Con sentenza del 24 gennaio 2019 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato lo Stato Italiano per condotte lesive degli artt. 3 e 6 e della Convenzione nell’ambito del procedimento elevato a carico di A.K. per il reato di calunnia in danno del suo ex datore di lavoro P.L., in relazione al quale ella ha riportato sentenza di condanna definitiva nel procedimento in Italia. A riguardo, la cittadina statunitense ha sempre sostenuto di aver mosso le false accuse in questione sotto coercizione, spinta dalle pressioni degli inquirenti, circostanze, quest’ultime, dedotte anche nel corso dei processi subiti in Italia e ritenute irrilevanti per la sussistenza del reato di calunnia da parte della Corte di legittimità pur in presenza della pendenza del giudizio innanzi alla Corte Europea (cfr. a tal fine sentenza della Corte di Cassazione del 27.3.2015 che, a tal proposito ha osservato testualmente: ed invero un’eventuale pronuncia della Corte Europea favorevole alla stessa … , nel senso auspicato del riconoscimento di un poco ortodosso trattamento degli investigatori nei suoi confronti, non potrebbe in alcun modo scalfire il giudicato interno, neppure in vista di possibile revisione della sentenza, considerato che le calunniose accuse che la stessa imputata rivolse a L., per effetto delle asserite coercizioni, sono state confermate anche innanzi al Pm, in sede di interrogatorio e dunque in un contesto, istituzionalmente immune da anomale pressioni psicologiche, e sono state confermate anche nel memoriale a sua firma, in un momento in cui la stessa accusatrice era sola con sé stessa la sua coscienza, in condizioni di oggettiva tranquillità, al riparo da conìdizionamenti ambientali,e furono persino ribadite, dopo qualche tempo, in sede di convalida dell’arresto del L. innanzi al Gip procedente).
Si ricorda che la cittadina statunitense, con la stessa sentenza, è stata definitivamente assolta dall’accusa dell’omicidio della concittadina M. K. – in quanto, si legge testualmente nelle motivazioni del provvedimento, il processo a suo carico ha avuto “un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o ‘amnesie’ investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine“. Ad avviso della Suprema Corte, se non ci fossero state tali mancanze investigative, e se le indagini non avessero risentito di tali “colpevoli omissioni“, si sarebbe “con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell’estraneità” di A.K. e R. S. rispetto all’accusa di avere ucciso la studentessa inglese M. K. a Perugia il 1 novembre 2007. I giudici hanno infatti escluso “la loro partecipazione materiale all’omicidio, pur nell’ipotesi della loro presenza nella casa di via della Pergola” e sottolineato la “assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili” nella stanza dell’omicidio o sul corpo della vittima.
Hanno tuttavia evidenziato che nel “percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio” del processo per l’omicidio di M. K. c’era un “solo dato di irrefutabile certezza: la colpevolezza di A. K. in ordine alle calunniose accuse nei confronti di P.L.“.
I Giudici di Strasburgo hanno tuttavia riscontrato, proprio in relazione a tale accusa, la violazione dell’art. 3 (“Proibizione della tortura”) e dell’art.6 (“Diritto a un equo processo”) della Convenzione. La ricorrente aveva infatti lamentato di avere subito trattamenti degradanti nel corso dell’interrogatorio da parte delle forze dell’ordine, in particolare aveva dedotto di essere stata ripetutamente schiaffeggiata e sottoposta a violentissima pressione psicologica oltre che privata del sonno, circostanza, quest’ultima, riscontrata dagli stessi giudici che non avevano mancato di evidenziare l’abnorme durata degli interrogatori, oltre al fatto che le prime dichiarazioni erano state successivamente ritrattate.
La CEDU nella sentenza in commento ha innanzitutto evidenziato il contesto storico temporale in cui la ricorrente è stata condotta negli uffici di PS di Perugia successivamente all’omicidio e ha, in particolare, esaminato le circostanze di fatto in cui è avvenuto il suo interrogatorio. Ha in proposito osservato che nessuno dei soggetti intervenuti nel corso della sua audizione ha negato che la ricorrente si trovasse in un forte stato confusionale, tanto da darne atto nei rispettivi processi verbali redatti, nella notte, in tempi diversi, l’ultimo – alle 5.15 del mattino in presenza del Pubblico Ministero – allorchè furono redatte delle dichiarazioni “spontanee” ed era ormai certa l’assunzione della qualifica di indagata in ordine all’omicidio appena verificatosi. Ne ha quindi concluso per la ricorrenza dell’ulteriore violazione di cui all’art. 6 della Convenzione sia sotto il profilo del mancato avvertimento alla nomina di un difensore che con riguardo all’operato dell’interprete che, lungi dal limitarsi alla traduzione delle parole di A. K. aveva svolto l’indebito ruolo di “mediatrice” fra l’indagata e gli inquirenti.
La Corte di Strasburgo ha, quindi riconosciuto a favore della ricorrente un risarcimento di euro 10.400 a titolo di danno morale, oltre a imposte e spese liquidate in euro 8.000,00.
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