersi all’uopo sufficiente che la complessiva valutazione degli elementi del caso concreto (con il ricorso a dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza), evidenzi il suddetto pregiudizio in termini di verosimiglianza e di possibilità, secondo un criterio di normalità causale in relazione ai futuri, presumibili bisogni”. In quest’ottica, in diverse pronunce è stato precisato che “i cosidetti danni patrimoniali futuri, risarcibili a favore dei genitori e dei fratelli di un minore deceduto a seguito di fatto illecito, devono essere ravvisati nella perdita o nella diminuzione di quei contributi patrimoniali o di quelle utilità economiche che, sia in relazione a precetti normativi (artt. 315, 433, 230- bis c.c.), che per la pratica di vita improntata a regole etico-sociali di solidarietà familiare e di costume, presumibilmente e secondo un criterio di normalità il soggetto venuto meno prematuramente avrebbe apportato, alla stregua di una valutazione che faccia ricorso anche alle presunzioni e ai dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, con riguardo a tutte le circostanze del caso concreto”, tenendo, quindi, in considerazione anche quelli che sono i corrispondenti obblighi dei genitori che, in considerazione della giovane età del figlio al momento del sinistro, non sono stati ancora completamente adempiuti dai genitori medesimi. Sotto il profilo della concreta individuazione del danno patrimoniale futuro subito dai genitori, Cass. n. 10085/98 ha precisato che lo stesso non può essere correlato soltanto ai futuri risparmi che il defunto avrebbe realizzato e alla loro destinazione, “giacché può assumere rilievo anche la perdita di un diverso tipo di utilità economiche, quali quelle che i genitori e i fratelli avrebbero potuto trarre dall’inserimento del giovane nell’azienda del padre” . Significativa, sul punto, si rivela anche Cass. n. 1646/00 nella quale il S.C. ha avallato la decisione resa in secondo grado che aveva escluso il risarcimento a titolo di danno patrimoniale subito dai genitori a causa del venir meno delle loro aspettative di contributo economico da parte del figlio prematuramente scomparso. Secondo il giudice della legittimità, infatti, “il danno patrimoniale che i ricorrenti avevano dedotto e chiesto di provare in sede di merito non era quello – di carattere più generale – inerente alla perdita della futura assistenza economica, che i genitori hanno ordinariamente ragione di attendersi dai propri figli, bensì quello – di carattere del tutto particolare – che i [ricorrenti] sostenevano di aver subito perché – a loro avviso – l’attività di una loro azienda di natura familiare (peraltro costituita in forma di società a responsabilità limitata) sarebbe cessata in conseguenza diretta ed esclusiva della morte del [figlio], che poco prima dell’evento era stato nominato agente generale d’affari della società. Non a torto la corte distrettuale ha condiviso il rilievo del tribunale secondo cui, non potendo la cessazione dell’attività di una società di capitali considerarsi conseguenza automatica ed inevitabile del venir meno di chi ne abbia la dirigenza o ne curi comunque le relazioni d’affari, la prova testimoniale dedotta sul punto appariva inammissibili”
Considerazioni a parte merita il tema del risarcimento del danno patrimoniale subito dai congiunti per la perdita delle prestazioni di lavoro casalingo. Punto di partenza di queste brevi considerazioni non può essere che Cass. n. 11453/95 e n. 8970/9 che per prime hanno riconosciuto l’autonoma risarcibilità di tale particolare voce di danno. Secondo la prima delle pronunce citate, infatti, “costituisce danno risarcibile a norma dell’art. 2043 c.c. quello subìto dal marito e dal figlio minore per il decesso del congiunto (rispettivamente moglie e madre) a seguito dell’altrui fatto illecito anche nel caso in cui quest’ultimo fosse stato privo di un effettivo reddito personale. Tale danno, infatti, si concreta nella perdita, da parte dei familiari, di una serie di prestazioni attinenti alla cura, alla educazione e alla assistenza cui il marito e il figlio avevano ed hanno diritto nei confronti della rispettiva moglie e madre nell’ambito del rapporto familiare stesso, prestazioni che sono economicamente valutabili come qualsiasi altra attività corrispondente al lavoro della donna casalinga (…)”
Contrariamente a quanto visto nel paragrafo precedente, tuttavia, il danno in questione si configura come danno emergente e non già come lucro cessante. Alla base di tale impostazione dogmatica si pone non solo il carattere gratuito delle prestazioni fornite dalla casalinga, ma anche la qualificazione del complesso di tali prestazioni come una componente del patrimonio dei prossimi congiunti, il cui venir meno “determina una diminuzione della sfera patrimoniale di tali soggetti qualificabile appunto come danno emergente”. Danno emergente che, secondo alcuni, si identifica nella stessa perdita di una situazione vantaggiosa, mentre secondo altri tale danno consiste nella spesa sopportata per aver affidato a terzi lo svolgimento di quelle mansioni in precedenza svolte dalla casalinga.
Anche sotto il profilo della prova il danno in parola presenta alcune particolarità. In primo luogo, infatti, è sin troppo evidente che se il danno viene individuato nella semplice perdita di un’utilità, l’onere probatorio di chi domanda il risarcimento sarà assolto mediante la prova dell’effettiva perdita dell’utilità goduta, mentre se si opta per la soluzione che identifica il danno nella spesa sostenuta per ovviare alla perdita dell’utilità sarà necessario fornire la prova di avere effettivamente sostenuto tale spesa; in secondo luogo, di recente Cass. n. 10629/98 ha precisato che, in ogni caso, “la perdita, da parte dei familiari, di una serie di prestazioni economicamente valutabili attinenti alla cura ed alla assistenza cui avevano diritto nell’ambito del rapporto familiare, non è in re ipsa, ben potendo l’organizzazione familiare essere sistemata in modo tale da non risentire di una specifica lesione patrimoniale, segnatamente se gli impegni lavorativi esterni della defunta, nella specie moglie e madre, fossero non occasionali né saltuari, sì da apparire assorbenti, ovvero se sia presumibile che la famiglia, anche in relazione al livello delle entrate economiche complessive, si sia servita di aiuti esterni o della collaborazioni di domestici”. Stridente, pertanto, appare il contrasto con Cass. n. 11453/95 che aveva riconosciuto l’esistenza del danno in parola in base al mero affatto che la vittima era una donna coniugata, presumendo sic et simpliciter che quest’ultima fosse dedita anche al disbrigo delle faccende domestiche. L’inaccettabilità di quest’ultima impostazione risulta chiaramente stigmatizzata da quella parte della dottrina che ha sottolineato che “se a volte la donna che lavora assume contemporaneamente e totalmente su di sé pure il disbrigo delle faccende domestiche, non di rado il suo impegno lavorativo si accompagna alla fruizione delle prestazioni di collaboratori domestici remunerati (e più raramente di familiari) che sopperiscono in tutto o in parte alle prestazioni di lavoro casalingo necessarie alla famiglia. Né può dirsi assolutamente raro ed infrequente, considerato l’attuale livello di benessere economico e le tendenze di costume in atto, che le famiglie in possesso di redditi adeguati si avvalgano di collaboratori domestici anche nel caso in cui il coniuge di sesso femminile non si dediche ad un’attività lavorativa esterna (…). Dalla considerazione di questo composito scenario socio-economico della vita familiare contemporanea emerge come la prestazione di lavoro casalingo in famiglia (quanto meno a tempo pieno) non possa più considerarsi “normalmente” connessa allo stato di donna coniugata, con conseguente impossibilità di trarsi da questo secondo fatto una presunzione semplice di esistenza del primo”.
Fonte: Responsabilità Civile e Previdenza, fasc.4, 2015, pag. 1312B
Autori: Mariafrancesca Cocuccio
LA RESPONSABILITÀ CIVILE PER FATTO ILLECITO DELL’INTERNET SERVICE PROVIDER
Sommario 1. Premessa. — 2. La normativa applicabile: il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70. — 3. Le diverse tipologie di responsabilità. — 3.1. L’attività di semplice trasporto: mere conduit. — 3.2. L’attività di memorizzazione automatica, intermedia e transitoria: caching.— 3.3. L’attività di memorizzazione di informazioni: hosting.— 4. Assenza di un generale obbligo di sorveglianza: limiti di applicazione. — 5. La responsabilità dell’Internet Service Provider nella più recente giurisprudenza italiana. — 6. (Segue). In ambito europeo. — 7. Brevi rilievi conclusivi.
1. PREMESSA
Le aziende che forniscono servizi in rete si definiscono ISP, cioè Internet Service Provider, dove per provider (fornitore) s’intende un soggetto che, operando nella società dell’informazione, offre liberamente servizi di connessione, trasmissione e memorizzazione dati. La funzione del provider, quindi, è quella di un intermediario, che fornisce un collegamento tra chi intende comunicare un’informazione e i destinatari della stessa.
L’evoluzione tecnologica ha condotto ad una scissione della figura unitaria del provider, potendosi, in linea generale, individuare tre tipologie di intermediario in base al ruolo svolto nel processo di trasmissione e di diffusione dei dati nelle reti telematiche.Si distinguono l’access provider, che garantisce l’accesso ad internet, mettendo gli utenti in condizione di accedere al web, il content provider che predispone ed immette in rete il contenuto di un sito web per conto di un utilizzatore finale organizzando materiale da lui prodotto o a lui fatto pervenire dal committente ma del quale conosce, o comunque deve conoscere, tipologia e contenuto ed, infine, l’host provider che fornisce ospitalità ai content provider mettendo a disposizione una przione del proprio disco rigido, di cui, però, resta proprietario al fine di veicolare le informazioni che si intendono diffondere in rete. Qualsiasi attività svolta sulla rete, quindi, passa sempre attraverso l’intermediazione di un provider e i dati transitano attraverso i suoi server, cioè i computer che il prestatore mette a disposizione per erogare i suoi servizi e in tal senso il legislatore si è fatto carico di tipizzare le regole di condotta alle quali l’internet provider deve uniformarsi nella prestazione dei propri servizi, prevedendo ipso facto la responsabilità ogniqualvolta si riscontri l’inosservanza di quelle regole stabilite a garanzia di terzi
L’avvento delle nuove tecnologie e la loro capacità di penetrazione nel tessuto sociale hanno, però, fatto emergere l’inadeguatezza dei tradizionali sistemi della responsabilità aquiliana per la risoluzione delle controversie nella società dei servizi dell’informazione. L’individuazione della legge applicabile agli atti compiuti via internet rappresenta un problema: tanto più è complessa l’individuazione geografica delle attività svolte sul web, meno è semplice individuare quale diritto sia applicabile e quale la giurisdizione relativa.La soluzione sarebbe un «diritto uniforme» che permetterebbe quella certezza giuridica idonea a spingere operatori, utenti ed amministratori ad acquisire totale fiducia dello strumento di comunicazione.
2. LA NORMATIVA APPLICABILE: IL D.LGS. 9 APRILE 2003, N. 70
Il riferimento normativo per qualificare il regime di responsabilità dei provider è il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, emanato in attuazione della Direttiva 2000/31/CE, «relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico» ed in particolare gli articoli da 14 a 17, che differenziano le condizioni integranti la responsabilità dell’intermediario in base al ruolo effettivamente svolto nel contesto dell’illecito.
Prima di esaminare nello specifico i singoli profili di responsabilità, è opportuno soffermarsi brevemente sul testo di legge. Il d.lgs. n. 70/2003 ha recepito la Direttiva 2000/31/CE con l’intento di regolamentare la responsabilità degli operatori intermediari in modo unitario, superando le divergenti normative nazionali e le diverse interpretazioni dei giudici territoriali
Nella Direttiva comunitaria 2000/31 e, quindi, nel d.lgs. n. 70/2003, viene introdotto un principio generale in base al quale in capo ai prestatori (provider) non sussiste un obbligo in merito alla sorveglianza o alla ricerca attiva di fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite relativamente alla trasmissione o alla memorizzazione di informazioni messe a disposizioni da terzi
I prestatori sono, però, tenuti a informare prontamente le pubbliche autorità su eventuali presunte attività o materiali illeciti dei destinatari dei loro servizi dei quali vengano a conoscenza o, ancora, a comunicare alle stesse autorità competenti, a loro richiesta, le informazioni che consentano l’identificazione dei destinatari con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati. Il giudice sarà, quindi, chiamato a valutare se l’operazione sulle informazioni è una mera operazione tecnica, o se vi sia l’intenzione di influire sulle informazioni medesime. Solo in quest’ultimo caso si parlerà di responsabilità del provider, definita in senso «negativo» e cioè solo se sussistono le condizioni di cui al decreto. L’intermediario, pertanto, non è responsabile degli illeciti commessi dagli utenti utilizzando i suoi servizi; se, invece, il provider non si adegua alle norme, ne diviene responsabile (responsabilità per colpa specifica, cioè per violazione di legge), ai sensi dell’art. 2055 c.c., solidalmente con l’autore dell’illecito.
Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 70/2003, la responsabilità extracontrattuale su internet era in prevalenza imputabile ai provider, ciò per garantire al danneggiato l’individuazione di un soggetto responsabile nei cui confronti far valere gli interessi al risarcimento. La nuova disciplina, invece, ha introdotto un sistema di responsabilità basato prevalentemente sulla colpa omissiva degli ISP. In altri termini, è previsto che in generale il prestatore di un servizio non è responsabile delle informazioni trattate e delle operazioni compiute da chi fruisce del servizio, a patto che non intervenga in alcun modo sul contenuto o sullo svolgimento delle stesse operazioni. Tuttavia, i prestatori sono obbligati ad alcune incombenze informative ed operative che introducono delle responsabilità per gli intermediari, pur non comportando l’obbligo di esaminare preventivamente le informazioni trasmesse sulle proprie macchine al fine di valutarne la possibile lesività per i terzi
La responsabilità dei provider è disciplinata considerando l’attività effettivamente svolta e giustificando gli stessi ogni qual volta prestino semplice attività di intermediazione tecnica senza partecipazione attiva alla commissione dell’illecito. La scelta fatta dal legislatore, nel prevedere l’esonero di responsabilità dell’ISP risulta eccezionale, rispetto al generale sistema della responsabilità civile. Per tale ragione, i casi indicati nel d.lgs. n. 70/2003 devono considerarsi assolutamente tassativi e soggetti ad interpretazione restrittiva
Nello specifico si fa riferimento a tre distinti casi, o meglio attività dei prestatori di servizi di semplice trasporto (mere conduit), dei prestatori di servizi di memorizzazione temporanea (caching) e dei prestatori di servizi di memorizzazione di informazione (hosting).
3. LE DIVERSE TIPOLOGIE DI RESPONSABILITÀ
3.1. L’attività di semplice trasporto: mere conduit
L’art. 14 del d.lgs. n. 70/2003 disciplina l’attività di mere conduit, consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni non proprie (cioè date dal destinatario del servizio) o nel fornire l’accesso alla rete. Nello specifico, nella prestazione di servizi di semplice trasmissione di informazioni o nel fornire un accesso alla rete di comunicazione (mere conduit o semplice trasporto), il prestatore non è responsabile delle informazioni trasmesse, a condizione che lo stesso non dia origine alla trasmissione, non selezioni il destinatario della trasmissione e non selezioni né modifichi le informazioni trasmesse.
La norma sancisce il principio di divisione fra meri servizi d’accesso e servizi di fornitura e/o produzione di contenuti; la normativa di riferimento tende a non attribuire una responsabilità al prestatore di servizi che si comporti da mero fornitore d’accesso, senza una produzione propria di contenuti, senza una selezione di destinatari e, infine, senza porre in atto operazioni di filtraggio. È chiaro che l’esonero di responsabilità sussiste fin quando il prestatore si trovi in una posizione di assoluta neutralità rispetto all’informazione veicolata.Il comma 2, del citato articolo 14, stabilisce poi che l’attività di trasmissione e fornitura di accesso di cui al comma 1, includono la memorizzazione automatica, intermedia e transitoria delle informazioni trasmesse, a condizione che questa serva solo alla trasmissione sulla rete di comunicazione e che la sua durata non ecceda il tempo ragionevolmente necessario a tale scopo. Tale operazione non altera la qualificazione dell’attività dell’ISP e, quindi, la configurazione della sua responsabilità purché lo stesso mantenga una posizione terza. Una memorizzazione delle informazioni trasmesse per un periodo superiore a quello necessario alla trasmissione, da verificarsi evidentemente in concreto, comporterà, di contro, il venir meno del favor legis di cui benefica il prestatore mere conduit, con conseguenti obblighi risarcitori. La memorizzazione delle informazioni deve essere strettamente strumentale alla loro trasmissione nelle rete telematiche, dovendo le stesse essere rimosse non appena sia stato raggiunto lo scopo della memorizzazione. Pur nella inevitabile genericità della formula utilizzata dal legislatore («tempo ragionevolmente necessario» alla realizzazione dello scopo della trasmissione), sarà la tecnologia e non la norma a dover «dettare i tempi» ed a segnare il confine tra l’attività «neutra» del prestatore e quella di ingerenza nella trasmissione delle informazioni.
Ed infine l’ultimo comma dispone che l’autorità giudiziaria o quella amministrativa, avente funzioni di vigilanza, può esigere, anche in via d’urgenza, che il prestatore nell’esercizio delle attività di cui al comma 2, impedisca o ponga fine alle violazioni commesse. Tale previsione, da collegarsi a quella di cui all’art. 17 dello stesso decreto, recepisce una mera facoltà lasciata alla discrezionalità degli Stati membri di prevedere che un’autorità giurisdizionale o amministrativa («avente funzioni di vigilanza») imponga al provider di impedire o di porre fine ad una violazione (art. 12, comma 3, Direttiva 2000/31/CE).L’intervento immediato dell’autorità preposta avrà, quindi, il pregio di impedire sul nascere la commissione della violazione o, comunque, di circoscriverne gli effetti3.2. L’attività di memorizzazione automatica, intermedia e transitoria: caching
Il successivo articolo 15, d.lgs. n. 70/2003, disciplina le attività di caching (memorizzazione automatica, intermediaria e temporanea), stabilendo che nella prestazione di un servizio della società dell’informazione, consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile della memorizzazione automatica, intermedia e temporanea di tali informazioni effettuata al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari, a condizione che non modifichi le informazioni, si conformi alle condizioni di accesso alle informazioni e alle norme di aggiornamento delle informazioni, indicate in un modo ampiamente riconosciuto e utilizzato dalle imprese del settore, non interferisca con l’uso lecito di tecnologia ampiamente riconosciuta e utilizzata nel settore per ottenere dati sull’impiego delle informazioni.
Ed ancora è richiesto che l’ISP agisca prontamente per rimuovere le informazioni che ha memorizzato, o per disabilitare l’accesso, non appena venga effettivamente a conoscenza del fatto che le informazioni sono state rimosse dal luogo dove si trovavano inizialmente sulla rete o che l’accesso alle informazioni è stato disabilitato oppure che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa ne ha disposto la rimozione o la disabilitazione dell’accesso.
È chiara la differenza tra l’attività di memorizzazione effettuata dal caching provider e quella di cui all’articolo precedente (mere conduit); in quest’ultimo caso si parla di una memorizzazione automatica, intermediaria e transitoria, mentre, con riferimento all’attività di caching, la memorizzazione è definita dal legislatore, oltre che automatica e intermediaria, temporanea.
La terminologia utilizzata consente di individuare nel lasso di tempo maggiore espresso dal concetto di temporaneità rispetto a quello insito nella transitorietà, un elemento distintivo. Il sistema di caching ha lo scopo di aumentare l’efficienza della rete, conservando presso il server del prestatore, per un periodo limitato di tempo, le informazioni a cui hanno accesso gli utenti del servizio, in modo da favorire l’accesso alle medesime informazioni da parte di altri destinatari che ne facciano richiesta, senza la necessità di dover ripassare dalla fonte originaria.
Il favor legis riservato al provider che esercita attività di caching, risulta più limitato rispetto a quello garantito per l’attività di mere conduit, a causa di una serie di condizioni molto più stringenti alle quali bisogna attenersi per essere esonerato da responsabilità nei confronti dei terzi.
Si richiede, pertanto, l’obbligo di rimuovere prontamente le informazioni memorizzate, o di disabilitare l’accesso a tali informazioni, non appena venga effettivamente a conoscenza del fatto che le informazioni sono state rimosse dal luogo dove si trovavano originariamente sulla rete o che l’accesso alle informazioni è stato disabilitato, oppure che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa ne abbia disposto la rimozione o la disabilitazione. A tale scopo rileva il momento dell’effettiva conoscenza da parte del prestatore, ovvero della comunicazione del soggetto che ha preteso la rimozione dei contenuti.
È rimesso al giudice non solo accertare se le informazioni sono state memorizzate temporaneamente, configurando così l’attività di caching, ma anche valutare la «tempestività» dell’intervento di rimozione; in tal caso è richiesto al provider di dimostrare di essersi attivato tempestivamente secondo il criterio della diligenza professionale (art. 1176, comma 2, c.c.).3.3. L’attività di memorizzazione di informazioni: hosting
A disciplinare l’attività di hosting (cioè l’attività del provider che può andare dalla mera gestione del sito sul sever, con memorizzazione delle pagine web, alla tenuta degli archivi informatici del cliente, con conservazione dei files di log), si occupa l’articolo 16, d.lgs. n. 70/2003.
Ai sensi della norma testé citata, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio a condizione che non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o circostanze che rendano manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione e non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.
L’attività di hosting consiste in una forma di memorizzazione a carattere tendenzialmente duraturo. Va rilevata la distinzione tra la responsabilità penale, per la quale è richiesta l’effettiva conoscenza delle attività o delle informazioni illecite da intendersi in senso rigoroso in conformità ai principi dell’imputabilità penale, da quella civile, rispetto alla quale si impone la valutazione di colpa per negligenza del prestatore a fronte dell’allegazione della conoscenza sostanziale di fatti o circostanze che rendano manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione, senza che ciò possa implicare l’esecuzione di un controllo approfondito sui contenuti veicolati, in assenza di specifiche segnalazioni da parte di soggetti terzi. Anche in questo contesto è prevista una «generale» esenzione di responsabilità; questa, però, non si applica qualora l’intermediario, non appena sia a conoscenza di fatti illeciti, su espressa comunicazione delle autorità competenti, non si attivi immediatamente per rimuovere le informazioni illecite o per disabilitarne l’accesso, oppure, ai fini della responsabilità civile, se il provider, informato di fatti o circostanze che rendono manifesto il carattere illecito o pregiudizievole per qualcuno dell’attività o dell’informazione, non si attivi per informare l’autorità competente.
Non si applica l’esenzione se il destinatario del servizio agisce sotto l’autorità o il controllo del prestatore (art. 16, comma 2). In tale ipotesi l’hosting provider risponderà per fatto illecito altrui ex art. 2049 c.c., in concorso con l’autore dell’illecito, in tutti i casi in cui quest’ultimo agendo sotto il controllo e/o supervisione dell’organizzazione aziendale dell’hosting provider ponga in essere azioni lesive del diritto dei terziIn estrema sintesi si può affermare che se non c’è obbligo di sorveglianza non c’è responsabilità penale e se c’è correttezza nel comportamento con le autorità di vigilanza non c’è responsabilità civile.
4. ASSENZA DI UN GENERALE OBBLIGO DI SORVEGLIANZA: LIMITI DI APPLICAZIONE
Particolarmente significativo è, infine, l’art. 17 norma di chiusura del sistema della responsabilità che stabilisce l’assenza generale di un obbligo di sorveglianza. Il provider, nella prestazione dei servizi di mero trasporto (art. 14), caching, (art. 15) ed hosting (art. 16), non è, infatti, assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un generale obbligo di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite (art. 17, comma 1). Il prestatore è, però, tenuto ad informare senza indugio l’autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzioni di vigilanza, qualora sia a conoscenza di possibili attività o informazioni illecite riguardanti un suo destinatario del servizio della società dell’informazione. Deve fornire senza indugio, a richiesta delle autorità competenti, le informazioni in suo possesso che consentano l’identificazione del destinatario dei suoi servizi con cui ha accordi di memorizzazione dei dati, al fine di individuare e prevenire attività illecite (art. 17, comma 2).
Per far sorgere l’obbligo a carico del provider si richiede, quindi, l’effettiva conoscenza dell’illiceità dei contenuti controversi. Ovviamente l’obbligo di comunicare le informazioni «in suo possesso» non implica alcun obbligo di controllo sulla veridicità dei dati forniti dall’utente al momento della sottoscrizione del servizio, in assenza di norme comunitarie che pongano a carico del prestatore l’identificazione certa degli utenti.
Si è così inteso sollevare il provider da una serie di obblighi di controllo che pregiudicherebbero l’attività stessa degli ISP, bloccando di fatto lo sviluppo della rete, pur inserendo un obbligo di informazione in caso di conoscenza di attività illecite. Vi è, perciò, una esclusione di responsabilità del prestatore di servizi fin quando non interviene con una condotta attiva e consapevole nella immissione di contenuti illeciti o con una agevolazione o concorso nell’eventuale reato.
Nel caso, però, in cui il prestatore, avendo ricevuta una richiesta dall’autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non agisca prontamente per impedire l’accesso ai contenuti illeciti, ovvero se avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l’accesso, non abbia provveduto ad informarne l’autorità competente ne diventa civilmente responsabile del contenuto di tali servizi (art. 17, comma 3).
La disposizione in oggetto individua il punto di equilibrio fra la libertà del provider e la tutela dei soggetti eventualmente danneggiati nella fissazione di obblighi di informazione alle autorità, a carico dello stesso provider, relativamente a presunte attività o informazioni illecite delle quali sia venuto a conoscenza, anche al fine di consentire l’individuazione dei responsabili.
Così disponendo, il legislatore ha inteso porre quali presupposti della responsabilità del provider proprio la effettiva conoscenza dei dati immessi dall’utente e l’eventuale inerzia nella rimozione delle informazioni da lui conosciute come illecite.
Si è, quindi, aperta la strada ad un orientamento giurisprudenziale sulla responsabilità dei provider, con una linea che vede l’esonero del mero gestore del sito che non produce contenuti e si limita a mettere a disposizione degli utenti lo spazio virtualeSul punto è particolarmente significativa una recente pronuncia giurisprudenziale che ha affermato il principio per cui «nessuna norma prevede che vi sia in capo al provider, sia esso anche un hosting provider, un obbligo generale di sorveglianza sui dati immessi dai terzi sul sito da lui gestito; né sussiste in capo al provider alcun obbligo sanzionato penalmente di informare il soggetto che ha immesso i dati (uploader) sulla necessità di fare applicazione della normativa relativa al trattamento dei dati stessi contenuta nel c. d. Codice della privacy (d.lgs. n. 196/2003)».
A tale conclusione la Suprema Corte giunge muovendo dall’analisi delle definizioni di «trattamento» e di «titolare del trattamento», precisando che all’ampiezza del primo concetto corrisponde la specificità del secondo, laddove si consideri che titolare del trattamento «non è chiunque materialmente svolga il trattamento stesso, ma solo il soggetto che possa determinarne gli scopi, il modo, i mezzi».
Con la conseguenza che la persona che deve essere chiamata a rispondere delle violazioni è il titolare del trattamento e non, invece, il mero hosting provider. Se ne desume che il legislatore ha inteso far coincidere il potere decisionale sul trattamento con la capacità di concretamente incidere su tali dati, che non può prescindere dalla conoscenza dei dati stessi. In altri termini, finché il dato illecito è sconosciuto al service provider, questo non può essere considerato quale titolare del trattamento perché privo di qualsivoglia potere decisionale sul dato stesso; quando, invece, il provider sia a conoscenza del dato illecito e non si attivi per la sua immediata rimozione o per renderlo comunque inaccessibile, esso assume a pieno titolo la qualifica di titolare del trattamento ed è, dunque, destinatario dei precetti e delle sanzioni penali.
In via generale sono, quindi, gli utenti ad essere titolari del trattamento dei dati personali di terzi ospitati nei servizi di hosting e non i gestori che si limitano a fornire tali serviziBisogna anche aggiungere che se principio cardine, in materia di responsabilità dell’ISP, è l’esenzione dell’obbligo generale di sorveglianza sui contenuti dei siti web che il provider stesso non abbia formato o concorso a formare, l’intermediario della comunicazione ha in ogni caso l’obbligo di attivarsi in presenza di segnalazioni (notification) relative ad eventuali illeciti commessi tramite i suoi servizi. È tenuto a valutare l’attendibilità della segnalazione, perché in caso di rimozione dei contenuti che si rivelano non illeciti, potrebbe incorrere in responsabilità contrattuale nei confronti del suo cliente.
Il decreto legislativo in materia, però, non presenta una disposizione che regoli accuratamente la procedura di segnalazione e rimozione. Sorge, pertanto, la necessità, in sede di regolamentazione, di determinare almeno gli elementi minimi di validità delle notifiche, stabilendo modalità uniformi per la procedura di rimozione. In assenza di una adeguata regolamentazione si apre la strada a possibili abusi da parte dei provider, oppure a pressioni indebite nei loro confronti.
5. LA RESPONSABILITÀ DELL’ INTERNET SERVICE PROVIDER NELLA PIÙ RECENTE GIURISPRUDENZA ITALIANA
La casistica in argomento è piuttosto varia. Si tratta di pronunce con le quali si è confermato l’orientamento univoco della giurisprudenza sia italiana sia comunitaria, che ha affermato da un lato l’assenza in capo agli ISP di un obbligo generale di controllo preventivo dei contenuti caricati da soggetti terzi, dall’altro la responsabilità degli stessi ogni qualvolta siano a conoscenza del dato illecito e non si attivino per la sua immediata rimozione.
Sul punto un’ordinanza del Tribunale di Roma ha ritenuto responsabile l’Internet Service Provider in quanto, una volta ricevuta la segnalazione circa l’esistenza di contenuti illeciti, avrebbe dovuto esercitare un’attività di controllo, analizzando la legittimità dei siti sospetti, ed eliminare ogni riferimento nel caso di accertamento positivo. Nella specie il giudice ha provveduto ad inibire la Yahoo per la prosecuzione e la ripetizione della violazione dei diritti di sfruttamento economico sul film «About Elly» mediante il collegamento a mezzo dell’omonimo motore di ricerca ai siti riproducenti in tutto o in parte l’opera, diversi dal sito ufficiale del film.
La decisione è stata, però, ribaltata con una successiva ordinanza, a seguito di reclamo presentato dalla stessa Yahoo, che, al contrario, non ha ritenuto esistenti a carico del provider i presupposti di responsabilità, poiché è stato dimostrato che la ricorrente, titolare dei diritti sul film «About Elly», non aveva in realtà indicato quali fossero i link «pirata» contestati. Il tribunale ha ritenuto che «nel rispetto del principio di certezza del diritto e delle stesse norme di carattere processuale, il titolare dei diritti che chiede all’intermediario della comunicazione, o al giudice di ordinare all’intermediario della comunicazione, di rimuovere un determinato contenuto o di renderlo inaccessibile, è tenuto ad individuare puntualmente l’URL (Uniform Resource Locator) del contenuto medesimo non essendo sufficiente una denuncia generica circa la presenza in rete di alcuni contenuti illegittimi immessi da terzi non ben identificati, come nel caso di specie, e deve dimostrare puntualmente non solo la titolarità del proprio diritto, ma anche il carattere abusivo degli altrui atti contestati».
In altra decisione è stata esclusa la responsabilità dell’ISP non per ragioni giuridiche, ma perché di fatto l’ISP aveva già provveduto a rimuovere i contenuti illeciti in contestazione. La controversia vedeva contrapposte la ricorrente RTI (Reti Televisive Italiane) alle resistenti Google Inc. («Google»), GoDaddy.Com Inc. e GoDaddy Netherlands BV.
Oggetto del contendere era il portale «Calciolink», in passato ospitato sulla piattaforma «Blogger» di Google, che trasmetteva in live streaming eventi sportivi in violazione dei diritti acquistati da RTI sugli eventi stessi. Si è affermato, concentrandosi sulla posizione assunta da Google, qualificato come «hosting provider», da un lato l’assenza di responsabilità dell’ISP per i contenuti illeciti memorizzati dagli utenti, se non è a conoscenza della loro illiceità e non appena venutone a conoscenza, agisca per rimuoverli; dall’altro, l’assenza in capo all’ISP di un obbligo generale di sorveglianza sui contenuti che ospita, fermo l’obbligo, se viene a conoscenza di un illecito, di avvisare l’autorità e fornirne le informazioni necessarie per identificare il soggetto responsabile dell’illecito.
Nel corso del giudizio si è rilevato che l’hosting provider (Google), non si limitava solo a fornire accesso alla rete e a consentire agli utenti di memorizzarvi dei contenuti, ma partecipava a sua volta all’organizzazione dei contenuti immessi dagli stessi utenti, ad esempio indicizzandoli, individuando e presentando all’utente finale i contenuti «correlati», effettuandone uno sfruttamento economico (pubblicitario). Google aveva predisposto un servizio di segnalazione di abusi che implicava che la stessa «si assumeva un autonomo onere di controllo dei contenuti immessi e si riservava il diritto di escluderli». In tale quadro normativo, si è rilevato che Google aveva già disattivato l’accesso al portale e ai contenuti illeciti in contestazione, prima della notifica del ricorso per inibitoria di RTI, per cui non ricorrevano i presupposti per impedire la diffusione dei contenuti illeciti.
Sulla stessa linea la pronunciasecondo cui l’ISP non è responsabile delle informazioni generate dagli utenti sui propri server «a meno che le informazioni ospitate siano illecite ed il prestatore sia consapevole di tale illiceità e non abbia omesso prontamente di rimuoverle o non abbia disabilitato l’accesso alle stesse». A fronte, infatti, di un generale principio di irresponsabilità del provider stesso, questo risponde degli illeciti dei suoi utenti solo nel caso in cui, non appena sia a conoscenza di fatti illeciti su espressa comunicazione delle autorità competenti, non si attivi per rimuovere le informazioni illecite o per disabilitarne l’accesso
Nella specie la «Wikimedia» è stata considerata un semplice hosting provider, poiché si è limitata ad offrire ospitalità sui propri server alle informazioni fornite dagli utenti. Wikimedia non può, quindi, essere considerata responsabile dell’enorme quantità di informazioni inserite dagli utenti; potrebbe essere considerata tale solo qualora l’utente agisse sotto l’autorità o il controllo del provider, che perderebbe così il ruolo di soggetto «neutrale» rispetto a quanto inserito dagli utenti.
Si è, quindi, stabilito che «non è rinvenibile nella posizione della Wikimedia Foundation Inc. l’obbligo di garantire che non vengano commessi illeciti lesivi dell’altrui reputazione in quanto, a differenza del content provider, l’hosting provider offre un servizio basato proprio sulla libertà degli utenti di compilare le voci enciclopediche» e, nel contempo, riconosce la natura di «enciclopedia aperta» e generata «dal basso» di Wikipedia, sviluppatasi proprio sulla libertà degli utenti di poter costantemente aggiungere e aggiornare i contenuti presenti nelle sue pagine».
Con motivazioni sostanzialmente analoghe il Tribunale di Torino si è pronunciato nel ritenere «non sussistere in capo al provider alcun obbligo di preventivo controllo dell’effettiva titolarità dei diritti d’autore posseduti da parte dei singoli soggetti che caricano i video sullo spazio di memoria messo a loro disposizione. L’unica responsabilità ipotizzabile in capo al provider concerne i casi in cui sia informato, anche ab origine, dell’inesattezza del contenuto: sussiste, infatti, responsabilità allorquando il provider, pur specificatamente informato, non abbia rimosso i contenuti segnalati, ovverosia allorché non venga adempiuto un obbligo specifico di vigilanza a posteriori, sorto in seguito di apposita segnalazione o diffida». In altri termini, nel caso di specie, non sono stati accertati sufficienti elementi per affermare che il provider abbia operato quale prestatore di hosting «attivo» e non «passivo», per il quale, invece, operano le deroghe di responsabilità che hanno come presupposto la precipua circostanza che il provider esegua un’attività di natura meramente tecnica, automatica e passiva, di modo che esso, di fatto, non conosca, né controlli, le informazioni e i contenuti trasmessi o memorizzati.
Interessante, altresì, segnalare altra decisione con la quale il giudice ha chiarito che «i termini visualizzati dagli utenti sulla stringa di ricerca attraverso la funzionalità “Autocomplete”, ovvero in fondo alla pagine di ricerca nella sezione “Ricerche Correlate”, non costituiscono un archivio, né sono strutturati, organizzati o influenzati da Google che, tramite un software automatico, si limita ad analizzarne la popolarità e a rilasciarli sulla base di un algoritmo (……) trattasi di servizi della c.d. attività di “caching” svolta da Google al fine di facilitare, a loro richiesta, l’accesso ad altri destinatari di informazioni fornite da destinatari dal servizio, senza che il prestatore del servizio, nella specie Google, sia responsabile del contenuto di tali informazioni a norma dell’art. 15 del d.lgs. n. 70/2003».
Le funzioni appena descritte, lungi dal risultare essenziali per la fornitura dei servizi di trasporto e memorizzazione dei contenuti, costituiscono funzionalità aggiuntive che arricchiscono il motore di ricerca Google, rendendolo evidentemente più interessante e appetibile rispetto a motori di ricerca meno «accessoriati». Nello specifico Google recupera dal «mare di internet» i suggerimenti di ricerca e le correlazioni alla ricerca eseguita dall’utente secondo un criterio prestabilito dalla stessa; non opera, dunque, come mero intermediario (ISP passivo), ma come ISP attivo, con la conseguenza che la responsabilità va esaminata alla luce dei principi ordinari in materia di illecito aquiliano, non essendo applicabili le esenzioni di cui agli artt. 15 e 16 del d.lgs. n. 70/2003.
Singolare appare la decisone del Tribunale di Mantova, con la quale si afferma che la figura dell’hosting provider «ricorre soltanto nelle ipotesi in cui si limiti ad offrire ospitalità ad un sito internet, gestito da altri in piena autonomia, sui propri server». Partendo da tale presupposto il Tribunale nega che un soggetto che gestisce un proprio sito internet di annunci caricati dagli utenti possa considerarsi un hosting provider.
In senso contrario, invece, la pronuncia che ha individuato la responsabilità degli ISP poiché, venendo a conoscenza del contenuto illecito, non si erano attivati per porvi fine. In quel caso Italia On Line (IOL) era stata condannata per violazione dei diritti d’autore di RTI (Reti Televisive italiane) su alcune trasmissioni televisive di cui erano stati caricati degli spezzoni sul portale IOL: l’inattività di IOL, a fronte della segnalazione effettuata da RTI, mediante lettera di diffida, sulla presenza dei contenuti illeciti, è stata considerata «comportamento idoneo a determinare un positivo riscontro circa la colposa responsabilità di IOL per l’indebita riproduzione dei contenuti». Nella specie la IOL è stata qualificata come «hosting attivo» a metà strada tra content provider (che immette in rete contenuti propri o di terzi e, dunque, ne risponde secondo le regole comuni di responsabilità) e semplice «hosting» (passivo), che svolge un ruolo neutro rispetto alle informazioni memorizzate, soggetto, quindi, all’applicazione della normativa sul commercio elettronico (d.lgs. n. 70/2003) e delle relative regole di responsabilità.
E da ultima la decisione della Corte di Appello di Milano, che riformando la sentenza di primo grado, si è pronunciata su una controversia che vedeva contrapposte RTI e Yahoo in materia di responsabilità degli ISP. Il provvedimento è di particolare interesse almeno sotto due profili. Da un lato offre spunti di riflessione nell’ottica del superamento della distinzione tra hosting provider «attivo» e hosting provider «passivo», dall’altro chiarisce, ponendosi in linea di continuità con altre decisioni delle Corti italiane, come l’invio di una diffida stragiudiziale, che in maniera dettagliata dia conto della titolarità dei diritti d’autore, nonché degli URL delle pagine ove risultano localizzati i contenuti illeciti, sia sufficiente per far sorgere in capo al provider un obbligo di rimozione dei suddetti contenuti.
6. ( SEGUE ). IN AMBITO EUROPEO
Nel panorama europeo vale la pena citare alcune decisioni emesse in merito all’argomento trattato.
La prima del Tribunal de Grande Instance de Paris, che ha condannato sia la Google France, sia la Google Ireland per aver permesso l’utilizzo come parole chiave, nell’ambito del servizio di posizionamento a pagamento «AdWords», del nome di un attore francese in modo da far comparire sul motore di ricerca annunci (c.d. «link sponsorizzati») che rimandavano ad un articolo e fotografie lesive della riservatezza dell’attore. Si è giunti ad affermare che entrambi i motori di ricerca svolgevano un ruolo attivo nell’ambito della prestazione del servizio «AdWords» e, pertanto, non possono godere del regime di responsabilità prevista dalla legge di attuazione della Direttiva CE 2000/31.
Nel caso di specie il giudice ha fatto espresso richiamo ad una precedente sentenza della Corte di giustizia, (caso Google vs Louis Vuitton) che ha interpretato l’articolo 14 del d.lgs. n. 70/2003 (che, al ricorrere di determinati requisiti, esclude la responsabilità dell’hosting provider per il servizio di memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio), nel senso che lo stesso si applica al prestatore di un servizio di posizionamento su internet «qualora detto prestatore non abbia svolto un ruolo attivo atto a conferirgli la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati». Secondo la Corte se tale prestatore non ha svolto alcun ruolo attivo, esso «non può essere ritenuto responsabile per i dati che egli ha memorizzato su richiesta di un inserzionista, salvo che, essendo venuto a conoscenza della natura illecita di tali dati (…) egli abbia omesso prontamente di rimuovere tali dati o non abbia disabilito l’accesso agli stessi».
Si è perciò sostenuto come l’attività di Google nell’ambito del servizio «AdWords», non presentasse tale natura, in ragione della conoscenza, da parte di Google, delle parole chiave e del contenuto degli annunci. In tal senso si è ritenuto che l’uso del nome di un individuo come parola chiave per visualizzare annunci che rimandino ad un articolo e fotografie relative alla vita privata di tale individuo, sia lesivo della sua riservatezza. Ad essere illecito non è il mero uso del nome altrui come parola chiave, quanto la pertinenza del nome dell’individuo come parola chiave che rinvia ad un articolo lesivo di diritti di terzi (nella fattispecie un articolo lesivo della riservatezza dell’attore).
In altra decisione si è qualificata Youtube (quale piattaforma web), come «un intermediario che fornisce servizi di hosting di contenuti e, pertanto, non è tenuto a verificare preventivamente i video che vengono caricati. In tal senso il servizio di YouTube rientra in quelle prestazioni tipiche del web 2.0 che si fondano esclusivamente sulla condivisione di contenuti, da assumersi come la finalità principale del servizio stesso».
Ed ancora la Corte di giustizia, nel caso l’Oréal vs eBay ha concluso in sfavore di eBay, in quanto questi fornendo ai suoi utenti non un servizio «neutro», bensì una vera e propria assistenza nelle vendite, assumendo così un ruolo «attivo», ha la conoscenza o il controllo delle informazioni relative ai prodotti messi in vendita (o comunque ne è messo a conoscenza) e non può, quindi, andare esente da responsabilità in caso di illiceità della vendita.
Secondo i giudici, per quanto riguarda «il profilo di responsabilità occorre in proposito ricordare la Direttiva 2000/31/CE che all’art. 14 esonera dalla responsabilità per le informazioni memorizzate il “prestatore intermediario” nel caso in cui questi non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione e qualora egli non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso».
Se dunque il gestore, come nel caso di eBay, assume un ruolo attivo, posto che ha la possibilità di conoscere o di controllare i dati relativi alle offerte, svolgendo un’attività di assistenza configurata nell’aumentare il volume di traffico del sito internet o promuovendo la presentazione delle offerte in vendita online, egli sarà certamente responsabile. Conseguentemente in tale eventualità il gestore non può avvalersi dell’esonero dalla responsabilità che il diritto dell’Unione concede ai fornitori di servizi online quali i gestori di mercati su internet.
Sempre la stessa Corte ha affermato come «la direttiva sul commercio elettronico vieta alle autorità nazionali di adottare misure che obblighino un ISP a procedere ad una sorveglianza generalizzata sulle informazioni che esso trasmette sulla propria rete, poiché l’ingiunzione in questione obbligherebbe l’ISP a procedere ad una sorveglianza attiva su tutti i dati di ciascuno dei suoi clienti per prevenire qualsiasi futura violazione di diritti di proprietà intellettuale, tale imposizione non è conforme alla direttiva comunitaria. Un simile meccanismo lederebbe anche i diritti fondamentali degli utenti, in particolare il loro diritto alla tutela dei dati personali e la loro libertà di ricevere o di comunicare informazioni» Oltre all’esigenza di garantire un giusto equilibrio tra tutela del diritto di proprietà intellettuale e libertà d’impresa dei prestatori di servizi di hosting, si osserva che l’ingiunzione richiesta «rischierebbe di ledere la libertà di informazione, poiché tale sistema potrebbe non essere in grado di distinguere adeguatamente tra un contenuto illecito ed un contenuto lecito, sicché il suo impiego potrebbe produrre il risultato di bloccare comunicazioni aventi un contenuto lecito. È indiscusso, infatti, che la questione della liceità di una trasmissione dipende anche dall’applicazione di eccezioni di legge al diritto d’autore che variano da uno Stato membro all’altro».
Anche la Corte di Strasburgo, nel ritenere l’editore di una testata giornalistica responsabile per la mancata moderazione dei commenti, ha sancito «che lo stesso non può in alcun modo ritenersi un intermediario della comunicazione in quanto la sua attività non è limitata, come previsto dalla direttiva e-commerce, quale requisito per ottenere l’esenzione da responsabilità al mero servizio di intermediazione tecnica, ma è, invece, un’attività tipica di un soggetto (“content provider”) che esercita un controllo sui contenuti tipico di un editore».
In tale contesto appare opportuno ricordare anche la recente decisione della Corte di giustizia europea, la quale, accogliendo la tesi per cui gli utenti della rete hanno il diritto di controllare i propri dati e chiedere ai motori di ricerca di rimuovere i risultati che li riguardano, ha riconosciuto la responsabilità del motore di ricerca (nel caso di specie Google) per il trattamento di indicizzazione dei dati personali in caso di violazione del «diritto all’oblio» (o «right to be forgetten») e cioè del diritto all’autodeterminazione informativa del soggetto (persona fisica o persona giuridica) o, più nello specifico, del diritto alla conservazione della propria identità digitale, in relazione a contenuti in rete che lo riguardano. Per la Corte, infatti, è meritevole di tutela la pretesa di un soggetto a non vedere comparire tra gli elenchi dei risultati delle ricerche le pagine web che ospitano contenuti che lo riguardano qualora questi gli arrechino pregiudizio e sia trascorso un lasso di tempo dalla pubblicazione della notizia, tale da non giustificare più la permanenza nel pubblico dominio di queste informazioni, e ciò anche nel caso in cui la pagina internet indicizzata contenente l’informazione non venga rimossa dal sito «sorgente» (il che significa che il contenuto in questione continuerà ad essere consultabile in rete e si creerà il solo ostacolo di renderlo più difficilmente raggiungibile per gli utenti).
7. BREVI RILIEVI CONCLUSIVI
A conclusione della rapida rassegna giurisprudenziale che precede, si può constatare come il legislatore abbia introdotto una disciplina generale sulla responsabilità degli ISP, distinguendoli per tipologia di funzione. In tal modo si differenziano le condizioni che integrano la responsabilità dell’intermediario in base al ruolo effettivamente svolto nell’illecito. A questo si aggiunga come nessuna norma prevede che via sia in capo al provider né un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che esso trasmette o memorizza, né tanto meno un obbligo preventivo di ricercare i fatti o le circostanze che indicano la presenza di attività illecite. Lo stesso è, comunque, tenuto ad informare senza indugio l’autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzione di vigilanza, qualora sia a conoscenza di presunte attività o informazioni illecite riguardanti un suo destinatario del servizio ed a fornire a tale autorità, ove richiesto, tutte le informazioni in suo possesso che consentono l’identificazione del destinatario dei suoi servizi, al fine di individuare e prevenire presunte attività illecite.
Ad ogni modo la scelta di esonerare il provider dall’obbligo generale di sorveglianza non è certo priva di un significato sul piano della politica del diritto. Nel bilanciamento tra l’interesse della collettività a potere fruire dei vantaggi della rete e l’interesse di evitare che sulla rete siano commessi illeciti, è valorizzato sicuramente il primo. Si tratta, quindi, di attuare con l’interesse prevalente anche misure di salvaguardia dell’interesse sacrificato. E l’analisi economica del diritto rappresenta, in tal senso, una «guida» importante: come non si è giunti all’assurdo di impedire la circolazione stradale al fine di evitare gli incidenti, ma si è pensato ad un sistema di indennizzo delle vittime della circolazione stradale anche quando l’autore della condotta illecita sfugge alle sue responsabilità, è probabile che si riuscirà ad individuare un meccanismo che consenta la massima circolazione in rete senza per questo pregiudicare del tutto gli interessi di coloro che dalla rete possano subire pregiudizio.Fonte: Responsabilità Civile e Previdenza, fasc.2, 1 FEBBRAIO 2018, pag. 445
Autori: Giovanni Iudica
PIETRO TRIMARCHI, LA RESPONSABILITÀ CIVILE: ATTI ILLECITI, RISCHIO, DANNO, MILANO, 2017
Il volume dal titolo « La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno », di Pietro Trimarchi, recentemente pubblicato nella elegante veste dell’editore Giuffrè, rappresenta, se così si può dire, la summa di riflessioni, ricerche, studi dedicati alla esplorazione della vasta, complessa tematica dell’illecito civile. Una specie di temps retrouvé di una recherche che si è sviluppata, attraverso saggi articoli monografie nell’arco di un’intera vita scientifica, a partire dal fondamentale e innovativo lavoro del 1961, Rischio e responsabilità oggettiva. La cifra stilistica è quella tipica di questo illustre Autore: parole chiare, espressione di una mentre lucida. Le soluzioni proposte sono frutto di sapienza e di equilibrio. E va pure detto che spesso si nota, nelle pagine che stiamo commentando, una prudente presa di distanza, se non addirittura un fremito di fastidio, nei riguardi di certa « paccottiglia giuridica », figlia vuoi di taluna « giurisprudenza creativa », vuoi di bizzarre tesi dottrinali che si sono spinte sopravento troppo al largo dalla costa sicura del metodo.
Il libro consta di ben XXIX capitoli. L’Autore precisa innanzitutto che la sanzione civilistica si può esplicare in due modi: in primo luogo, vietando taluni atti dannosi e disincentivandoli attraverso la minaccia della responsabilità civile per atto illecito; in secondo luogo, relativamente ad attività che, seppur socialmente utili e lecite, implicano qualche rischio di danni a terzi, ponendo il costo del danno, mediante la responsabilità civile, a carico di chi esercita l’attività: è la responsabilità oggettiva per rischio di cui si dirà a breve.
Il problema di determinare quali siano gli atti illeciti all’interno del nostro ordinamento nasce a causa dell’ampiezza della clausola generale rappresentata dall’art. 2043 c.c. È vero, come sottolinea l’Autore, che a questa regola generale si affiancano altre norme che regolano tipi particolari di atti illeciti, tuttavia la presenza dell’art. 2043 ne rende aperto l’elenco, aggiungendo altre figure di illecito a quelle espressamente previste dal codice civile. Questa norma accoglie, dunque, un principio di atipicità degli atti illeciti. La clausola generale di cui al 2043, che vieta di recare ingiustamente un danno ad altri, è stata determinata e specificata nel corso del tempo e l’ingiustizia stessa è stata intesa come violazione del dovere generale dell’alterum non laedere.
Superata l’idea, tipica degli anni Sessanta del secolo scorso, secondo cui l’illiceità era limitata alle sole ipotesi di violazione di un diritto soggettivo, privando, evidentemente, l’art. 2043 c.c. del significato di regola generale e degradandolo a norma meramente sanzionatoria di una categoria limitata di atti illeciti, l’Autore, tuttavia, prudentemente mette in guardia dal rischio che la lesione di una situazione giuridicamente rilevante possa dar luogo a responsabilità civile per violazione del dovere costituzionale di solidarietà sociale. Una tesi di questo genere sarebbe così generica da non fornire quelle indicazioni operative certe e sicure delle quali l’interprete ha bisogno. Secondo l’Autore, infatti, il riferimento a un concetto così ondivago, quale è il principio di solidarietà, se da un lato può servire per una interpretazione conforme a Costituzione delle norme di legge, dall’altro apre la strada a una giurisprudenza « arbitrariamente creativa » delle più svariate ipotesi di responsabilità extracontrattuale, creando spazi di incalcolabilità delle conseguenze e di incertezza del diritto. In ogni caso, continua l’Autore, nel settore del danno materiale a persone o cose, al di là della responsabilità nelle ipotesi di danno intenzionale e salve le cause di giustificazione (di cui al cap. IV del presente libro), la problematica giuridica si riduce essenzialmente alla definizione del rischio creato del quale si debba rispondere.
La formula secondo la quale l’illecito civile consiste nella violazione di specifici doveri di condotta, protettivi di interessi altrui, seppur povera di contenuto, è però esatta: escluso infatti che tali doveri debbano risultare da norme specifiche di legge (il che presupporrebbe una completezza dell’ordinamento giuridico che è irraggiungibile), questa espressione non ci dice molto su ciò che è lecito e ciò che è illecito, resta dunque aperto il problema di identificare le singole regole di condotta e i soggetti ai quali siano concessi i rimedi contro l’atto illecito. Mentre infatti la formula che definiva l’illecito come violazione di un diritto soggettivo forniva il criterio per l’immediata identificazione del soggetto tutelato, la formula che fa capo alla violazione di regole di condotta, invece, rende necessaria un’indagine, spesso difficile, sullo scopo del dovere violato: i rimedi contro l’illecito non possono evidentemente essere attribuiti a chiunque abbia subìto un danno causalmente collegato con l’illecito stesso, bensì solo ai portatori di quegli interessi per la tutela dei quali esiste il dovere giuridico violato. Questa esigenza di delimitare la cerchia dei soggetti e degli interessi tutelati è volta ad evitare, spiega l’Autore, sia che gli organi giudiziari vengano sommersi da una marea di pretese, sia che l’economia del danneggiante venga annientata da una responsabilità troppo vasta e sia, infine, per tutelare gli stessi danneggiati diretti, le cui pretese rischierebbero di restare insoddisfatte se dovessero subire il concorso di una folla di danneggiati indiretti. Esistono tuttavia atti illeciti lesivi di interessi che spettano indistintamente all’intera collettività (fermo il diritto al risarcimento dei singoli specificamente danneggiai): si pensi, per esempio, ai danni arrecati all’ambiente o ai danni derivanti alla collettività per il cattivo esercizio, da parte della Pubblica Amministrazione, di poteri destinati a salvaguardare l’interesse pubblico. A questi temi l’Autore dedica, rispettivamente, i capitoli XI e XII del volume. In questi casi non sarebbe praticabile una regola che attribuisca a qualunque interessato di agire in giudizio per il risarcimento della quota di danno; la legge attribuisce perciò ad un solo soggetto pubblico l’azione per il risarcimento del danno collettivo. In ampi settori, poi, in considerazione delle ipotesi in cui il danno del singolo non è di ammontare sufficiente a giustificare il costo e l’alea del giudizio, o la numerosità dei danneggiati crea un problema di costi giudiziari e di coerenza delle decisioni, è prevista la possibilità di azioni di classe di cui all’art. 140-bis cod. cons. (d.lgs. n. 206/2005).
L’Autore chiarisce che, a suo avviso, il problema principale dell’illecito civile consiste nella valutazione comparativa di due interessi contrapposti: da un lato l’interesse del soggetto minacciato dall’altrui condotta e, dall’altro, l’interesse che l’agente tende a realizzare con quella condotta. Questa valutazione è molto importante quando si tratta di disciplinare legislativamente le figure di illecito; la stessa importanza riveste il ruolo dell’interprete che deve integrare la disciplina legislativa laddove questa sia generica o incompleta. Il criterio in base al quale gli interessi in gioco vengono comparati è un criterio di utilità generale, inteso come sintesi o coordinamento degli interessi dei consociati: ciò significa, in particolare, tener conto non solo degli interessi delle parti in conflitto ma anche di quelli dei terzi indirettamente coinvolti.
Nella giurisprudenza degli ultimi anni in tema di responsabilità civile sono frequenti i riferimenti al « contatto sociale » spesso volti, secondo l’Autore, solo a giustificare l’applicazione di regole, soprattutto in tema di onere della prova, proprie della responsabilità contrattuale, in luogo di quelle della responsabilità extracontrattuale e spesso essi appaiono intesi a fondare una responsabilità per violazione di obblighi non espressamente previsti dalla legge ma costruiti dalla giurisprudenza e sottoposti alla disciplina propria della responsabilità contrattuale, pur in assenza di un contratto tra le parti. Questa via può condurre facilmente, spiega con chiarezza l’Autore, ad un allargamento delle ipotesi di responsabilità civile per danno ingiusto perché se si considera il complesso delle decisioni effettive, si scopre che la responsabilità in parola è stata affermata anche in relazione a fattispecie nelle quali essa trovava comunque fondamento nel sistema giuridico, senza necessità di richiamarsi al « contatto sociale ».
L’Autore dedica poi il capitolo V del suo libro all’elemento soggettivo del fatto illecito.
Normalmente l’atto ingiustamente dannoso determina responsabilità civile indipendentemente dalla sua qualificazione come doloso o colposo. Talvolta, poi, la responsabilità è limitata ai casi di dolo o colpa grave (v. artt. 935, comma 1, e 939, comma 3, c.c.). Il dolo, in particolare, consiste nella coscienza e volontà di cagionare l’evento dannoso; l’illecito è colposo, invece, quando l’evento dannoso non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (art. 43 c.p.). In caso di dolo non è necessario, chiarisce l’Autore, che l’evento costituisca lo scopo specifico dell’atto: è sufficiente che sia stato previsto e accettato dall’agente come conseguenza praticamente certa del suo operato: è necessario, cioè, che sia conosciuta la qualità ingiustamente dannosa dell’evento (chi distrugge la cosa altrui nell’erronea convinzione che sia propria non si rende conto di recar danno ad altri, e perciò non agisce dolosamente; l’errore che esclude il dolo, poi, può derivare anche dall’ignoranza o dal fraintendimento di una norma di diritto, ma si deve trattare di un errore che riguardi la qualificazione giuridica di elementi della situazione nella quale si opera. Diversamente il dolo non è escluso in caso di ignoranza della norma che vieta il comportamento dannoso).
La parola « colpa », invece, è usata sia in senso oggettivo, per designare la violazione oggettiva di una regola di condotta, sia in senso soggettivo, per designare la mancanza di chi non abbia tenuto un comportamento da lui concretamente esigibile in relazione alle sue capacità (in quest’ultimo caso, l’Autore, per distinguere le due tipologie, parla di colpevolezza). Più precisamente la colpa, come fondamento della responsabilità civile per danni, consiste in un comportamento che esponga a un rischio non consentito un interesse che sia protetto contro quel tipo di lesione non intenzionale. Perché si possa parlare di colpa occorre che il rischio vada oltre la misura che si considera giustificata e tollerabile. Questa non dipende solo dalla tollerabilità dell’evento dannoso, ma anche dalla gravità del danno che ne risulterebbe. La probabilità e la gravità del danno poi, spiega l’Autore, va confrontata con l’utilità sociale del tipo di condotta e con il costo delle misure idonee a ridurre o ad eliminare il rischio, il quale, in generale, è valutato in base alle constatazioni del passato: talvolta mediante indagini scientifiche, in molti casi (soprattutto da parte delle assicurazioni o delle imprese), mediante vere e proprie statistiche, che possono portare a risultati quantificabili e, assai spesso, semplicemente in base all’esperienza pratica di vita che conduce a qualificare certe situazioni come più o meno pericolose e certi comportamenti come più o meno imprudenti. Al tema della colpevolezza attiene il problema dell’ignoranza della regola giuridica violata. L’art. 5 c.p. detta il principio secondo cui l’ignoranza della legge penale non scusa, ma la Corte costituzionale, nel 1988, ha temperato la regola disponendo che possa valere come scusante l’ignoranza inevitabile. Questo temperamento non può, chiarisce l’Autore, trovare applicazione nel diritto della responsabilità civile, perché in tal caso non si tratta di punire, bensì di stabilire se il danno debba essere sopportato dalla vittima o dal danneggiante, e la dannosità del proprio comportamento voluta o, quantomeno, prevedibile, non consente alcuna indulgenza nei confronti di quest’ultimo.
In caso di danno, poi, il risarcimento può venire ridotto o escluso quando la colpa del danneggiato abbia concorso a cagionare il danno (art. 1227 c.c.); di conseguenza il diritto non solo impone a ciascuno il dovere di astenersi dal danneggiare ingiustamente altri, ma impone anche l’onere di usare una ragionevole diligenza per tutelare sé stessi e il proprio patrimonio eliminando, riducendo o non aggravando il pericolo creato da altri. Combinando in questo modo gli obblighi di non arrecare danno ad altri con gli oneri di tutelare sé stessi si riesce a bilanciare le contrapposte esigenze che si manifestano in questa materia. È bene distinguere, però, sottolinea l’Autore, il concorso di colpa del danneggiato dall’assunzione del rischio: in quest’ultimo caso la responsabilità da atto illecito del danneggiante è esclusa, oppure è limitata alle ipotesi di colpa grave, in caso di concorso di colpa, al contrario, l’an della responsabilità è valutato secondo le regole generali, ma il risarcimento è limitato a una parte del danno; il restante danno è subìto dal danneggiato poiché la sua condotta è stata imprudente. L’assunzione del rischio, invece, può derivare tanto da un’azione irragionevole ed imprudente del danneggiato, quanto da condotte del tutto ragionevoli (si pensi all’esercizio di uno sport); ciò dimostra che l’imprudenza del danneggiato non è il fondamento dell’assunzione del rischio, né un presupposto necessario di essa (al concorso di rischi e colpe l’Autore riserva il capitolo XIX).
Il capitolo VII è dedicato agli illeciti contro la persona, ossia, a titolo esemplificativo, gli atti lesivi della vita, dell’integrità fisica, della salute e della libertà altrui; nel capitolo IX, invece, l’Autore si sofferma sugli illeciti contro il patrimonio, sottolineando come, nel campo degli interessi patrimoniali, la tutela più intensa spetta ai diritti reali e, nel successivo capitolo X, si sofferma sugli illeciti nelle attività di impresa e sugli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c.
Di particolare interesse è poi il capitolo XIII in cui l’Autore chiarisce la funzione della responsabilità oggettiva per rischio quale seconda tipologia di esplicazione della sanzione civilistica di cui si è accennato all’inizio e che riprende, con gli opportuni aggiornamenti, quanto esposto dall’Autore nella sua monografia, già ricordata, del 1961 « Rischio e responsabilità oggettiva ». La responsabilità oggettiva per rischio lecito presenta due funzioni connesse e corrispondenti a quelle proprie della responsabilità da atto illecito: per un verso, essa tende alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato, per altro verso costituisce una pressione economica su chi ha organizzato l’attività economica rischiosa, per lo più un imprenditore (si veda, infatti, sottolinea l’Autore, la responsabilità ex art. 2050 c.c.) Mentre la prima funzione coincide perfettamente in tutte e due le ipotesi di responsabilità in oggetto, le differenze sono rinvenibili in ordine alla seconda funzione, perché, nonostante in entrambi i casi il fine ultimo sia quello di ottenere una riduzione dei fatti dannosi, questo fine viene perseguito, nella responsabilità da atto illecito, con la repressione incondizionata di atti vietati (per i quali, inoltre, è ammissibile l’inibitoria). Nella responsabilità oggettiva per rischio, invece, addossando in capo a chi esercita l’attività il costo del rischio correlativo. In sintesi, dunque, la responsabilità oggettiva per rischio, al pari della responsabilità per colpa, è rivola allo scopo finale di costituire incentivi appropriati per l’adozione delle misure di prevenzione degli incidenti che siano economicamente giustificate ma la differenza consiste nei centri della valutazione di efficienza delle precauzioni, che sta alla base della loro doverosità od opportunità. Per la responsabilità civile che non derivi da fatti dolosi, e soprattutto nei settori nei quali opera la responsabilità oggettiva, è possibile e ampiamente diffusa la pratica dell’assicurazione: il meccanismo assicurativo esprime monetariamente il rischio nel premio di assicurazione e si coordina perfettamente con la funzione della responsabilità oggettiva, che è quella di esercitare una pressione economica costante ed efficace inserendosi razionalmente nel calcolo economico. Il limite di questo meccanismo è, tuttavia, la calcolabilità del rischio: è necessario che si tratti di danni pertinenti a un rischio che abbia un’entità apprezzabile, tale da potersi pretendere che venga calcolato dall’imprenditore e coperto con l’assicurazione o con l’autoassicurazione. Chiarito questo aspetto, l’Autore spiega che la limitazione della responsabilità a una certa somma massima può essere adottata legislativamente solo per singoli tipi, ben definiti, di attività rischiose, in relazione ai quali deve essere calcolata. Un limite che valga invece per ogni tipo di attività non può avere che contorni alquanto imprecisi. Tale il concetto di « caso fortuito », di cui agli artt. 2051 e 2052 c.c., che, opportunamente interpretato, può indicare gli eventi estranei al rischio tipico, a cui l’Autore dedica il capitolo XV. Vi sono poi ipotesi nelle quali il limite della responsabilità deriva da una descrizione dei fatti di cui si risponde: così, per esempio, l’art. 2053 c.c., prevede la responsabilità per i danni causati dalla rovina di un edificio dovuta ad un vizio della struttura di esso (non dovuta, cioè, a forza maggiore) e, analogamente, l’art. 2054 c.c. prevede la responsabilità per i danni causati dalla circolazione del veicolo.
Chiariti tutti questi aspetti, l’Autore affronta, nei capitoli XX ss., il grande tema del nesso di causalità. Le diverse teorie sulla « causalità giuridica » si diversificano tra loro nei criteri che propongono per la selezione delle conseguenze dannose risarcibili. Vi è però accordo generale nel ritenere che il problema della selezione presuppone che si tratti appunto di conseguenze dannose: di eventi, cioè, collegati con un nesso di causalità naturale (c.d. conditio sine qua non) al fatto che è fonte della responsabilità. L’atto illecito, dunque, spiega l’Autore, deve essere condizione necessaria dell’evento dannoso. Il risarcimento del danno è escluso quando questo, anche in mancanza dell’atto illecito del convenuto, si sarebbe verificato ugualmente e sarebbe rimasto definitivamente a carico del danneggiato. Solo quando è presente il rapporto di causalità di fatto e di condizione necessaria si può parlare di conseguenza dannosa. È necessario che a) si tratti di « conseguenze », cioè di eventi legati al fatto iniziale da uno sviluppo continuo spazio-temporale le cui interazioni rientrino in generalizzazioni causali già note; b) che non si tratti di eventi i quali si sarebbero verificati anche in mancanza del fatto che è fonte di responsabilità, restando, come accennato, definitivamente a carico del danneggiato. Analogo discorso vale, con gli opportuni adattamenti, per la responsabilità oggettiva: è l’effettiva causalità dell’evento dannoso la dimostrazione, oggettivamente controllabile, dell’esistenza e delle dimensioni del rischio di impresa. Non tutte le conseguenze dannose, tuttavia, sono risarcibili: il risarcimento del danno è limitato a ciò che è « conseguenza immediata e diretta » dell’atto dannoso (art. 1223 c.c., richiamato dall’art. 2056 c.c.). Maggiori indicazioni, tuttavia, possono ricavarsi dal codice penale, ove al problema della causalità sono dedicati gli artt. 40 e 41. È generalmente ammesso che il medesimo criterio di imputazione delle conseguenze dovrebbe valere, in perfetta simmetria, per la responsabilità penale e per la responsabilità civile. Secondo l’Autore, questa opinione è esatta solo in parte. La responsabilità civile può derivare non solo dal compimento di un atto illecito, ma anche dalla creazione di un rischio lecito di impresa. In questa seconda ipotesi operano criteri limitativi che non hanno riscontro nel diritto penale e, nello stesso ambito della responsabilità da atto illecito, il diritto privato presenta problemi di valutazione del danno che nel diritto penale non si pongono, o si pongono in termini diversi. Tra le diverse teorie elaborate in tema di nesso di causa, quella della « causalità adeguata » ha avuto, nell’Europa continentale, la più ampia accettazione. Essa richiede che l’atto illecito non sia stato semplicemente condizione dell’evento dannoso, ma sia apparso ex ante come idoneo a produrlo. Secondo l’Autore, la teoria in parola può essere sottoposta a critiche che ne dimostrano l’insufficienza, poiché non offre un criterio sufficiente per risolvere il problema, implicito nel riferimento al concetto di « probabilità », della « descrizione ». Infatti, spiega l’Autore, quando si dice che la descrizione deve comprendere tutti gli elementi conoscibili ex ante da un osservatore ideale, si offre un criterio idoneo a descrivere la classe di situazioni in relazione alla quale va valutata la frequenza dell’evento dannoso, ma si lascia aperto il problema della descrizione di quest’ultimo. Quanto più infatti tale descrizione si avvicina a cogliere l’evento nella sua singolarità, tanto più improbabile deve apparire ex ante che l’evento si verifichi proprio in quel modo. Ma fino a che punto si deve procedere nella descrizione dell’evento? La teoria della causalità adeguata lascia insoluto il problema. Nel capitolo XXII l’Autore espone tre criteri che escludono/limitano la responsabilità da atto illecito: i) in relazione a rischi diffusi e indipendenti dall’atto illecito, ossia rischi inerenti a certi atti della vita ordinaria ai quali il bene sarebbe stato esposto comunque, anche in mancanza dell’atto illecito. L’Autore considera l’esempio classico del ferito in un incidente stradale che muore durante il trasporto in ambulanza. Qui il danno è realizzazione del rischio del trasporto automobilistico, rischio che è considerato proprio della vita ordinaria. ii) In relazione a danni che, pur trovando nell’atto illecito un precedente causale, non sono realizzazione del rischio vietato, bensì di un rischio consentito concomitante con quello. Diversamente, precisa l’Autore, la responsabilità dovrebbe affermarsi anche quando il rischio illecito non si sia realizzato, finendo per punire anche un’imprudenza rimasta senza conseguenze; iii) in relazione agli eventi che si siano verificati per il concorso o l’intervento di concause eccezionali (caso fortuito, forza maggiore e atto volontario del terzo), le quali abbiano determinato una gravità del danno in enorme sproporzione con la gravità dell’atto illecito. Il primo criterio limitativo della responsabilità mira ad evitare l’arricchimento derivante da una garanzia contro rischi che altrimenti sarebbero a carico della vittima; a questo scopo esso richiede che si accerti se l’evento dannoso possa considerarsi realizzazione di un rischio tollerabile e distribuito pressoché uniformemente nello spazio e nel tempo, o connesso con atti della vita ordinaria. Trattandosi di evitare un oggettivo arricchimento, occorrerà che la valutazione del rischio sia compiuta oggettivamente. Gli altri due criteri, invece, sono connessi con la funzione preventiva.
Nel capitolo XXIII, poi, l’Autore espone tre criteri che escludono o limitano la responsabilità oggettiva: i) in relazione a rischi ai quali il danneggiato sarebbe stato esposto comunque (dunque una coincidenza con l’analogo criterio della responsabilità da atto illecito); ii) in relazione ai limiti derivanti da una particolare descrizione legislativa. Più specificamente, posto che la responsabilità oggettiva è caratterizzata proprio dal fatto di estendersi a tutto il rischio lecito di impresa (quindi anche al rischio inferiore a quella misura che separa il consentito dal vietato), essa è esclusa solo quando il rischio si sia realizzato in fatti di gravità superiore a quelli che sono considerati inconvenienti intollerabili della vita associata (cfr. art. 844, comma 1, c.c.), in tal caso, quindi, se un danno si verifica ugualmente, per la eccezionalissima sensibilità del bene leso, non dovrà essere risarcito; iii) in relazione ad eventi eccezionali di gravità sproporzionata al rischio tipico dell’attività (anche qui una coincidenza con l’analogo criterio della responsabilità da atto illecito), occorrerà escludere la responsabilità per i fatti atipici estranei a quel rischio che il responsabile può prevedere e contro il quale può premunirsi accantonando riserve o assicurandosi.
La duplice funzione della responsabilità civile richiede che il danneggiante sia gravato, e il danneggiato compensato, in misura corrispondente alle utilità distrutte. Questo risultato si può conseguire senza particolari difficoltà quando il danno è di natura patrimoniale, consistente, cioè, « nella perdita attuale, o attesa, di un bene o servizio sostituibile mediante l’acquisto sul mercato di un bene o servizio uguale, o equivalente ». Non patrimoniale, invece, è il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona che non abbiano rilevanza economica: che non possano, cioè, essere soddisfatti da prestazioni suscettibili di valutazione economica. Il danno non patrimoniale non è risarcibile in generale, ma solo in ipotesi particolari. Superate le storiche difficoltà che hanno indotto inizialmente a negare la risarcibilità del danno non patrimoniale, l’Autore chiarisce che attualmente permangono due gravi difficoltà in ordine al risarcimento di siffatto danno. La prima consiste nel fatto che riconoscere nei termini più generali il carattere di « ingiustizia », e quindi di risarcibilità, al danno non patrimoniale, aprirebbe la strada a un’estensione della responsabilità civile a settori della vita sociale che devono appartenere solo all’etica, al buon costume, alle regole delle civili convivenze, e nei quali il diritto e la macchina giudiziaria non devono interferire. La seconda difficoltà, poi, consiste nel fatto che, mancando un riferimento oggettivo come quello del valore di mercato, in mancanza di un altro criterio la liquidazione giudiziaria del danno non patrimoniale può risultare sottratta a un’oggettiva controllabilità. Sono queste, a detta dell’Autore, le considerazioni che permangono a giustificare una disciplina in qualche modo limitativa della risarcibilità del danno non patrimoniale.
Su chi pretende il risarcimento del danno extracontrattuale incombe in ogni caso l’onere di provare l’atto illecito, o il fatto che è fonte di responsabilità oggettiva, il danno e il rapporto di causalità. All’onere della prova l’Autore dedica il capitolo XXVII del suo libro chiarendo che, se si tratta di responsabilità da atto illecito, al danneggiato incombe anche, di regola, l’onere di provare la colpa; ma in alcuni casi la legge, a questo proposito, inverte l’onere della prova. Se si tratta, invece, di responsabilità oggettiva, incombe sul danneggiante l’onere della prova liberatoria del caso fortuito o della forza maggiore, o degli altri elementi di delimitazione del rischio. Quanto ai criteri di accertamento del fatto, nel diritto civile, a differenza che nel diritto penale, vale un criterio meno rigoroso dell’« oltre ogni ragionevole dubbio » e ci si accontenta del « più probabile che non ». A questo proposito l’Autore chiarisce che quando si tratta dell’accertamento di fatti che implicano il coinvolgimento del convenuto nella vicenda o, viceversa, la sua estraneità, la regola del « più probabile che non » o, come spesso si legge, dell’accertamento fondato con una probabilità « superiore al 50% » è inopportuna. L’idea, spiega l’Autore, che in materia civile ci si debba accontentare di prove meno certe che in materia penale per la pretesa minore gravità delle conseguenze manca di considerare che un’ingiusta condanna al pagamento di una grossa somma di denaro può essere distruttiva della vita di una persona. Inoltre, continua l’Autore, tale regola costituirebbe un incentivo alla litigiosità in situazioni incerte; determinerebbe un generale senso di insicurezza circa la possibilità di essere ingiustamente accusati, senza un’effettiva possibilità di prevenire questo rischio con misure ragionevoli: « non si ritiene conforme all’interesse generale che la stabilità delle situazioni di fatto possa essere così facilmente sconvolta sulla base di una “prova” ridotta a mera verosimiglianza. Considerare come sempre accertato un fatto quando appaia “più probabile che non” significa che, chiunque, per il solo fatto di essere convenuto in giudizio, debba sopportare, nei limiti del “più probabile che non”, il rischio di errore proprio dei procedimenti giudiziari ». Diverso è il caso in cui preesista uno specifico rapporto tra le parti. Così nel caso di rapporti contrattuali o di quei rapporti extracontrattuali che si avvicinano a quelli contrattuali, e così ancora quando il convenuto fosse gravato per legge di un obbligo di prevenzione del danno. In quest’ultima ipotesi, spiega l’Autore, la posizione è compatibile con l’assoggettamento al rischio giudiziario (si pensi, ancora, alla responsabilità del debitore contrattuale, a quella del sorvegliante dell’incapace, a quella dei genitori, tutori, precettori e maestri d’arte e di chi esercita attività pericolose).L’ultimo capitolo del libro è dedicato al tema della prescrizione (artt. 2935 e 2947 c.c.); qui l’Autore chiarisce che, essendo oggetto di un’eccezione in senso proprio, l’onere di provare i fatti che ne costituiscono il fondamento incombe sul danneggiante convenuto.In conclusione: un libro denso di pensiero, di raffinata tecnica giuridica, di logica ferrea. Un libro la cui utilità è a largo spettro. Un libro utile per gli studenti degli ultimi anni di giurisprudenza, ma pure per gli operatori del diritto (avvocati, legali d’azienda). Utilissimo per gli studiosi. Obbligatorio per chi deve giudicare.
Fonte: Rivista di Diritto Internazionale, fasc.3, 1 SETTEMBRE 2018, pag. 753
Autori: Micol Barnabò
LE VIOLAZIONI SISTEMATICHE DELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO COME COMPOSITE ACT AI SENSI DELL’ART. 15 DEL PROGETTO DI ARTICOLI SULLA RESPONSABILITÀ DEGLI STATI
(1)Sommario: 1. Introduzione. — 2. Le violazioni sistematiche di obblighi internazionali nel progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati del 2001 e nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. — 3. Elementi costitutivi del c.d. composite act: la natura dell’obbligo violato. — 4. Segue: l’esistenza di due distinte e autonome violazioni. — 5. Il contributo della Corte europea dei diritti dell’uomo alla definizione della nozione di violazione continua. — 6. Le conseguenze di una violazione sistematica nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: a) sul piano procedurale — 7. Segue: b) sul piano sostanziale — 8. La competenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel controllo dell’esecuzione delle misure generali: la continuazione della violazione come problème nouveau. — 9. Conclusioni.
1. L’opinione prevalente, in dottrina e in giurisprudenza, tende ad ammettere una categoria di violazioni continue di obblighi internazionali rappresentata da illeciti consistenti in un fatto complesso — c.d. composite act nella terminologia inglese.(2)Tale categoria è oggi disciplinata dall’art. 15 del progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati del 2001 (di seguito progetto di articoli). Secondo questa disposizione, i composite acts consisterebbero in una pluralità di azioni od omissioni contrarie ad un obbligo che, esaminate nel loro insieme, danno luogo ad un illecito di carattere continuativo che copre tutto l’arco di tempo che va dal primo all’ultimo atto che li compongono. L’art. 15 configura tale illecito come autonomo: indipendente, cioè, dalla eventuale illiceità delle singole condotte che lo compongono. Non è agevole, peraltro, determinare con certezza quali ipotesi rientrino in tale categoria a causa della scarsità della prassi internazionale e delle divergenti opinioni dottrinali.La nozione di violazione continua — intesa come illecito consistente in un atto complesso — tende sovente a sovrapporsi a quella di violazione sistematica utilizzata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (di seguito anche Corte europea). Quest’ultima nozione è dalla Corte europea elaborata ricollegandola al ripetersi nel tempo di numerosi illeciti della medesima natura tali da provare l’esistenza di una prassi incompatibile con gli obblighi convenzionali. Essa consisterebbe, dunque, nella sua definizione più generale, in « an accumulation of identical or analogous breaches which are sufficiently numerous and inter-connected to amount not merely to isolated incidents or exceptions but to a pattern or system ». L’accertamento dell’esistenza di una situazione di sistematica violazione degli obblighi convenzionali riflette « a continuing situation that has not yet been remedied and in respect of which litigants have no domestic remedy.Tuttavia, secondo la Corte europea, « a practice does not of itself constitute a violation separate from such breaches. La Corte europea sembra, dunque, indicare come l’esistenza di una prassi di uno Stato che si concreta nell’accumulazione di un certo numero di violazioni identiche tali da escludere, anche in ragione della loro frequenza, che si possa trattare di casi isolati, dia luogo a una situazione continua incompatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito anche CEDU), senza però integrare un’autonoma violazione. Ciò non significa, tuttavia, che l’accertamento dell’esistenza di una prassi nel senso ora descritto sia priva di conseguenze tanto sul piano dei rimedi disponibili quanto su quello della riparazione dovuta.Già da queste sintetiche indicazioni, sembra emergere come i comportamenti ripetuti di uno Stato incompatibili con gli obblighi convenzionali costituendone una violazione continua — la c.d. violazione sistematica — non costituiscano un’autonoma violazione della Convenzione europea, ma, al tempo stesso, non si riassumano in ciascuna delle singole condotte che la costituiscono. Una configurazione di violazione continua verrebbe in rilievo, quindi, in quanto essa evidenzi, accanto all’esigenza di tutela di un certo diritto dell’individuo, in relazione a ciascuna delle condotte che la compongono, anche l’esigenza di tutela di un interesse diverso ed ulteriore: quello di evitare una situazione di difformità permanente fra l’ordinamento statale interessato e il sistema convenzionale. Il riconoscimento della natura continuativa dell’illecito sembra infatti determinare il sorgere, in capo allo Stato interessato, dell’obbligo di cessazione dell’illecito medesimo a tutela dell’interesse generale alla preservazione del sistema convenzionale di cui sono titolari gli Stati parti nel loro insieme. In altre parole, se lo Stato è chiamato a rispondere della singola violazione sia di fronte alla vittima che nei confronti di tutti gli Stati parti della Convenzione, esso è altresì chiamato a rispondere, questa volta solo nei confronti della comunità degli Stati parti, per l’esistenza di una situazione di permanente difformità rispetto alla Convenzione europea.Se pure lo Stato autore di un illecito dovrà comunque rispondere della violazione di fronte alla comunità degli Stati parti, in virtù del carattere erga omnes partes degli obblighi convenzionali, non necessariamente il contenuto della responsabilità è identico, rispettivamente, nel caso di una violazione singola ovvero nel caso di una violazione sistematica. Mentre nel primo caso l’obbligo dello Stato concerne una situazione individuale, nel secondo l’obbligo sembra espandersi e mutare natura, divenendo un obbligo di cessazione avente ad oggetto una prassi statale strutturalmente contraria alla Convenzione. Come si vede, in questa accezione, la nozione di violazione continua sembra riferirsi non tanto al singolo illecito che si prolunga nel tempo, quanto piuttosto ad una situazione di strutturale difformità fra l’ordinamento giuridico che si impone in via di fatto nel territorio di uno Stato parte e il sistema convenzionale. Secondo la Corte europea, l’identificazione di una violazione sistematica della CEDU « does not necessarily have to be linked to, or based on, a given number of similar applications already pending », anche se « the potential inflow of future cases is also an important consideration in terms of preventing the accumulation of repetitive cases on the Court’s docket, which hinders the effective processing of other cases giving rise to violations, sometimes serious, of the rights it is responsible for safeguarding » . Inoltre « (a) systemic or structural problem stems or results not just from an isolated incident or a particular turn of events in individual cases but from defective legislation, when actions and omissions based thereon have given rise, or may give rise, to repetitive applications »Alla luce di quanto brevemente anticipato, uno studio della nozione di c.d. composite act ben può prendere spunto dagli elementi di sovrapposizione evidenziati e verificare se sia possibile determinarne il contenuto e la portata attraverso il confronto con la nozione di violazione sistematica. Tramite l’analisi delle forme di interferenza fra queste due nozioni, si potranno, forse, rinvenire elementi utili per definire le violazioni consistenti in un atto complesso ai sensi dell’art. 15 del progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati. L’ipotesi di lavoro assunta come punto di partenza dell’analisi è data dalla esistenza di due categorie di violazioni continue: la prima è quella tradizionalmente ricondotta ad un’unica condotta illecita che si protrae nel tempo; la seconda è rappresentata, per l’appunto, dalle violazioni ex art. 15 del progetto di articoli. Più dubbia è l’esistenza di un terzo tipo di violazione continua ricondotta da una parte della dottrina a quei casi, descritti nel commentario all’art. 30 del progetto di articoli, di ripetuti illeciti della medesima natura che per il loro numero e frequenza rendano credibile il rischio del ripetersi delle condotte illecite senza, peraltro, integrare nel loro complesso una diversa e distinta violazione; ne sarebbero un esempio proprio le violazioni sistematiche della Convenzione europea2. Nella ricerca della collocazione da dare alla figura delle violazioni sistematiche della Convenzione europea, descritta ancora in termini generici, conviene riportare l’attenzione sull’art. 15 del progetto di articoli, il quale disciplina le violazioni consistenti in un atto complesso. Questa disposizione è stata più volte richiamata dalla stessa Corte europea , ma la sua applicabilità all’ipotesi di accumulazione di violazioni aventi la stessa natura è fonte di diversi problemi. L’art. 15 stabilisce, nel suo par. 1, che « The breach of an international obligation by a State through a series of actions or omissions defined in aggregate as wrongful, occurs when the action or omission occurs which, taken with the other actions or omissions, is sufficient to constitute the wrongful act » . In questo caso, l’illecito si estende per tutto l’arco di tempo che va dalla prima all’ultima azione o omissione, dando dunque luogo ad una seconda ipotesi di violazione continua .Nel sistema della Convenzione europea, l’esistenza di una prassi incompatibile con gli obblighi convenzionali sembra comportare la simultanea presenza di due elementi: la « repetition of acts » e l’« official tolerance ». Mentre sul primo dei due profili ci siamo già soffermati, con il secondo si fa riferimento alla circostanza che sia mancata una risposta efficace da parte delle autorità nazionali volta a porre fine al loro ripetersi . Questa dicotomia sembra riflettere l’interpretazione di Salmon, secondo il quale proprio l’« intent » permetterebbe di distinguere un « composite act », di cui la prassi sarebbe l’esempio più chiaro in virtù del carattere sistematico insito nella sua stessa natura, da una semplice ripetizione dello stesso illecito. L’intento, implicito nella ripetizione di condotte, sarebbe dunque l’elemento distintivo della categoria di violazioni descritte nell’art. 15 del progetto di articoli, fungendo da collante tra situazioni distinte, sì da consentirne l’inquadramento in una unitaria categoria concettuale. In questo caso, « what is wrongful is the whole of the acts which have a global nature, the effect being, if not a change in the character of the breach, at least the conferral of its own identity because of its systematic character » In coerenza con tale ricostruzione Salmon definisce, quindi, il composite act come « one which, although not consisting of a single conduct, continues in time: it is constituted of a series of individual acts of the State which follow each other, and which all contribute to the realization of the global act in question » . L’insieme delle singole azioni od omissioni deve dunque dare luogo ad una categoria giuridica, la quale, considerata nel suo complesso, rappresenti più della sola somma di esse ; è solo dopo che si sia raggiunta la soglia di atti o omissioni necessari che si potrà accertare l’esistenza di una situazione autonoma.Occorre peraltro distinguere due categorie di violazioni consistenti in un fatto complesso ai sensi dell’art. 15 del progetto di articoli: tale nozione può essere utilizzata tanto nel caso in cui la violazione sia il risultato di tanti fatti singoli di per sé leciti — di cui il classico esempio è dato da una prassi discriminatoria — quanto in quello in cui sia i singoli fatti sia il loro complesso abbiano carattere illecito. Esempio classico di questo secondo caso è dato dal genocidio. L’ambivalenza della nozione risulta con evidenza da quanto chiarito nel commentario alla stessa disposizione dove si legge che, « [w]hile composite acts are made up of a series of actions or omissions defined in aggregate as wrongful, this does not exclude the possibility that every single act in the series could be wrongful in accordance with another obligation » . Sul punto la dottrina è tendenzialmente concorde.
Si pone, tuttavia, il problema di verificare se la categoria delle violazioni sistematiche, come essa emerge dalla giurisprudenza della Corte europea, possa trovare adeguata collocazione concettuale nell’ambito degli illeciti consistenti in un fatto complesso ai sensi dell’art. 15 del progetto di articoli. La dottrina è infatti divisa sull’individuazione degli elementi costitutivi delle fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione della disposizione in esame e sulla sua applicabilità alle situazioni in cui uno Stato abbia violato un obbligo internazionale in una serie di occasioni e possa quindi commettere nuovi illeciti della medesima natura, senza che il carattere sistematico delle violazioni individuali comporti il verificarsi di un illecito ulteriore e distinto.L’ipotesi è espressamente esaminata nel commentario all’art. 30 del progetto di articoli, che disciplina l’obbligo di cessazione e non ripetizione, dove si legge che, « [w]hile the obligation to cease wrongful conduct will arise most commonly in the case of a continuing wrongful act [under Article 14], article 30 also encompasses situations where a State has violated an obligation on a series of occasions » . Infatti, « [t]he phrase “if it is continuing” at the end of subparagraph (a) of the article is intended to cover both situations » . Ciò sembra indicare che l’obbligo di cessazione si applichi tanto alle violazioni continue riconducibili all’art. 14 del progetto di articoli e concepite come il prolungarsi nel tempo di un’unica condotta illecita , quanto all’ulteriore ipotesi che si configurerebbe quando una serie di violazioni individuali determinano una verosimile possibilità (the possibility nella versione inglese; un risque nella versione francese) di nuovi comportamenti illeciti dello stesso tipo. La terminologia dell’articolo in esame sarebbe stata modificata nel corso dei lavori della Commissione proprio per chiarire tale punto. Così il ripetersi di illeciti della medesima natura dà luogo a una situazione continua che comporta l’obbligo, per lo Stato responsabile, di porvi fine. Posto che, come detto, essa non rientra nella disciplina dell’art. 14 del progetto di articoli, va appurato se si tratti di una diversa e distinta fattispecie di violazione continua ovvero di una categoria assimilabile alle violazioni consistenti in un fatto complesso ai sensi dell’art. 15 del progetto di articoli . La questione è rilevante ai fini dell’indagine ed è proprio nell’ambito delle violazioni della Convenzione europea che si trovano le indicazioni più interessanti.3. In senso negativo rispetto alla possibilità di ricondurre una prassi di singole condotte illecite nell’ambito di applicazione dell’art. 15 del progetto di articoli si è espresso Crawford, il quale ha sottolineato come tale caso si distingua dalla violazione continua costituita da un atto complesso. Secondo tale autore, « [s]ome conflate the violation of an obligation on a series of occasions with composite acts in the sense used in Article 15. Article 15 is “limited to breaches of obligations which concern some aggregate of conduct and not individual acts as such”. In other words their focus is “a series of acts or omissions defined in aggregate as wrongful”, such as genocide. Composite acts are one form of conduct that gives rise to continuing breaches. The commentary explicitly distinguishes between composite acts and the violation of an obligation on a series of occasions » . Elemento distintivo del composite act sarebbe, secondo lo stesso autore, la circostanza che una serie di atti od omissioni, siano queste individualmente considerate lecite o illecite, integrino nel complesso una nuova fattispecie illecita indipendente rispetto alle eventuali singole violazioni. In altre parole, la somma degli atti o delle omissioni deve dare luogo « in aggregate » ad un comportamento illecito. Ma cosa distinguerebbe allora questa fattispecie dalla singola violazione originata da una serie di atti o omissioni? Un esempio di quest’ultima è dato, come lo stesso Crawford riconosce nel Second report on the responsibility of States, dal caso di un obbligo semplice previsto da un accordo bilaterale che preveda per ciascuna parte il divieto di prelevare da un corso d’acqua frontaliero un certo volume d’acqua. Il superamento del limite quantitativo attraverso il ripetersi di singoli atti di prelievo non dà di per sé luogo a una violazione continua: l’illecito si verifica solo nel momento in cui il suddetto limite viene oltrepassato a meno di non dimostrare che vi fosse sin dal primo momento un intento fraudolento diretto a violare l’obbligo convenzionalmente stabilito. La risposta al quesito posto starebbe, secondo Crawford, nella diversa natura dell’obbligo violato: affinché si possa parlare di atto complesso ai sensi dell’art. 15 del progetto di articoli, si deve essere di fronte ad una « “systematic” obligation », ossia a « primary norms which define acts as wrongful in terms of their inherently wrongful or systematic character » . Ne sarebbe un chiaro esempio il genocidio, la cui commissione può essere accertata solo dopo che si cumulino una serie di singoli omicidi (oltre ovviamente alla presenza dell’intento di compiere il genocidio); una volta superata la soglia richiesta però si considera che la violazione sia iniziata con la prima delle uccisioni e si sia estesa nel corso di tutto il periodo in cui i singoli atti hanno avuto luogo. L’elemento caratterizzante una simile fattispecie, dunque, starebbe nel fatto che la stessa norma che disciplina il divieto di genocidio prevede che esso si componga di una serie di distinte condotte costitutive del genocidio medesimo, legate dalla volontà statale che le compone in un disegno unitario. Secondo questa ricostruzione, quindi, la « violation of an obligation on a series of occasions » non darebbe luogo a una violazione consistente in un fatto complesso, bensì costituirebbe una terza figura di situazione continua qualora sia possibile dimostrare l’esistenza di un intento statale che trasformi in una situazione unitaria una semplice ripetizione di singole violazioni individuali ovvero il superamento attraverso la ripetizione di più atti di un limite quantitativo stabilito da una norma primaria che non preveda una « “systematic” obligation ». A differenza di quanto avviene per le violazioni di obblighi a carattere sistematico, tali situazioni non rivestirebbero un’importanza tale da giustificare un « traitement spécial, à la fois en ce qui concerne le moment où les violations ont été commises et l’application du principe d’intertemporalité »4. Ad una conclusione simile è giunto Wyler ma con un ragionamento diverso. A suo avviso, la c.d. prassi amministrativa, e quindi l’ipotesi della ripetizione delle medesime condotte illecite che renda credibile la possibilità di nuove violazioni così come descritta nel commento all’art. 30 del progetto di articoli, non darebbe luogo ad una violazione del tipo disciplinato dall’art. 15 del progetto per il fatto che essa non comporta una violazione della Convenzione europea ulteriore e distinta da quelle di cui è composta, come invece sarebbe richiesto da quest’ultima disposizione .In senso diametralmente opposto si è espresso Pauwelyn, il quale, richiamandosi al caso Irlanda c. Regno Unito, in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha esplicitamente escluso la possibilità che l’accumularsi di violazioni della medesima natura dia luogo ad un’autonoma violazione, fa rientrare nell’art. 15 del progetto di articoli anche l’ipotesi in cui « the composite act as such does not constitute a violation distinct from the violations caused by the individual acts composing it » . Entrambi gli autori hanno assunto la definizione di « prassi amministrativa » data dalla Corte europea nel caso Irlanda c. Regno Unito, ma ne hanno tratto conclusioni molto diverse. Wyler è partito dalla definizione di « composite act » negandone l’applicabilità alla nozione di c.d. prassi amministrativa delineata nell’ambito della giurisprudenza della Corte europea. Pauwelyn ha desunto da quest’ultima un elemento della prassi utile ad interpretare l’art. 15 del progetto di articoli. La questione di determinare se la sistematica violazione di un obbligo internazionale debba dare luogo ad un illecito diverso e distinto rispetto a quelli di cui è composto affinché si possa parlare di « composite act » ai sensi dell’articolo in esame rappresenta quindi un aspetto centrale intorno al quale si è sviluppato il dibattito dottrinale.5. Nell’interpretazione che ne ha dato la Corte europea dei diritti dell’uomo, l’art. 15 del progetto di articoli del 2001 non troverebbe applicazione esclusivamente in presenza di ripetute violazioni di obblighi a carattere sistematico. In via generale, la Corte europea ha in diverse occasioni riconosciuto la rilevanza autonoma della prassi come situazione continua. Proprio con riferimento alla violazione sistematica da parte dell’Italia dell’art. 6 CEDU sotto il profilo della ragionevole durata del processo, il giudice europeo ha stabilito che « the frequency with which violations are found shows that there is an accumulation of identical breaches which are sufficiently numerous to amount not merely to isolated incidents », cosicché « such breaches reflect a continuing situation that has not yet been remedied and in respect of which litigants have no domestic remedy ». La Corte europea osserva che « this accumulation of breaches accordingly constitutes a practice that is incompatible with the Convention » , ma non arriva a riconoscervi un’autonoma violazione. È del resto difficile rinvenire nel testo convenzionale disposizioni che richiedano una ripetizione e « sistematicità » delle condotte statali per dar luogo ad una violazione della Convenzione .Resta da domandarsi se tale affermazione sia coerente con il riconoscimento — nell’ambito della medesima sentenza Irlanda c. Regno Unito — di una violazione di un diritto convenzionalmente garantito determinata esclusivamente dall’esistenza di una c.d. prassi amministrativa. In altre parole, oggetto del ricorso interstatale nel caso in esame era proprio la richiesta fatta al giudice europeo di condannare il Regno Unito per una prassi, da valutare globalmente, ritenuta contraria all’art. 3 CEDU. In tali circostanze, la situazione delle singole vittime viene presa in considerazione come elemento a riprova dell’esistenza della suddetta prassi, prescindendo da altre considerazioni come, per esempio, il fatto che esse abbiano esperito tutti i ricorsi interni efficaci .In qualche occasione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha richiamato l’art. 15 del progetto di articoli, indicando che, « in the case of a series of wrongful acts or omissions, the breach extends over the entire period starting with the first of the acts and continuing for as long as the acts or omissions are repeated and remain at variance with the international obligation concerned » . A tale indicazione, la Corte europea ha dato seguito in varie occasioni. Un esempio molto chiaro è dato dal caso El-Masri c. Ex-Repubblica iugoslava di Macedonia. Il ricorrente era un cittadino tedesco vittima di una c.d. sparizione forzata (enforced disappearance). Fermato al confine macedone, il sig. El-Masri era stato, in un primo momento, trattenuto dalle autorità in stato di detenzione a Skopje (dal 31 dicembre 2003 al 23 gennaio 2004), per poi essere consegnato ad agenti della CIA (c.d. extraordinary rendition) sotto il cui controllo era rimasto fino al momento del suo ritorno in Germania il 29 maggio 2004. La Corte europea ha riconosciuto la responsabilità delle autorità macedoni anche in relazione al periodo di detenzione del ricorrente in Afghanistan sotto il controllo delle autorità statunitensi . In conseguenza di tale accertamento, la Corte ha concluso che la violazione dell’art. 5 CEDU da parte dell’Ex-Repubblica iugoslava di Macedonia si era estesa per tutto il periodo in cui il sig. El-Masri era stato privato della sua libertà. In particolare, la Corte ha stabilito che « [t]he applicant’s “enforced disappearance”, although temporary, was characterised by an ongoing situation of uncertainty and unaccountability, which extended through the entire period of his captivity. In this connection the Court would point out that in the case of a series of wrongful acts or omissions, the breach extends over the entire period starting with the first of the acts and continuing for as long as the acts or omissions are repeated and remain at variance with the international obligation concerned » . In base a tali considerazioni, « the Government is to be held responsible for violating the applicant’s rights under Article 5 of the Convention during the entire period of his captivity » . Applicando il principio ricavato dall’art. 15 del progetto di articoli , il giudice europeo arriva a riconoscere l’esistenza di una violazione continua dell’art. 5 CEDU composta da distinti fatti illeciti. Tuttavia, l’art. 5 CEDU non sembra vietare condotte aventi carattere « sistematico », carattere questo che, secondo Crawford, distinguerebbe le norme primarie la cui violazione è idonea a dar vita a un atto complesso (« composite act ») ai sensi dell’art. 15 del progetto di articoli.Un ulteriore contributo viene dalla giurisprudenza della Corte europea relativa all’art. 6 della Convenzione. Se dapprima la Corte aveva indicato come l’accertamento della violazione dell’art. 6 CEDU per eccessiva durata di un procedimento interno rendeva inutile l’esame di una eventuale doglianza relativa all’ulteriore violazione dell’art. 13 CEDU in merito all’assenza di ricorsi interni efficaci, un diverso orientamento si è affermato a partire dalla sentenza Kudla c. Polonia Alla base del nuovo orientamento adottato nella sentenza Kudla vi è proprio la constatazione dell’accumularsi di numerose violazioni della medesima natura. Si legge nella motivazione: « In the Court’s view, the time has come to review its case-law in the light of the continuing accumulation of applications before it in which the only, or principal, allegation is that of a failure to ensure a hearing within a reasonable time in breach of Article 6, para. 1 » Dato il numero e la frequenza sempre crescenti delle violazioni dell’art. 6 CEDU per eccessiva durata del processo, la Corte ha ritenuto che occorresse esaminare separatamente le doglianze del ricorrente anche alla luce dell’art. 13 CEDU . In altre parole, l’accertamento dell’esistenza di una prassi di violazioni dell’obbligo della durata ragionevole del processo (art. 6 CEDU), tale da escludere che si tratti di casi isolati, ha portato la Corte europea a riconoscere l’esistenza di un’autonoma e diversa violazione della Convenzione europea (art. 13 CEDU). Una simile conclusione sembrerebbe smentire quanto si è detto circa la circostanza che la prassi, pur potendo avere una sua autonoma rilevanza come situazione continua contraria alla Convenzione europea, non darebbe luogo, in principio, ad una violazione distinta. Siamo infatti di fronte a due illeciti distinti: uno dato dalla singola violazione che contribuisce a renderla sistematica (art. 6 CEDU); l’altro derivante dalla circostanza che la sua sistematicità costituisce violazione dell’art. 13 CEDU. Mentre il primo è un singolo illecito, il secondo potrebbe essere riconducibile all’art. 15 del progetto di articoli. Inoltre, anche in questo caso, non sembra potersi ritrovare nei comportamenti vietati dall’art. 13 CEDU quel carattere di sistematicità ritenuto necessario da una parte della dottrina affinché trovi applicazione l’art. 15 del progetto di articoli.Quanto detto fino ad ora permette di trarre alcune parziali conclusioni. In primo luogo, dai passaggi ripercorsi, si possono ricavare gli elementi da cui emerge una sostanziale assimilazione della nozione di violazione continua consistente in una « series of wrongful acts or omissions » elaborata nell’ambito del sistema CEDU (c.d. violazione sistematica) a quella di violazione continua consistente in un atto complesso disciplinata all’art. 15 del progetto di articoli. È la stessa Corte europea, infatti, a ricondurre le violazioni sistematiche, e il carattere continuativo della violazione che ne deriva, nell’alveo del suddetto art. 15 del progetto, contribuendo così, attraverso la propria giurisprudenza, a definirne gli elementi costitutivi. In altre parole, se è vero che nell’elaborazione della nozione di violazione sistematica la Corte europea ha richiamato in modo esplicito ovvero implicito l’art. 15 del progetto di articoli, si può guardare alla giurisprudenza rilevante di tale Corte come ad un elemento della prassi internazionale utile a definire la nozione di violazione continua consistente in un atto complesso.A tale ultimo proposito, dunque, dalla giurisprudenza della Corte europea esaminata, sembrano potersi trarre alcune indicazioni nel senso di ritenere irrilevante, al fine dell’applicazione dell’art. 15 del progetto di articoli, che l’insieme degli atti e delle omissioni diano luogo globalmente ad una violazione di diversa natura rispetto a quelle di cui essa è composta. Inoltre, l’affermazione della Corte europea secondo cui la prassi darebbe luogo a una situazione continua, ma non ad un’autonoma violazione convenzionale, non sembra del tutto coerente con l’applicazione concreta che è stata fatta della nozione di c.d. prassi amministrativa, come, ad esempio, nel caso Kudla, nonché con la struttura e la funzione dei ricorsi interstatali. Infine, la Corte europea non sembra attribuire alcun rilievo alla distinzione tra obblighi di natura sistematica e quelli di natura semplice secondo la classificazione suggerita da Crawford.Da una parte, la Corte europea ha espressamente richiamato l’art. 15 del progetto di articoli nell’ambito di una violazione individuale che si componeva di due distinti fatti e, dall’altra, ha riconosciuto l’esistenza di una prassi amministrativa, con le specifiche conseguenze ad essa ascritte, nei casi di ripetute violazioni di disposizioni in principio rivolte a tutelare diritti individuali. Conformemente all’opinione prevalente, l’intento rappresenta, insieme alla ripetizione degli atti, l’elemento costitutivo di tale prassi. Questo può prendere anche la forma di una mera tolleranza che emerge dalla mancanza di reazione di fronte al ripetersi di numerosi illeciti della medesima natura.Per apprezzare la rilevanza della nozione di violazione sistematica, sembra quindi necessario passare all’analisi delle conseguenze che la Corte europea collega ad un suo accertamento. Se in via di principio una violazione sistematica non desse luogo ad una violazione autonoma della Convenzione, ci si dovrebbe chiedere in cosa consista la sua rilevanza.6. La giurisprudenza della Corte europea consente di individuare una serie di conseguenze che discendono dalla qualificazione di un illecito come sistematico: talune di procedura, altre di carattere sostanziale.Cominciando dalle prime, viene in rilievo, innanzi tutto, la circostanza che il carattere continuativo della violazione lamentata sembra condizionare la determinazione della competenza ratione temporis della Corte europea e l’ammissibilità di un ricorso individuale ai sensi dell’art. 35, par. 1, della Convenzione, sia in relazione al limite temporale di sei mesi dalla decisione interna definitiva per introdurre un ricorso sia in relazione al requisito dell’esaurimento delle vie di ricorso interne. Ci si può domandare se lo stesso avvenga quando si è di fronte a una situazione continua originata da una sistematica violazione dei diritti convenzionalmente garantiti.Nel caso Preussische Treuhand Gmbh and Co. Kg A. A. c. Polonia i ricorrenti lamentavano l’illiceità delle espropriazioni subite da parte dello Stato prima che la Polonia divenisse parte della Convenzione europea e del Protocollo n. 1 che tutela il diritto di proprietà. Tuttavia, secondo i ricorrenti, le confische di proprietà da parte dello Stato convenuto non sarebbero state frutto di atti istantanei, ma, al contrario, avrebbero creato una situazione continua in ragione della loro connessione con misure di pulizia etnica. Infatti, « [t]he expulsion and seizure of the property of the individuals concerned, accompanied by the above-mentioned ethnic cleansing, constituted a serious violation of mandatory rules of international law — a “composite act” as defined by Article 15 of the International Law Commission’s Articles on Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts […]. Since crimes against humanity and their consequences were not subject to limitation, the actions in question had created a “continuing situation”. La Corte europea non ha accolto una simile ricostruzione ritenendo invece che le contestazioni dei ricorrenti riguardassero specifici eventi (singoli atti di violenza, espulsioni, privazioni della proprietà) che, « if assessed as a whole, cannot be regarded as anything more than instantaneous acts » , così negando la propria competenza ratione temporis.La regola del previo esaurimento delle vie di ricorso interne si applica, in via di principio, sia ai ricorsi individuali che a quelli inter-statali; in entrambi i casi essa viene disapplicata quando si dimostri l’esistenza di una prassi incompatibile con la Convenzione europea. Con riferimento alla seconda ipotesi, la Corte afferma che « the rule does not apply where the applicant State complains of a practice as such, with the aim of preventing its continuation or recurrence, but does not ask the Court to give a decision on each of the cases put forward as proof or illustrations of that practice ». Quando uno Stato parte introduce un ricorso per lamentare la sistematica violazione da parte di un altro Stato di uno o più obblighi convenzionali non è dunque necessario che sia dimostrato l’esperimento di ogni ricorso interno efficace da parte delle singole vittime.Allo stesso modo la regola dei sei mesi, cioè il limite temporale superato il quale la vittima decade dal diritto di presentare ricorso dinanzi alla Corte europea, non trova applicazione quando si sia dinanzi ad una « continuing practice », al pari di quanto avviene nel caso di violazioni continue individualiInfine, un aspetto particolarmente interessante riguarda la possibilità per la Corte europea di continuare l’esame di un ricorso anche quando le parti abbiano nel frattempo raggiunto un accordo ovvero vi siano altri motivi di cancellazione del procedimento dal ruolo. Ciò può accadere quando vi sia il rischio che si ripetano illeciti della medesima natura di quelli lamentati nel caso di specie, al fine « to induce the respondent State to resolve a structural deficiency affecting other persons in the same position as the applicant ».7. Passando ora alle conseguenze di ordine sostanziale, un primo riflesso del carattere sistematico di una violazione si ha, sul piano della riparazione e, più precisamente, in relazione all’ammontare dell’equa soddisfazione riconosciuta dalla Corte europea alle vittime ai sensi dell’art. 41 CEDU. Dopo il 1999, per esempio, l’ammontare della riparazione ha subito un incremento nei casi di ripetute violazioni da parte dell’Italia dell’art. 6 CEDU per eccessiva durata del processo. Questa scelta della Corte europea risponde ad un duplice intento. Dopo aver sottolineato che tale aumento non ha carattere punitivo, la Corte ha chiarito che esso, da una parte, « encouraged States to find their own, universally accessible, solution to the problem », mentre, dall’altra, « it allowed applicants to avoid being penalised for the lack of domestic remedies ».Anche più interessante appare la circostanza che il carattere sistematico di una violazione può comportare il ricorso ad ulteriori strumenti di riparazione, a volte di tipo restitutorio, aventi lo scopo di evitare la ripetizione dell’illecito. In un numero sempre maggiore di casi la Corte europea ha abbandonato il tradizionale self-restraint precedentemente adottato in materia di riparazione, spingendosi ad indicare allo Stato responsabile, e alle volte a prescrivere, l’adozione di specifiche misure di esecuzione delle proprie sentenze . In via di principio, infatti, il giudice europeo ha sempre ritenuto che la natura puramente dichiarativa delle proprie pronunce gli impedisse di indicare — e tanto meno ordinare — allo Stato responsabile le azioni da compiere al fine di conformarsi alla sentenza, fatta eccezione per l’equa soddisfazione espressamente disciplinata dall’art. 41 CEDU. Senza abbandonare del tutto questa impostazione, esso ha però parzialmente rivisto tale posizione.Così, quando la Corte europea ha accertato l’esistenza di un deficit strutturale a livello nazionale, essa, sempre più spesso, ha indicato allo Stato convenuto le riforme da introdurre per conformare l’ordinamento interno agli standards convenzionali. Sono queste le c.d. misure generali. Da un punto di vista pratico, tali misure hanno rappresentato una soluzione rispetto all’esigenza di far fronte all’enorme carico di lavoro generato dall’introduzione di numerosi ricorsi « ripetitivi », tesi, cioè, a far valere la medesima doglianza rispetto ad analoghe condotte da parte degli Stati I c.d. casi ripetitivi trovano la propria origine in una legislazione ovvero in prassi amministrative e giudiziarie incompatibili con la Convenzione europea. Il primo caso, dato da una strutturale incompatibilità di una norma generale interna rispetto agli standards convenzionali, costituisce una delle ipotesi tipiche di violazione continua, cosicché la riforma legislativa richiesta a titolo di misura generale rappresenta il mezzo tipico per porvi fine, conformando così l’ordinamento interessato alla Convenzione europea. La conferma si trova nella stessa giurisprudenza della Corte europea che esplicitamente richiede la modifica dell’ordinamento allo scopo di mettere fine alla violazione, anche quando il deficit strutturale derivi direttamente da « vides juridiques », cioè dalla mancanza di disciplina legislativa di alcuni aspetti delle relazioni sociali Quando si passa alla seconda delle due ipotesi, ossia ai casi di violazioni sistematiche derivanti da una prassi interna contraria alle garanzie convenzionali, la Corte europea tende a individuare la non ripetizione dell’illecito quale finalità delle misure generali richieste e non più la cessazione dello stesso.Nonostante parte della dottrina tenda ad attribuire a tali misure una funzione prevalentemente preventiva, una tale ricostruzione non appare del tutto convincente. Affinché la Corte europea riconosca l’esistenza di un deficit dell’ordinamento interno e, di conseguenza, una violazione sistematica, il numero dei casi individuali introdotti dinanzi ad essa deve essere sufficientemente consistente da rivelare, per l’appunto, una prassi amministrativa o giudiziaria da esaminare nel complesso. Solo in quest’ultimo caso, infatti, i singoli illeciti oggetto delle controversie tra individuo e Stato convenuto non vengono considerati esclusivamente come violazioni nel caso di specie, ma piuttosto diventano l’occasione per trattare una questione di carattere più generale che coinvolge la responsabilità dello Stato nei confronti delle altre parti contraenti. In caso contrario, la Corte europea non parlerebbe di prassi con tutte le conseguenze che da questa qualificazione discendono. L’accertamento dell’esistenza di una tale prassi, infatti, è determinante già nel momento della valutazione dell’ammissibilità del ricorso sotto il profilo, come si è visto, del previo esaurimento dei ricorsi interni.Con riferimento alla questione che qui ci interessa, la conseguenza della circostanza che « the frequency with which violations are found shows that there is an accumulation of identical breaches which are sufficiently numerous to amount not merely to isolated incidents » è la determinazione, da parte della Corte europea, delle misure generali di esecuzione della propria sentenza che mirano a rendere conforme l’ordinamento interno alla Convenzione europea, mettendo così fine alla « continuing situation » a cui la prassi in questione ha dato vita.In sintesi, il carattere sistematico della violazione di un obbligo convenzionale comporta delle conseguenze sostanziali diverse e più onerose rispetto a quelle dei singoli illeciti. In questo senso tale situazione sembrerebbe dunque rientrare nella seconda delle categorie di situazioni (« wrongful conducts that are also incriminated as practices ») che Salmon riconduce all’art. 15 del progetto di articoli8. Nell’ambito della CEDU, una diversa ipotesi di violazione può essere rinvenuta a proposito del sistema di esecuzione delle sentenze che abbiano accertato una precedente violazione dei diritti convenzionali. L’art. 46 della Convenzione europea assegna, come noto, il potere di controllo sull’esecuzione delle sentenze ad un organo di natura politica: il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. A quest’ultimo, dunque, spetta il compito di valutare l’adeguatezza delle misure adottate sul piano interno da parte dello Stato interessato al fine di adempiere agli obblighi derivanti dall’accertamento di una violazione della Convenzione europea. Il coinvolgimento della Corte europea è oggi previsto solo in due ipotesi disciplinate dal citato art. 46 CEDU. Il Comitato dei ministri, infatti, può adire la Corte ogni qual volta ritenga che « il controllo dell’esecuzione di una sentenza definitiva sia ostacolato da una difficoltà di interpretazione di tale sentenza » ovvero che « un’Alta Parte contraente rifiuti di conformarsi a una sentenza definitiva in una controversia cui essa è parte dopo aver messo in mora tale Parte ». Nel primo caso si parla di ricorso interpretativo (recours en interprétation), mentre nel secondo di ricorso per inadempimento (recours en manquement). Anche in questi casi, però, il coinvolgimento della Corte europea presuppone una scelta del Comitato dei ministri.La prassi relativa all’indicazione delle misure individuali e/o generali ha tuttavia inciso sull’autonomia riconosciuta, in via di principio, agli Stati nella scelta delle misure di esecuzione da adottare nell’ordinamento interno e, di conseguenza, ha eroso il margine di apprezzamento riservato al Comitato dei ministri nell’esercizio del potere di sorveglianza ai sensi dell’art. 46 CEDU. Questo organo, infatti, ha mostrato una certa tendenza ad adeguarsi alle indicazioni della Corte europea, anche quando queste non assumano la forma di una vera e propria ingiunzione, rimanendo contenute nella sola motivazione della sentenzaUna seconda novità inoltre emerge dalla prassi; essa incide sul riparto delle competenze tra Comitato dei ministri e Corte europea nel momento della sorveglianza sull’esecuzione delle sentenze. Sebbene, la Convenzione non conferisca espressamente alla Corte alcuna competenza in riferimento alla valutazione dell’idoneità delle misure adottate a livello nazionale da parte degli Stati interessati per adeguarsi agli obblighi derivanti dall’art. 46 CEDU, nondimeno essa si è riconosciuta una limitata competenza. In particolare, « par le biais de la notion de “problème nouveau” la Cour peut se déclarer compétente pour connaître d’une affaire portant en partie sur l’exécution de son arrêt antérieur ”. È la stessa Corte europea a individuare i criteri da essa applicati nel momento dell’esame della propria competenza in materia In particolare, l’esistenza di un « problème nouveau » è stata riconosciuta dalla Corte europea nel caso di una violazione di un diritto convenzionalmente garantito che si prolunghi dopo l’adozione di una sentenza con cui si sia accertato che « ce droit a été violé pendant une certaine période ». In questa particolare ipotesi, la Corte europea ha chiarito che non è inabituale che essa esamini un secondo ricorso con cui si lamenti la violazione dello stesso diritto nel periodo successivo, cosicché, in tali casi, « le “problème nouveau” était né de la persistance de la violation constatée dans la décision initiale de la Cour », ma il controllo da parte di quest’ultima si limita « aux périodes nouvelles en question et à tout nouveau grief qui en serait tiré . La partecipazione della Corte europea al dialogo che si instaura, ai sensi dell’art. 46 CEDU, tra Stato responsabile e Comitato dei ministri è fatto dipendere, nell’ipotesi qui esaminata, dalla circostanza che le autorità nazionali non abbiano posto fine alla violazione continua accertata con una prima pronuncia. Con riferimento alle violazioni individuali, essa si verifica, per esempio, nel caso di persistente inesecuzione di una decisione interna definitiva, di continuazione dello stato di detenzione contraria agli articoli 3 e/o 5 CEDU, di mancato avvio delle indagini per l’accertamento della responsabilità per trattamenti contrari all’art. 3 CEDU. Applicando i principi ora esaminati ai casi di violazioni strutturali o sistematiche si dovrebbe concludere in favore della competenza ratione materiae della Corte europea anche nelle ipotesi di mancata riforma dell’ordinamento interno a seguito di una prima pronuncia che ne abbia accertato il deficit all’origine dei c.d. casi ripetitivi. Si è infatti visto come tanto l’accertamento dell’esistenza di una legislazione (violazione continua in senso proprio) quanto di una prassi (situazione continua) non conformi alla Convenzione europea comporti il dovere di adempiere all’obbligo di cessazione stabilito all’art. 30 del progetto di articoli attraverso l’adozione di misure generali a livello nazionale. In caso contrario, si verificherebbe il persistere di una situazione contraria agli standards convenzionali e quindi l’esistenza di un « problème nouveau » ai sensi della giurisprudenza della Corte europea. Da quanto detto consegue che quest’ultima è competente ratione materiae ad esaminare i ricorsi con cui venga lamentata la continuazione della violazione strutturale o sistematica.La questione che però rimane aperta è quella della titolarità del potere di introdurre un simile ricorso. Se nel caso di violazioni continue individuali è la stessa vittima che può introdurre un nuovo ricorso ai sensi dell’art. 34 CEDU, la questione è diversa nel caso di violazioni strutturali o sistematiche. La risposta la dà la stessa Corte europea, individuando nelle altre parti contraenti i soggetti legittimati a far valere, attraverso i ricorsi interstatali, la persistenza di problemi generali. Nel recente caso Cipro c. Turchia, essa chiarisce che « une Partie contractante requérante peut par exemple se plaindre de problèmes généraux (problèmes et déficiences systémiques, pratique administrative, etc.) concernant une autre Partie contractante ». In tali casi, l’obiettivo principale del Governo ricorrente è quello di « défendre l’ordre public européen dans le cadre de la responsabilité collective qui incombe aux États en vertu de la Convention »9. Il raffronto tra la nozione di « composite act » ai sensi dell’art. 15 del progetto di articoli e quella di « prassi amministrativa » elaborata dalla Corte europea ha permesso di evidenziare l’esistenza di ampi margini di sovrapposizione, cosicché la giurisprudenza europea può essere considerata un utile elemento nell’interpretazione della nozione di violazione continua derivante da un fatto complesso. In particolare, sembra potersi escludere l’esistenza — allo stadio attuale di sviluppo del diritto internazionale — di una terza categoria di violazioni continue che si affianchi alle due tradizionalmente individuate dalla dottrina e dalla giurisprudenza internazionale maggioritarie: danno luogo a violazioni continue la singola condotta illecita che si protrae nel tempo e la violazione consistente in un fatto complesso. Entrambe queste figure sono oggi codificate, rispettivamente, dall’art. 14 e dall’art. 15 del progetto di articoli.Le violazioni sistematiche della Convenzione europea, che rappresentano l’esempio più chiaro di « situations where a State has violated an obligation on a series of occasions, implying the possibility of further repetitions » secondo la definizione contenuta nel commentario all’art. 30 del progetto di articoli, sono dunque un esempio di « composite act » ai sensi dell’art. 15 del progetto del 2001, contribuendo quindi a delinearne il contenuto.Infatti, l’esistenza di una situazione di sistematica violazione dei diritti convenzionalmente garantiti determina l’accertamento da parte della Corte europea di una violazione continua, la cui autonomia rispetto alle singole violazioni individuali è apprezzabile in termini di conseguenze tanto procedurali (ammissibilità dei ricorsi) quanto sostanziali (riparazione). Questa categoria giuridica è quindi caratterizzata da una forma di responsabilità ulteriore per lo Stato responsabile dalla cui condotta illecita derivano delle conseguenze più gravose rispetto a quelle che deve sopportare in relazione a violazioni singole. L’autonomia di tali conseguenze è apprezzabile più facilmente nell’ambito di ricorsi interstatali di cui formano l’unico oggetto, essendo la situazione delle singole vittime, in questi casi, valutata solo come elemento di prova della prassi. La circostanza che tale responsabilità sorga per la violazione di disposizioni della stessa natura di quelle riguardanti gli illeciti individuali di cui la prassi è composta non è però un ostacolo insormontabile rispetto alla possibilità di ricondurre la prassi nell’ambito di applicazione dell’art. 15 del progetto di articoli. Una simile conclusione trova fondamento proprio nell’interpretazione che della suddetta disposizione ha dato la Corte europea. Quest’ultima sembra infatti ritenere irrilevante ai fini dell’accertamento di una violazione continua ai sensi dell’art. 15 del progetto di articoli la circostanza che essa sia di natura diversa rispetto agli illeciti di cui si compone Inoltre, non dovrebbe costituire ostacolo alla ricostruzione della c.d. prassi amministrativa come « composite act » neanche la circostanza che le disposizioni convenzionali non sembrano disciplinare obblighi aventi quel carattere « sistematico » ritenuto essenziale da Crawford. Detto in altre parole, secondo la ricostruzione che ne ha fatto la Corte europea, l’ambito di applicazione dell’art. 15 del progetto di articoli non pare limitarsi ai casi di violazione di obblighi c.d. sistematici, cioè di obblighi primari che richiedano il ricorrere di diversi atti o omissioni, siano questi leciti o illeciti, affinché possa sorgere la responsabilità internazionale dello Stato a partire dal primo dei suddetti atti o omissioni. Una simile conclusione sembrerebbe potersi trarre proprio dalla esaminata giurisprudenza della Corte europea secondo cui si avrebbero « composite acts » anche nel caso di violazioni di obblighi « semplici », come gli obblighi posti dall’art. 3 CEDU. In sintesi, l’analisi della giurisprudenza della Corte europea in tema di violazioni sistematiche della Convenzione europea — che assumono nel sistema convenzionale il nome di prassi amministrative — permette di fornire elementi utili alla ricostruzione della nozione di violazione continua consistente in un fatto illecito complesso — oggi codificata all’art. 15 del progetto di articoli. Contrariamente a quanto sostenuto da parte della dottrina, non pare necessario che la serie di fatti illeciti globalmente considerati dia vita ad una violazione di natura diversa da quelle di cui si compone, né è richiesto che l’obbligo primario violato contempli condotte di carattere sistematico. Ciò che rileva è l’esistenza di un legame tra le singole violazioni — l’« intent » o l’« official tolerance » — che permette di distinguere la prassi amministrativa (o « composite act »), con le sue specifiche conseguenze, dalla semplice ripetizione di singoli fatti illeciti. -
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