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Ci si è molto interrogati in giurisprudenza circa il regime del giudicato amministrativo che risulti essere in contrasto con una normativa dell’Ue. Ciò in quanto occorre inevitabilmente trovare un punto di bilanciamento tra il principio di intangibilità del giudicato, principio di derivazione europea che soddisfa un’esigenza di stabilità e certezza dei rapporti giuridici e il principio di primazia.
La giurisprudenza si è assestata nel senso della prevalenza del principio di intangibilità del giudicato sul principio di primazia, in quanto il diritto dell’Ue non impone al giudice nazionale di disapplicare norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale.Solo qualora le norme procedurali interne prevedano la possibilità per il giudice nazionale di ritornare su una decisione passata in giudicato, allora tale facoltà può essere esercitata.
In via eccezionale il principio di intangibilità del giudicato diventa recessivo, pur in assenza di una norma interna che ne preveda la revisione, quando vengono in considerazione fattispecie in cui si discute di ripartizione di competenze tra stati membri e ue in materia di aiuti di stato intendendosi con tale termine tutti trasferimenti di risorse pubbliche, destinati a soggetti che svolgono attività economica in un determinato settore. L’Unione Europea è dotata in materia di un potere cogente che può giungere fino alla condanna dello stato inadempiente alla restituzione di quanto indebitamente elargito; stabilisce, perciò, le regole per gli aiuti e il tetto massimo delle concessioni, fissando norme comunitarie che gli Stati membri sono tenuti a rispettare. In particolare, la CGUE nella sentenza Lucchini ha statuito che il diritto dell’Ue osta all’applicazione di una disposizione nazionale, come l’art 2909 cc, che mira a consacrare il principio di intangibilità del giudicato, nei limiti in cui la sua applicazione impedirebbe il recupero di un aiuto di stato concesso in violazione del diritto dell’unione. Per pervenire a questo risultato devono concorrere diversi elementi: a) la materia deve rientrare tra le competenze dell’UE; b) deve essere stata assunta una decisione definitiva dalla Commissione europea; c) il giudicato interno deve porsi in contrasto con quella decisione. Va comunque precisato che il giudicato in contrasto con il diritto Ue non può spiegare effetti esterni ed essere quindi ritenuto vincolante in altri giudizi tra le stesse parti in cui venga dedotto lo stesso rapporto oggetto del giudicato.
L’altro caso, più recente, in cui si è ritenuto di rendere recessivo il giudicato è quello che ha riguardato i procedimenti amministrativi composti, caratterizzati dal fatto che nell’ambito dello stesso procedimento intervengono sia atti amministrativi nazionali sia atti amministrativi comunitari. la Corte ha ritenuto a tal proposito che se l’atto finale dell’istituzione comunitaria è a contenuto vincolato la giurisdizione rimane in capo al giudice nazionale, non essendoci autonomia decisionale dell’istituzione comunitaria; se, invece, l’istituzione comunitaria ha un margine di discrezionalità, la decisione finale spetta all’istituzione comunitaria, e allora la giurisdizione su tutto il procedimento spetta al giudice comunitario, di fronte al quale si rende necessario far valere anche gli eventuali vizi dell’atto amministrativo nazionale.
Per quanto attiene la giurisprudenza di legittimità le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affrontato il delicato tema del superamento del giudicato del decreto ingiuntivo non opposto, in ossequio al principio di effettività della tutela del consumatore, alla luce della direttiva 93/13 e dell’art. 19 del TUE.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte, chiamate a pronunciarsi sulla sorte dell’opposizione all’esecuzione proposta dal consumatore che, non avendo opposto il decreto ingiuntivo nei termini, ha eccepito, per la prima volta dinanzi al Giudice dell’Esecuzione, l’abusività delle clausole del contratto in base al quale era stato emesso il decreto ingiuntivo, hanno affermato che il Giudice del monitorio è tenuto a compiere d’ufficio il controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore e che qualora tale verifica non sia stata effettuata, l’eventuale abusività delle clausole contrattuali potrà essere accertata in fase esecutiva.
La CGUE si era pronunciata sul tema poco prima con sentenza n. 693/19, chiarendo che gli artt. 6 e 7 della direttiva 93/13/CEE del 5 aprile 1993, relativi alle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, “…devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa -per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità -successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole”.
Per la CGUE, costringere il consumatore a proporre l’opposizione per far valere i propri diritti si pone in contrasto con lo stesso principio del rilievo d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali che anche nell’ambito del procedimento monitorio è funzionale all’effettività della tutela del consumatore sotto il profilo della non vincolatività delle clausole medesime, ai sensi dell’art. 6, par. 1, del consumatore.
La Corte di cassazione ha enunciato i seguenti principi diritto:
Il giudice del monitorio: deve svolgere, d’ufficio, il controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore in relazione all’oggetto della controversia; a tal fine procede in base agli elementi di fatto e di diritto in suo possesso, integrabili, ai sensi dell’art. 640 c.p.c., con il potere istruttorio d’ufficio, da esercitarsi in armonia con la struttura e funzione del procedimento d’ingiunzione: b.1.) potrà, quindi, chiedere al ricorrente di produrre il contratto e di fornire gli eventuali chiarimenti necessari anche in ordine alla qualifica di consumatore del debitore; b.2) ove l’accertamento si presenti complesso, non potendo egli far ricorso ad un’istruttoria eccedente la funzione e la finalità del procedimento, dovrà rigettare l’istanza d’ingiunzione; c) all’esito del controllo: c.1) se rileva l’abusività della clausola, ne trarrà le conseguenze in ordine al rigetto o all’accoglimento parziale del ricorso; c.2) se, invece, il controllo sull’abusività delle clausole incidenti sul credito azionato in via monitoria desse esito negativo, pronuncerà decreto motivato, ai sensi dell’art. 641 c.p.c., anche in relazione alla anzidetta effettuata delibazione; c.3) il decreto ingiuntivo conterrà l’avvertimento indicato dall’art. 641 c.p.c., nonché l’espresso avvertimento che in mancanza di opposizione il debitore-consumatore non potrà più far valere l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto e il decreto non opposto diventerà irrevocabile.
Il giudice dell’esecuzione: a) in assenza di motivazione del decreto ingiuntivo in riferimento al profilo dell’abusività delle clausole, ha il dovere di controllare la presenza di eventuali clausole abusive che abbiano effetti sull’esistenza e/o sull’entità del credito oggetto del decreto ingiuntivo; b) ove tale controllo non sia possibile in base agli elementi di diritto e fatto già in atti, dovrà provvedere, nelle forme proprie del processo esecutivo, ad una sommaria istruttoria funzionale a tal fine; c) dell’esito di tale controllo sull’eventuale carattere abusivo delle clausole – sia positivo, che negativo – informerà le parti e avviserà il debitore esecutato che entro 40 giorni può proporre opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 650 c.p.c. per fare accertare l’eventuale abusività delle clausole, con effetti sull’emesso decreto ingiuntivo; d) fino alle determinazioni del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 649 c.p.c., non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito; e) se il debitore ha proposto opposizione all’esecuzione ex art. 615, primo comma, c.p.c., al fine di far valere l’abusività delle clausole del contratto fonte del credito ingiunto, il giudice adito la riqualificherà in termini di opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e rimetterà la decisione al giudice di questa (translatio iudicii); f) se il debitore ha proposto un’opposizione esecutiva per far valere l’abusività di una clausola, il giudice darà termine di 40 giorni per proporre l’opposizione tardiva – se del caso rilevando l’abusività di altra clausola – e non procederà alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito sino alle determinazioni del giudice dell’opposizione tardiva sull’istanza ex art. 649 c.p.c. del debitore consumatore.
Ancora, per quanto attiene al giudicato in contrasto con la CEDU , la corte EDU, nel caso di violazione delle norme sul giusto processo (art 6 Cedu) ha affermato che la riapertura del processo o il riesame del caso rappresentano il mezzo più appropriato per reintegrare la parte lesa.
Tuttavia, la CEDU ha rappresentato che non vi è un approccio uniforme sulla possibilità di riaprire i processi in seguito a una sentenza CEDU che abbia accertato violazioni convenzionali. Difatti, la sentenza pur incoraggiando gli stati contraenti all’adozione delle misure necessarie per garantire la riapertura del processo, afferma che è comunque rimesso agli stati la scelta di come meglio conformarsi alla pronuncia CEDU senza stravolgere i principi della cosa giudicata o di certezza del diritto.
Partendo da questa premessa, la corte costituzionale ha ritenuto che, nelle materie diverse da quella penale, pur in presenza di un giudicato in contrasto con la cedu non sussiste l’obbligo di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, essendo la decisione di riaprire il giudizio rimessa agli stati contraenti che non sono obbligati a provvedere in tal senso.
Va per ultimo segnalato che, con riferimento alla CEDU, il dlgs 149/2022 ha introdotto il nuovo art 391 quater cpc che ha previsto una nuova ipotesi di revocazione in sede civile delle decisioni passate in giudicato. L’articolo prevede che “Le decisioni passate in giudicato il cui contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali ovvero ad uno dei suoi Protocolli, possono essere impugnate per revocazione se concorrono le seguenti condizioni:
1) la violazione accertata dalla Corte europea ha pregiudicato un diritto di stato della persona;
2) l’equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione non è idonea a compensare le conseguenze della violazione”. (il richiamo alla norma intordotta dalla Legge Cartabia è al contrario pertinente)
In giurisprudenza ci si è interrogati se tale articolo potesse applicarsi anche nell’ambito del processo amministrativo nonostante l’art 106 cpa non faccia espresso riferimento al nuovo art 391 quater.
Sussistono due orientamenti in proposito: se una parte della giurisprudenza afferma che tale ipotesi di revocazione non si applica analogicamente al processo amministrativo in base alla lettera della norma e in base alla circostanza che difficilmente il giudice amministrativo si troverà a valutare situazioni in cui possa esserci il pregiudizio di un diritto di stato della persona; altra parte della giurisprudenza ritiene che la relativa disciplina sia applicabile al fine di assicurare una piena tutela dei diritti fondamentali. Se così non fosse nelle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa si verrebbe a creare un deficit di tutela violativo degli artt 3, 24 e 113 cost.