Nelle sentenze del  16 febbraio 2021 la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) riconosce la violazione degli artt. 8 e 14 CEDU da parte della Bulgaria per la mancata adozione di strumenti di tutela adeguati rispetto alle affermazioni denigratorie di un privato nei confronti di gruppi etnico-religiosi, ebrei e rom.

I giudici di Strasburgo hanno riconosciuto la capacità lesiva nei confronti dell’individuo del discorso d’odio rivolto al gruppo di appartenenza ed hanno affermato la necessità di porre dei limiti al discorso pubblico a tutela della dignità della persona. L’osservanza di tali limiti deve essere garantita in primo luogo dalle autorità nazionali attraverso un effettivo bilanciamento tra libertà di espressione e tutela della vita privata.

Entrambi i ricorsi lamentano, ai sensi degli artt. 8 e 14 CEDU che tutelano rispettivamente la vita privata e familiare e il godimento libero da discriminazioni dei diritti convenzionali, la mancata adozione da parte delle autorità giudiziarie bulgare adite delle misure civilistiche inibitorie e ripristinatorie previste dalla legislazione antidiscriminatoria. Nel caso Behar la tutela giurisdizionale era stata domandata da due cittadini bulgari ebrei rispetto alle affermazioni rese da un giornalista e politico di estrema destra, Siderov, nei propri libri e discorsi politici. Le esternazioni lamentate additavano gli ebrei a responsabili di un vero e proprio genocidio nei confronti della popolazione bulgara ortodossa e li “etichettavano”, secondo gli stereotipi più negativi a loro riferiti, come un’élite di ladri e approfittatori. Oltretutto, certi passaggi delle pubblicazioni, definendo “bugie” le affermazioni sulle camere a gas e “leggenda” l’olocausto, si connotavano per il contenuto negazionista.

Nel caso Budinova i ricorrenti sono due cittadini bulgari di etnia rom che si sono visti ugualmente negare tutela giurisdizionale nei confronti delle affermazioni rese dal medesimo Siderov in libri, programmi televisivi e comizi politici. In tali occasioni i rom erano stati accusati indistintamente di aver commesso violenze inaudite nei confronti della popolazione bulgara e di aver generato una situazione di terrore – “the gipsy terror” è il nome della stessa trasmissione televisiva in cui sono state espresse molte delle dichiarazioni – necessitante una reazione dura e intransigente da parte della società.

La Corte EDU, dopo aver  esaminato la ricevibilità dei ricorsi in esame, ha  rigettato le eccezioni proposte dal governo bulgaro ritenendo che una definizione tecnica della nozione di “vita privata” può essere fatta discendere da dichiarazioni denigratorie rese nei confronti non di un individuo in quanto tale ma del gruppo sociale di appartenenza.  Commette pertanto violazione della vita privata chi attribuisca degli stereotipi particolarmente negativi ad una formazione collettiva: influendo non solo sul senso di identità del gruppo ma anche sui sentimenti di autostima e di fiducia in sé dei suoi appartenenti.

Sulla scorta delle sentenze rese dalla Grande Camera nei casi Aksu e Denisov (Corte EDU G.C. 15 marzo 2012, Aksu c. Turchia, spec. § 58 e Id., 25 settembre 2018, Denisov c. Ucraina, spec. §§112-114, su www.hudoc.echr.coe.int), i giudici di Strasburgo sottolineano la necessità di  valutare con sufficiente precisione l’effettiva gravità delle dichiarazioni e delle rispettive conseguenze per poter ritenere potenzialmente interessata la vita privata dei ricorrenti e quindi applicabile l’art. 8 CEDU. È necessario che le affermazioni discriminatorie raggiungano un certo livello (“must reach a certain level”) e che i relativi effetti superino una determinata soglia di gravità (“must attain a certain level of seriousness and be made in a manner causing prejudice to personal enjoyment of the right to respect

Considerate la condizione di vulnerabilità della minoranza ebrea e di quella rom, il tenore sprezzante delle affermazioni nei loro confronti, la notorietà dell’autore e la conseguente diffusione del suo pensiero, la Corte ritiene integrata nelle vicende in esame la soglia di gravità richiesta per applicare l’art. 8 CEDU.

In ragione della connotazione etnica e religiosa dei gruppi presi di mira, la Corte EDU dichiara la ricevibilità dei ricorsi anche in relazione all’art. 14 CEDU, invocato, come richiesto dalla giurisprudenza costante (tra le varie Corte EDU G. C., 22 marzo 2012, Konstantin Markin c. Russia, su www.hudoc.echr.coe.int), unitamente ad un’altra disposizione della Convenzione; appunto l’art. 8 CEDU.

Dalle sentenze in esame si può agevolmente ricavare un  principio generale applicabile ad altri casi: le corti nazionali chiamate a valutare il carattere lesivo di certe manifestazioni del pensiero non devono accordare a priori prevalenza alla libertà di espressione, pur se essa appaia inserirsi in un dibattito di pubblico interesse, anche politico; bensì devono soppesarne la rilevanza in un giudizio di comparazione con gli interessi contrapposti, tenendo conto delle specifiche circostanze del caso concreto. 

Il  principio individuato dalla Corte trova corrispondenza nel nostro ordinamento secondo limiti ben definiti. Innanzitutto la questione riguardante l’idoneità delle dichiarazioni discriminatorie nei confronti delle minoranze a ledere la dignità della persona che ne fa parte, individualmente considerata, è fortemente dibattuta in ambito penalistico . Ci si chiede in particolare se sia compatibile con il principio di offensività incriminare l’espressione di un’opinione lesiva di valori morali solo indirettamente riferibili all’individuo, come il senso di dignità relativo all’appartenenza ad una collettività (in senso negativo, già A. Spena, Libertà di espressione e reati di opinione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, 689 ss., spec. 713 s.).

In secondo luogo, il nostro ordinamento prevede già degli strumenti, sia civili sia penali, astrattamente idonei a tutelare la vita privata delle persone dalle affermazioni discriminatorie rivolte ai gruppi di appartenenza. Da una parte, il d.lgs. 215/2003, che attua la direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, prevede dei rimedi contro i comportamenti discriminatori, anche collettivi. Dall’altra, l’art. 604-bis c.p. – che ricomprende, in attuazione della c.d. riserva di codice, le fattispecie di reato introdotte nell’ordinamento italiano dalla legge n. 654 del 1975 (ratifica della Convenzione di New York del 7 marzo 1966), poi modificata dalla c. d. legge Mancino (l. 25 giugno 1993, n. 205) – sanziona penalmente la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa e prevede delle pene più gravi per il caso in cui tali condotte siano fondate sulla negazione della Shoah, dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra.

Perché sia rispettato lo standard di tutela convenzionale è  pertanto  fondamentale che i giudici chiamati a fornire tutela contro affermazioni discriminatorie, tanto in sede civile, quanto in sede penale, compiano un attento bilanciamento tra libertà di espressione e vita privata alla luce delle circostanze concrete e dello specifico contesto in cui le dichiarazioni sono rese.