La nuova procedura di liquidazione giudiziale
Di Maria Rosaria Sodano
Con decreto legislativo 12 gennaio 2019 pubblicato in G. U in data 14 febbraio 2019, denominato enfaticamente “codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” è stata dettata una nuova disciplina del fallimento. In suo luogo è stato infatti istituita la procedura di liquidazione giudiziale, la cui apertura può essere richiesta da creditori una volta acclarata l’insolvenza del loro debitore, situazione di fatto definita all’art. 2 lett. d) del codice come “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”
Il cambiamento di nomen iuris non deve considerarsi casuale. La nuova procedura presenta infatti delle importanti novità, volte a preservare, sempre ed in ogni luogo, l’attività di impresa sia nella forma individuale che collettiva. Innanzitutto, la procedura di liquidazione giudiziaria, pur continuando a presentare caratteristiche rigorose volte a tutelare gli interessi del ceto creditorio e la loro par condicio, ha perso, qualsiasi connotazione punitiva nei confronti del debitore inadempiente, onerato, nella fase antecedente all’apertura del procedimento, di doveri importanti, volti a preservare la propria attività di impresa dall’insolvenza quando, cioè, è riscontrabile un mero stato di crisi, inteso, secondo la puntuale definizione dell’art. 2 lett. a) del codice in uno “ stato di difficoltà economico – finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore e che, per le imprese si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte a regolarmente alle obbligazioni pianificate”.
A tal fine sono stati definiti gli strumenti di allerta (art. 12), intesi come obblighi di segnalazione posti a carico degli organi di controllo societario, dei revisori contabili delle società di revisione, dell’agenzia delle entrate, dell’Istituto nazionale della previdenza sociale e dell’agente di riscossione, finalizzati alla rilevazione dello stato di crisi dell’impresa e alla sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione. Tali organi devono tempestivamente segnalare sia al debitore che all’OCRI (organismo di composizione della crisi d’impresa), istituito presso ciascuna camera di commercio di settore, le esposizioni debitorie idonee a configurare uno stato di crisi, in modo da attivare l’audizione del debitore (art. 18) ed individuare le possibili misure per porvi rimedio.
Il debitore è, in questa fase, obbligato (i) ad illustrare la propria situazione in modo veritiero e trasparente e (ii) ad assumere tempestivamente le iniziative idonee alla rapida definizione della crisi (art. 4) . Può, quindi, con specifica istanza, attivare con i suoi creditori opportune trattative onde pervenire alla definizione della procedura di composizione della crisi (art. 19), A tal fine deve predisporre una relazione aggiornata sulla situazione economico e finanziaria dell’impresa (art. 4 – 19) e può chiedere alla Sezione Specializzata in materia di imprese del tribunale competente le misure protettive (art. 20) necessarie per la composizione. Tale procedimento (art. 54 e 55 del codice) di natura eminentemente cautelare, è attivabile anche nella fase antecedente all’apertura della liquidazione giudiziale, nella procedura di concordato preventivo o di omologazione degli accordi di ristrutturazione e si sostanzia nella possibilità di ottenere una pronuncia interinale volta a vietare – per un certo periodo di tempo – ai creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive e/o cautelari sul patrimonio del debitore.
Se allo scadere del termine fissato dall’OCRI, non sono stati attivati accordi con i creditori volti a comporre lo stato di crisi, il debitore viene invitato (art. 21) a presentare domanda di accesso alle procedure previste dall’art. 37 del codice, ossia la procedura di regolazione della crisi o dell’insolvenza ovvero la procedura di liquidazione giudiziaria che può essere richiesta, a differenza della prima, oltre che dal debitore, anche dagli organi e Autorità amministrative che hanno funzioni di vigilanza e di controllo sull’impresa, da uno più creditori e dal Pubblico Ministero (art. 37)
Il procedimento per l’accesso ad entrambe le procedure è unitario. L’art. 7 del codice dispone infatti che tutte le domande inerenti tali procedure devono essere riunite e trattate in via d’urgenza dinanzi al Tribunale collegiale, fermo restando che le domande di regolazione della crisi e dell’insolvenza realizzate con strumenti diversi da quelli della liquidazione giudiziale e da quella controllata hanno priorità rispetto alle altre. In particolare, in assenza di domanda di apertura di liquidazione giudiziale, il Tribunale, pronuncia decreto fissando un termine compreso tra 30 e 60 giorni nell’ambito del quale il debitore deposita istanza di concordato preventivo o di accesso al giudizio di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti.
La liquidazione giudiziale viene dichiarata aperta con sentenza, una volta negativamente definite le procedure di regolazione concordata della crisi e quelle di omologazione del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti. L’apertura di liquidazione giudiziale è però sottoposta ad una duplice condizione: a) che sia stata avanzata la domanda di apertura della liquidazione giudiziale da parte dei soggetti legittimati di cui all’art. 37 e b) che sussistano le condizioni previste dall’art. 121 del codice. Infatti, non possono essere sottoposte a liquidazione giudiziale le cosidette imprese minori, quelle imprese cioè che, pur essendo in stato di insolvenza, non raggiungono le soglie dimensionali previste dall’art. 2 lett. d) del codice (un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a trecentomila euro nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della domanda di apertura della liquidazione giudiziale, ricavi per un ammontare complessivo non superiore ad euro duecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della domanda di apertura della liquidazione giudiziale, un ammontare di debiti scaduti non superiore a cinquecentomila euro).
La sentenza di apertura della liquidazione giudiziale è immediatamente impugnabile dinanzi alla Corte d’appello, così come peraltro stabilito anche per la precedente dichiarazione di fallimento. Peraltro, in ossequio alla giurisprudenza formatasi in via maggioritaria in merito, il legislatore ha statuito quanto segue:
- L’imprenditore che ha all’estero il centro degli interessi principali, può essere assoggettato ad una procedura della regolazione della crisi e dell’insolvenza anche nel territorio italiano quando ha una dipendenza in Italia e nonostante sia stata aperta analoga procedura all’estero (art. 26)
- Il trasferimento all’estero, se avvenuto entro l’anno del deposito della domanda di regolazione della crisi, non esclude la sussistenza della giurisdizione italiana (art. 26)
- La vis attractiva della procedura di liquidazione, competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore, deve essere dichiarata dal giudice incompetente a mezzo di ordine riassunzione del giudizio nel termine di 30 giorni e cancellazione della causa dal ruolo (art. 32)
- La liquidazione giudiziale può essere pronunciata entro un anno dalla cessazione dell’attività imprenditoriale se l’insolvenza si sia manifestata anteriormente alla cessazione ed entro l’anno successivo. L’attività si considera cessata a partire dalla cancellazione dal registro delle imprese (art. 33) ed è comunque fatto obbligo all’imprenditore di mantenere attivo il proprio indirizzo pec,
- E’ fatto obbligo al Pm promuovere l’apertura della liquidazione giudiziale in tutti i casi in cui abbia avuto notizia dell’insolvenza di un’impresa (art. 38)
- E’ onere del debitore dimostrare (i) il mancato superamento delle soglie dimensionali previste per la definizione di impresa minore e (ii) l’insussistenza dello stato di insolvenza.
Gli Organi della procedura di liquidazione giudiziale rimangono quelli della procedura fallimentare: il Tribunale collegiale, il Giudice Delegato, il Comitato dei Creditori, il Curatore e il Debitore.
Il Tribunale collegiale dispone l’apertura e la chiusura della procedura, sovrintende all’operato del Giudice delegato decidendo i reclami contro i provvedimenti, approva il compenso del Curatore e procede alla sua nomina.
Il Giudice delegato decide i reclami proposti avverso le decisioni del Curatore e del Comitato dei Creditori, presiede all’ordinato svolgimento della procedura, emette provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio, approva lo stato passivo dichiarandone l’esecutività, autorizza i singoli atti di liquidazione dell’attivo dopo aver autorizzato la trasmissione del programma di liquidazione al Comitato dei creditori per l’approvazione (art. 213) , dichiara esecutivo il progetto di riparto dell’attivo. Contro i provvedimenti del Giudice Delegato è possibile elevare reclamo innanzi al Tribunale collegiale e contro i provvedimenti di quest’ultimo innanzi alla Corte d’appello.
Il Curatore, nominato con la sentenza dichiarativa di liquidazione giudiziale del Tribunale rimane la figura centrale e propositiva della procedura. Egli intrattiene rapporti con il giudice Delegato e con il Comitato dei Creditori dai quali deve essere autorizzato per operare le principali operazioni di sua competenza ( riduzione dei crediti, stipula di transazioni, compromessi, rinunzie alle liti, ricognizione di diritti di terzi, cancellazione delle ipoteche ecc.) Può essere revocato dal Tribunale collegiale, su proposta del Giudice Delegato (art. 134) ove abbia volato i suoi doveri. La liquidazione del suo compenso è disposta dal Tribunale dopo l’approvazione del rendiconto. Particolarmente stringenti sono i termini entro i quali il Curatore deve procedere all’invio delle relazioni di legge al Giudice delegato. Infatti entra 30 giorni dall’apertura della procedura di liquidazione deve depositare un’informativa sulle cause dell’insolvenza e sull’eventuale responsabilità del debitore (art. 130). Entro 60 giorni dal decreto di esecutività dello stato passivo e comunque entro 180 giorni dall’apertura della procedura deve procedere al deposito del programma di liquidazione che, una volta autorizzato dal Giudice Delegato deve essere approvato dal Comitato dei Creditori.
Il Debitore rimane privato, al pari di ciò che accadeva per il fallito, della disponibilità dei suoi beni (art. 142 – 143). Può trattenere i beni che gli pervengano durante la procedura solo se l’operazione della loro acquisizione non sia conveniente per la procedura. Può intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta e nei casi previsti dalla legge. Il nuovo codice ha, tuttavia, specificato quali sono i beni del debitore che non vengono acquisiti alla procedura. Si tratta (i) dei beni strettamente personali del debitore, (ii) degli stipendi e delle pensioni nei limiti delle necessità di mantenimento della famiglia (iii) della casa adibita ad abitazione fino alla liquidazione dell’attivo.
L’art. 211 del nuovo codice introduce un importante principio volto alla conservazione dell’attività di impresa anche in presenza della liquidazione giudiziale, quello in virtù del quale l’apertura della procedura di liquidazione non determinano la cessazione dell’attività di impresa se dall’interruzione può derivare un grave danno. E’ però necessario che la prosecuzione non arrechi pregiudizio alle ragioni dei creditori. Per questi motivi l’attività di impresa deve proseguire solo a seguito dell’autorizzazione del Comitato dei Creditori previa emissione di decreto autorizzativo da parte del Giudice Delegato. Vi è l’obbligo da parte del Curatore di un aggiornamento costante al Comitato dei Creditori sull’andamento dell’attività di impresa della quale viene disposta la cessazione tutte le volte in cui il Comitato dei creditori ne ravvisi la necessità,
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