La Suprema Corte di Cassazione, sez. II civile, con pronuncia del 18 settembre 2020, n. 19565 ( Pres. D’Ascola, rel. Giannaccari) affronta la questione relativa alla vessatorietà ex art 33 del Dlgs 206/2005, c.d. Codice del consumo, della clausola relativa ad un contratto di mediazione che preveda l’obbligo di pagamento della provvigione in favore del mediatore, anche per il caso di recesso del consumatore.
Con la pronuncia in oggetto, il Giudice di legittimità, nel sancire la vessatorietà di una siffatta clausola, e dunque ritenendola affetta da nullità relativa, ha cassato con rinvio la sentenza d’appello del Tribunale di Roma enunciando i seguenti principi di diritto:
– ” La clausola che attribuisca al mediatore il diritto alla provvigione anche in caso di recesso da parte del venditore può presumersi vessatoria quando il compenso non trova giustificazione nella prestazione svolta dal mediatore. E’ compito del giudice di merito valutare se una qualche attività sia stata svolta dal mediatore attraverso le attività propedeutiche e necessarie per la ricerca di soggetti interessati all’acquisto del bene”.
– “Si presume vessatoria la clausola che consente al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest’ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest’ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere”.
I fatti di causa concernono la condanna di due coniugi da parte del Giudice di Pace di Roma al pagamento in favore di una società immobiliare, a titolo di penale per il recesso anticipato dal contratto di mediazione avente ad oggetto l’alienazione di un immobile di proprietà dei primi: tanto, in forza di apposita previsione del contratto di mediazione stipulato tra le parti, che prevedeva il diritto di ciascuna parte di di recedere anticipatamente dall’accordo, previa corresponsione in favore dell’altra di un corrispettivo in misura pari all’1% del prezzo di vendita dell’immobile.
Appena sette giorni dopo la conclusione del contratto, i coniugi recedevano dal contratto, ritenendo che la stima del prezzo di vendita effettuato dalla controparte fosse sensibilmente inferiore rispetto a quello effettuato da altra agenzie immobiliari.
Avverso il decreto ingiuntivo del Giudice di Pace di Roma proponevano dunque opposizione, deducendo tanto la vessatorietà ex art 33 del Codice del consumo della clausola in questione, quanto l’errore essenziale in cui sarebbero incorsi a causa della controparte nella determinazione del prezzo di vendita del cespite: precisamente, gli opponenti si dolevano del significativo squilibrio derivante dalla applicazione della previsione contrattuale in questione che, nel commisurare il corrispettivo dovuto in caso di recesso, non contemplava che si dovesse avere riguardo all’attività concretamente espletata dal mediatore, venendo ad essere così costretti a pagare detto importo anche per il caso in cui questi non avesse svolto alcuna attività e, dunque, non avesse conseguito un effettivo risultato, sia pur minimo.
Parimenti, l’iniquità si rendeva ancor più palese dal fatto che la somma di denaro in questione fosse pari ad i 2/3 dell’ammontare della provvigione dovuta per il caso in cui l’immobile fosse stato venduto.
Il Giudice di Pace di Roma accoglieva dunque l’opposizione così proposta, revocando il decreto ingiuntivo e dichiarando nullo il contratto stipulato tra le parti e rilevando, in ogni caso, la legittimità del recesso esercitato dagli opponenti, per aver la controparte sottostimato il valore dell’immobile, inducendoli quindi alla stipula di un negozio per effetto di una falsa rappresentazione della realtà.
Contro la sentenza del Giudice di Pace di Roma la convenuta società immobiliare proponeva dunque appello innanzi al Tribunale di Roma, il quale accoglieva l’appello, per l’effetto confermando il decreto ingiuntivo opposto e revocato dal giudice di prime cure.
Più nello specifico, il giudice di appello non riconosceva la natura vessatoria ad una clausola siffatta del contratto di mediazione, secondo l’art 33 del Dlgs 206/2005, osservando peraltro come la censurata previsione contrattuale ponesse le parti su di un piano di parità, nella misura in cui riconosceva ad ognuna di esse la facoltà di recesso previa corresponsione del medesimo importo; ancora, la quantificazione del corrispettivo non rappresentava indice concreto del carattere vessatorio della clausola in parola, essendo lo stesso comunque inferiore di 1/3 all’importo dovuto a titolo di compenso provvigionale.
Avverso detta sentenza del Tribunale di Roma, i coniugi presentavano quindi ricorso per cassazione.
Investita della questione, la Suprema Corte, Sez. II, ha cassato con rinvio la sentenza d’appello, a seguito di una motivazione articolata ed esaustiva.
Dopo aver premesso un completo inquadramento dell’oggetto della tutela apprestata al consumatore dalla normativa eurounitaria e da quella nazionale – essenzialmente rivolta ad appianare le disuguaglianze sostanziali fra soggetti titolari di poteri contrattuali differenti, tanto con riguardo al potere negoziale che con riferimento al livello di informazione – peraltro ricordando la più recente e significativa giurisprudenza della CGUE sul punto, la S.C. prosegue nel proprio articolato motivazionale con una compiuta disamina della vessatorietà delle clausole relative ai contratti al consumo, fornendo una preziosa interpretazione della disciplina consumeristica ( artt 33 e ss. dlgs 206/2005) e sancendone il rango di norme poste a presidio dell’ordine pubblico, così come peraltro ribadito a più riprese dalla Corte del Lussemburgo.
Parimenti, ricorda la Corte come, a norma degli artt 33 comma 2 e 34, comma 4, del Codice del consumo, vi sono alcune tipologie di clausole tassativamente indicate che si presumono vessatorie salvo che il professionista fornisca la prova contraria: sul punto, la S.C. ricorda anche i propri precedenti che ritengono tale onere probatorio soddisfatto quando venga provato che la clausola non sia stata unilateralmente imposta dal professionista medesimo, viceversa essendo oggetto di una specifica trattativa tra le parti che abbia i caratteri della individualità, serietà ed effettività ( cfr S.C. 24262/2008 e S.C. 6802/2016); ancora, la Corte rammenta come, ai sensi del comma 2 del citato art 34 Cod. cons., non possono considerarsi vessatorie le clausole che attengono alla determinazione dell’oggetto del contratto ovvero quelle afferenti alla adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, a condizione che detti elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile.
Ciò posto, richiamando espressamente la pronuncia n. 23357 del 3.11.2010 della III sez, la S.C. ribadisce come possa presumersi la vessatorietà di una clausola che attribuisca al mediatore il diritto alla provvigione anche in caso di mancata effettuazione dell’affare per fatto imputabile al venditore, ivi incluso il recesso di quest’ultimo, laddove le parti non abbiano espressamente pattuito un meccanismo di adeguamento di tale importo all’attività sino a quel momento concretamente svolta dal mediatore. Infatti, predisporre una clausola siffatta in modo da renderla del tutto svincolata dall’attività mediatoria in concreto effettuata finirebbe per risolversi in una rendita di posizione a favore del mediatore che incide negativamente sull’equilibrio contrattuale del rapporto di consumo, ponendosi in aperto contrasto con la tutela apprestata tanto dal legislatore europeo con la direttiva 93/13, quanto dal legislatore nazionale con l’art 33 Cod. cons.
La ratio di tale principio di gradualità si rinviene, ad avviso della Corte, nell’esigenza di garantire che nei contratti a prestazioni corrispettive venga rispettato il sinallagma contrattuale: tanto, nella misura in cui la prestazione di una parte deve trovare fondamento nella controprestazione, al fine di evitare l’ingenerarsi di situazioni di arricchimento senza giusta causa. Ciò, soprattutto se si considera che nel contratto di mediazione il diritto alla provvigione non sorge all’esito della conclusione dell’affare ma non appena si sia determinata la messa in contatto delle parti del contratto.
Per tali motivi, la Corte ravvede nella decisione impugnata il patente contrasto con le statuizioni di principio proprie della giurisprudenza della CGUE, la quale ha a più riprese affermato che il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva 93/13 non può essere adeguatamente garantito se il giudice non procede ad un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole contrattuali (cfr., ex multis, sentenza Profit Credit Polska del 13.9.2018).
Infine, viene peraltro in rilievo l’errore del giudice d’appello in ordine alla mancata valutazione della vessatorietà della clausola in questione con riguardo all’art 33 lett e) del Codice del Consumo, a mente del quale si presume vessatoria la clausola che consenta al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore laddove quest’ultimo non addivenga alla stipula del contratto ovvero vi receda, senza che sia previsto il diritto di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta per il caso in cui sia quest’ultimo a non concludere il contratto ovvero a recedervi.
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