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Il 21 settembre 1990 quattro ragazzi poco più che ventenni, armati di tutto punto, misero a segno una delle azioni più violente e gratuite della nostra recente storia giudiziaria, l’uccisione di Rosario Livatino, giudice ragazzino, colpito a morte da una decina di colpi d’arma da fuoco mentre si recava, inerme, al Tribunale di Agrigento per svolgere il proprio quotidiano lavoro. I Killers, divisi su di un’auto e una moto, gli spararono i primi colpi mentre viaggiava sulla sua autovettura e dopo averne fermato la marcia. Rosario rimase miracolosamente illeso e tentò la fuga attraverso i campi adiacenti ma fu raggiunto e freddato da due dei quattro assalitori che gli inflissero il colpo di grazia mentre era a terra. Sembra acclarato che il giovane magistrato abbia pronunciato nei loro confronti questa domanda “ragazzi che vi ho fatto?” Il gruppo assalitore era costituito da quattro “stiddari” Gaetano Puzzangaro, Domenico Pace, Avarello Giovanni e Paolo Amico che avevano progettato l’omicidio insieme a Benvenuto Giuseppe Croce, soggetto mafioso di Palma di Montechiaro richiesto del “favore” nel luglio del 1990 dalla Stidda di Canicatti’. Costui, pentendosi tra i primi e divenendo collaboratore di giustizia, riferì di aver organizzato ed eseguito l’omicidio per fare un piacere agli stiddari di Canicatti rappresentati dalla presenza nel gruppo di fuoco da Avarello Giovanni. Secondo Benvenuto, l’omicidio sarebbe stato deciso per vendetta, a causa, cioè, dell’estremo rigore dimostrato dal giudice in un processo per rapina celebrato ad Agrigento nel quale l’apporto di Rosario era stato particolarmente incisivo a fronte di un’inspiegabile benevolenza dimostrata nei confronti di esponenti di Cosa Nostra. In realtà questa motivazione aveva lasciato molto perplesso il Benvenuto che, però, in ragione dei buoni rapporti con la Stidda di Canicattì non si era potuto tirare indietro e aveva, per questo motivo, reclutato per l’esecuzione materiale dell’omicidio Pace, Amico e Puzzangaro i quali erano scesi in Sicilia dalla Germania onde compiere il fatto criminoso. Dopo il fatto, Benvenuto aveva saputo che alcuni esponenti di Cosa Nostra avevano ritenuto che l’omicidio del giudice era stato programmato e attuato per dimostrare la forza della Stidda rispetto agli altri gruppi e per far ricadere la colpa su Cosa Nostra mettendo in cattiva luce uno dei suoi principali esponenti di Canicatti, tale Di Caro Giuseppe, vicino di casa del giudice. In quel periodo la connotazione del gruppo criminale denominato “Stidda” era infatti quella di contrapporsi militarmente a Cosa Nostra. Per affermare la propria identità i gruppi stiddari si erano organizzati su base interprovinciale e, dunque, in maniera orizzontale sul territorio siciliano, onde gestire con successo la guerra contro Cosa Nostra scambiandosi volta per volta armi e uomini e perpetrando fatti di sangue di interesse vicendevole. E’ verosimile pertanto supporre che il vero movente delle azioni criminose fosse noto ad un gruppo ristretto di persone e che poteva capitare, come accaduto per il Benvenuto, che un fatto criminoso comandato da un gruppo venisse organizzato ed eseguito da un altro, senza sapere con precisione le ragioni per le quali la decisione era maturata in capo ai concorrenti. Se ne deve concludere che, mentre può essere considerato certo che Rosario avesse scontentato con il proprio operato di giudice esponenti del gruppo stiddaro di Canicatti per essersi mostrato troppo rigoroso in un processo per rapina elevato a loro carico, non appare altrettanto dimostrato, in base alle risultanze probatorie dei processi Livatino, Livatino bis e Livatino ter che Rosario abbia posto in essere trattamenti meno rigorosi nei confronti di esponenti della mafia storica della sua città. Anzi, la testimonianza dei pentiti storici di Cosa Nostra è stata nel senso di escludere del tutto questa eventualità. Si veda in particolare quanto testimoniato da Messina Leonardo a proposito del fatto che il giudice fosse “morto gratis” cioè per niente, in sostanza per non aver fatto niente, se non il proprio dovere. Ed allora non è affatto azzardato dire che la Stidda, nell’attuazione dell’intento di affermare la propria forza nei confronti del gruppo mafioso avversario, ha finito con l’individuare come vittima sacrificale un giovane magistrato che ha massacrato due volte, una prima volta sopprimendolo fisicamente e una seconda volta diffamandolo all’interno dell’organizzazione criminale, onde giustificare le ragioni di una cosi feroce persecuzione agli occhi dei materiali esecutori . Del resto, la statura morale e professionale del giudice Livatino non è stata mai messa in discussione ed è, con ogni probabilità, la ragione per la quale egli, giovanissimo, con appena un decennio di professione sulle spalle, non sia stato dimenticato. Tutti i processi celebrati in Sicilia su questa drammatica vicenda hanno, infatti concordemente evidenziato “le eccelse capacità professionali” di Rosario e ed il suo “estremo rigore morale ed intellettuale”, il coraggio “di un giudice semplice che teneva in grandissimo conto il valore dell’altrui vita umana viaggiando senza scorta e affermando essere preferibile l’uccisione di un solo uomo a quella di due o tre carabinieri “(cfr. pag. 232 sentenza Corte di Assise Appello Livatino bis). La verità di questi fatti ha trovato pieno riscontro nella memoria che di questo giudice-ragazzino conservano i siciliani, compresi gli autori materiali dell’omicidio Pace e Puzzangaro che, oggi, ultracinquantenni, scontano l’ergastolo riconoscendo l’inutilità e la ferocia di quel gesto e l’assurdità di una scelta criminale pilotata e neanche sufficientemente riflettuta. L’accertamento di questi fatti è stato possibile (bisogna, a questo punto, ricordarlo) grazie al coraggio e al senso civico di un umile cittadino Pietro Ivano Nava, del quale nessuno più si ricorda, una persona qualunque che incrociò il suo destino con quello del giudice in quel fatidico 21.9.1990. Nava che sopraggiunse sulla statale quale minuto dopo l’evento, assistette all’omicidio e riusci a memorizzare le sembianze di Pace e di Amico che riconobbe nel processo senza paura. Sottoposto a protezione per la sua importante e decisiva testimonianza, ai margini del primo processo Livatino, intervistato nel 1992 da Giuseppe D’Avanzo che gli chiese se si sentiva un eroe. Rispose “Non mi sento un eroe. Non mi sento una mosca bianca. Non sono né l’uno né l’altro. Sono un cittadino che crede nello Stato né più né meno come ci credeva Livatino. E lo Stato non è un’entità astratta. Lo Stato siamo noi che facciamo lo Stato giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le nostre scelte, con la nostra dignità” E’ quanto credo direbbe, oggi, Rosario se fosse ancora vivo.