Il perimetro applicativo della norma penale trova due ordini di limiti: uno temporale, l’altro spaziale, quest’ultimo oggetto della presente trattazione. La norma penale è caratterizzata da un elemento indefettibile, ovvero l’imperatività, che attribuisce al precetto il crisma dell’obbligatorietà. Infatti, l’art. 3 c.p. stabilisce che la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato e punisce con l’irrogazione della pena, ex art. 6 c.p., chiunque commetta un reato nel territorio dello Stato. Le disposizioni richiamate suggellano la pacifica affermazione del principio di territorialità nel nostro ordinamento, la cui ratio è da ricercarsi nel fatto che è legittimo applicare la norma penale nell’area in cui lo Stato che l’ha emessa esercita la propria sovranità. Per quanto riguarda il concetto di territorio dello Stato, l’art. 4, comma 2 c.p., prevede che ai fini della legge penale è territorio dello Stato il territorio della Repubblica ed ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. Pertanto, il territorio di uno Stato va al di là della sua estensione fino ai confini stabiliti dai trattati internazionali, ma comprende anche il mare che lo circonda, fino a dodici miglia dalla costa, il sottosuolo e il soprasuolo, fin dove può arrivare la tecnologia umana, ed infine, con delle eccezioni, anche le navi e gli aeromobili, ex art. 4, comma 2, c.p.. Definita la nozione di territorio, occorre ricordare che la valorizzazione del principio di territorialità, al fine di stabilire il presupposto ovvero l’elemento sulla base del quale va identificata la norma penale da applicare, rappresenta un approdo dottrinale abbastanza recente. Infatti, prima che si consolidasse la teoria della territorialità, parte della dottrina si ispirava ai principi di universalità, personalità e difesa. In base al principio di universalità, la norma penale si applicava a tutti i soggetti che si trovavano nel territorio dello Stato; per il principio di personalità, invece, si applicava sempre la norma penale dello Stato di appartenenza dell’autore del reato; infine, per il principio della difesa, trovava applicazione la norma dello Stato di appartenenza del soggetto passivo del reato. L’indiscusso accoglimento del principio di territorialità, elevato a principale criterio idoneo a circoscrivere i confini applicativi della norma penale nello spazio, trova ciononostante limiti, deroghe e temperamenti in ragione dell’applicazione di altri principi, c.d. subvalenti, che radicano in elementi differenti dal territorio il presupposto in base al quale va identificata la norma penale da applicare. Infatti, quando nella fattispecie illecita sono presenti elementi di internazionalità, quali ad esempio il luogo del delitto, la nazionalità del colpevole o della vittima, l’interesse leso, il valore universale dei beni offesi, si pone la necessità di superare la rigidità del principio di territorialità con l’applicazione di altri principi che danno la stura ad un’applicazione extraterritoriale della legge penale, o meglio all’estensione dell’efficacia applicativa della norma al di là dei confini della territorialità. A parte le deroghe legali, espressamente previste agli artt. 7-10 c.p., sulle quali in questa sede non giova soffermarsi, occorre, seppur brevemente, esaminare i principi sub valenti che sono chiamati ad integrare il principio di territorialità, ovvero il principio di universalità e i criteri della personalità attiva o passiva del reo. Il principio di universalità sancisce l’applicazione della norma penale italiana nel caso di fatti criminosi che offendono valori universali, come ad esempio la tratta di schiavi, il genocidio, delitti gravissimi che ledono la libertà e la dignità dell’uomo, rispetto ai quali l’interesse alla repressione è una prerogativa imprescindibile per tutti gli Stati, così importante da superare le specifiche determinazioni legislative dei singoli Stati. Il criterio della personalità attiva o passiva del reo, seleziona la legge applicabile sulla scorta della nazionalità di provenienza del soggetto attivo o autorizza lo Stato a reprimere reati commessi all’estero da stranieri contro lo Stato stesso o contro i suoi cittadini; quindi, si offrirebbe protezione penale contro delitti, ad esempio quelli contro lo Stato, che diversamente rischierebbero di rimanere impuniti. Passando ora all’analisi della questione relativa ai criteri di localizzazione del reato e alla determinazione del locus commissi delicti, il legislatore, all’art. 6 c.p., prevede che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione. La presente disposizione è di agevole interpretazione nel caso in cui l’iter criminis si appalesi unitario nel suo svolgimento territoriale, ovvero quando il fatto criminoso è posto in essere in un unico luogo. Di contro, nel caso di sviluppo non unitario, dove le singole porzioni materiali della fattispecie criminosa, la condotta e l’evento, si realizzino in luoghi differenti, come ad esempio nei c.d. reati di transito, si pongono seri dubbi interpretativi ai fini dell’individuazione del frammento della fattispecie criminosa da valorizzare ai fini della localizzazione del reato. Le teorie che si sono confrontate risultano tre: la teoria della condotta, dell’evento e dell’ubiquità. La teoria della condotta, individua il locus commissi delicti nel luogo in cui si è verificata la condotta criminosa; la teoria dell’evento, invece, accorda prevalenza al luogo di realizzazione dell’evento di reato; infine, la teoria dell’ubiquità, oggi prevalente, valorizza qualsiasi porzione materiale della fattispecie criminosa. In particolare, la teoria dell’ubiquità, considera il reato commesso sul territorio dello Stato sia nel caso in cui in esso si realizzi la sola condotta, sia nel caso in cui si realizzi soltanto l’evento di danno o di pericolo. In pratica, l’obiettivo è quello di far rientrare nel raggio applicativo della legge penale dello Stato la quasi totalità dei fatti criminosi anche nel caso in cui il reato ha avuto inizio all’estero e si consuma in Italia e, viceversa, quando l’azione criminosa si realizza in Italia ma il reato si consuma all’estero. L’unico limite si ravvisa nell’esclusione delle ipotesi in cui nel territorio italiano si sia verificato un mero presupposto della condotta, una circostanza aggravante o una condizione di punibilità, elementi che si collocano tutti fuori dal fatto tipico. Si discute circa il contenuto e l’esatta identificazione della porzione criminosa sufficiente a localizzare il fatto di reato. Per i fautori della tesi estensiva sarebbe sufficiente qualsiasi atto materiale di esternazione dell’ iter criminis; per altri, invece, sarebbe necessario un atto esecutivo e per altri ancora la condotta rilevante ai fini dell’individuazione del locus commissi delicti dovrebbe avere le caratteristiche del tentativo, ex art. 56 c.p.. Le maggiori difficoltà in tema di determinazione del locus commissi delicti si pongono proprio per i delitti informatici che vengono commessi nel c.d. mondo virtuale, il web, uno spazio in cui i confini geografici non esistono ed è sempre molto difficile individuare il luogo fisico dal quale un’informazione viene veicolata e soprattutto monitorare i flussi informativi scambiati attraverso la rete. In particolare, l’analisi del delitto di diffamazione commesso per via telematica, pone una serie di questioni che riguardano la punibilità del reato, l’applicabilità dell’art. 6 c.p. e della teoria dell’ubiquità ai fini dell’individuazione del locus commissi delicti. L’art. 595 c.p. prevede il delitto di diffamazione e punisce chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. L’interesse tutelato dalla norma è la reputazione, corollario dell’onore, che si riassume nel senso di dignità e rispetto che una persona suscita all’interno della comunità sociale di appartenenza. L’elemento oggettivo consiste in una condotta che si sostanzia nell’offendere la reputazione altrui davanti ad una molteplicità di persone ed in assenza del soggetto nei confronti del quale viene pronunciata l’espressione diffamatoria. Per quanto riguarda la punibilità della diffamazione per via telematica, quest’ultima, per giurisprudenza pacifica, costituisce un’ipotesi di diffamazione aggravata punibile ex art. 595, comma 3, che prevede la circostanza aggravante dell’aver commesso il reato col mezzo della stampa o con qualunque altro mezzo di pubblicità. L’equiparazione tra diffamazione col mezzo della stampa e diffamazione tramite altro mezzo di pubblicità va ricercata sotto il profilo dell’offesa al bene giuridico protetto. Infatti, ad esempio, la pubblicazione di una frase offensiva sul web o, in particolare, su un social network, benché non veicolata attraverso la stampa, si traduce in ogni caso in una condotta potenzialmente capace di raggiungere una moltitudine indeterminata di persone, in ragione dell’idoneità del mezzo ad amplificare la capacità diffusiva del messaggio diffamatorio. Inoltre, come per la commissione del reato attraverso la stampa, anche nella diffamazione attraverso il mezzo telematico, trovano espressione i diritti di critica e di cronaca tutelati dall’art.21 Cost. Infatti, il giudice, al fine di valutare il corretto esercizio del diritto di cronaca e di critica nella diffusione di notizie attraverso internet, deve accertare il rispetto dei criteri elaborati dalla giurisprudenza, vale a dire se l’argomento sia di rilevanza sociale, se l’informazione risponda ad una verità obiettiva e se siano state usate espressioni corrette. Passando ora all’analisi del secondo problema conoscitivo, riguardante la determinazione del locus commissi delicti, è necessario sin da subito avvertire che la soluzione al problema passa e si risolve attraverso l’analisi della natura giuridica del reato in questione. Per un primo orientamento, la diffamazione per via telematica sarebbe un reato di mera condotta, di talchè la pubblicazione e il mantenimento on line di messaggi offensivi su un determinato sito web sarebbe già di per sé sufficiente ad integrare la fattispecie incriminatrice. Si esclude cioè che ai fini della consumazione del reato sia necessaria l’effettiva percezione e conoscenza, da parte del destinatario, del messaggio offensivo. Per altro orientamento, invece, avallato dalla giurisprudenza di legittimità, la diffamazione attraverso internet sarebbe un reato di evento, in particolare, di evento psicologico consistente nella percezione da parte del destinatario del messaggio offensivo, sicchè il momento consumativo slitterebbe dalla diffusione alla percezione, quest’ultima, infatti, realizzerebbe l’offesa al bene protetto dalla norma. Pertanto, il locus commissi delicti del reato di diffamazione per via telematica è da individuare nel luogo in cui le espressioni offensive e diffamatorie, lesive della reputazione della vittima, sono state percepite, ovvero nel luogo in cui la persona offesa ha attivato il collegamento, si è connesso al sito e ha avuto effettiva percezione e conoscenza del fatto di reato. Così la giurisprudenza prevalente ribadisce l’attrazione del reato nell’ambito applicativo della legge penale italiana, alla luce della teoria dell’ubiquità, anche in ipotesi in cui l’immissione dei contenuti diffamatori sia avvenuta all’estero, a patto che l’offesa sia percepita all’interno del territorio nazionale.
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