Il consenso dell’avente diritto costituisce una scriminante codificata dall’art. 50 c.p.
Le scriminanti sono rappresentate da condotte e fatti rientranti nell’ambito della fattispecie tipica, i quali, in presenza di determinati presupposti previsti dalla legge, perdono il carattere dell’antigiuridicità e quindi non possono ritenersi punibili.
Parte della dottrina ritiene che le scriminanti rappresentino elementi negativi della fattispecie astratta, la cui assenza / esistenza deve essere in ogni caso accertata per affermare la configurazione o meno del reato La disciplina delle scriminanti si fonda su un giudizio di bilanciamento tra gli interessi tutelati dalla fattispecie penale e gli interessi che vengono in rilievo nella situazione scriminata, dando prevalenza a quest’ultimi ove abbiano valore superiore o quantomeno parificato rispetto a quello tutelato dalla norma penale .
A titolo esemplificativo, nella legittima difesa il bene tutelato dall’aggredito viene ritenuto prevalente rispetto all’interesse sacrificato dell’aggressore soggetto all’azione di reazione, purché quest’ultima risulti essere proporzionata all’offesa subita La ratio della codificazione delle scriminanti risiede nel principio di non contraddizione dell’ordinamento, secondo il quale una condotta non può essere imposta o autorizzata e contemporaneamente punita. L’assunto si desume in particolare nell’ambito delle scriminanti dell’esercizio del diritto o dell’adempimento del dovere.
Su questi presupposti si fonda la scriminante del consenso dell’avente diritto, che giustifica l’azione lesiva o pericolosa di beni altrui nei casi in cui la vittima abbia manifestato validamente il suo consenso. In questo caso la pretesa punitiva della Stato viene meno a fronte della volontà del soggetto, che può disporre del diritto, di rinunciare alla sua tutela.Secondo la dottrina l’art. 50 c.p. configurerebbe una mera norma dichiarativa di un principio già insito nello stesso ordinamento, secondo il quale la facoltà di disporre dei propri diritti rientra nella nozione stessa di diritto, innanzi alla quale la potestà punitiva dello Stato irrimediabilmente cede.
Ai fini dell’operatività della scriminante in esame è necessario che il consenso sia validamente prestato e quindi sia libero e spontaneo, ossia prestato in modo autonomo e in assenza di qualsivoglia coercizione; inoltre esso deve essere attuale, informato, revocabile e passibile di limitazioni, anche temporali, da parte del suo titolare. Deve, infine, promanare da chi può validamente disporne, per cui esso dovrà essere manifestato dal suo titolare in possesso della capacità di agire. Pertanto non potrà disporre del diritto il minore o colui che sia incapace di intendere e volere secondo le norme del c.c. Requisito importante della scriminante prevista dall’art. 50 c.p. è che il diritto che viene leso o messo in pericolo dalla condotta altrui sia disponibile. In merito non sorgono questioni circa la disposizione di diritti a carattere patrimoniale, quali diritti di credito o diritti reali come la proprietà, mentre discussa è la possibilità di disporre di beni personalissimi e inerenti la persona. In quest’ultimo caso non esiste una preclusione generale prevista dal legislatore, dovendosi distinguere i diversi beni della vita che possono venire in rilievo.
Con riferimento alla salute , l’art. 32 cost. prevede la possibilità per ognuno di decidere i trattamenti sanitari cui sottoporsi, salvo che si tratti di trattamenti obbligatori per legge.
L’integrità fisica può essere oggetto di disposizione se non comporti delle menomazioni fisiche permanenti e irreversibili e purchè non siano pratiche contrarie alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume (art. 5 c.c.). Al riguardo non può ritenersi violata l’integrità fisica nei casi di menomazioni su parti del corpo che si rigenerano spontaneamente come unghie e capelli o quelli, che seppur determinino una diminuzione permanente, siano finalizzati a scopi terapeutici propri (si pensi all’amputazione di una gamba in cancrena) o a vantaggio di altri soggetti (trapianto di rene da donatore in vita) . Si ritiene inoltre che beni di rilevanza costituzionale, quali l’onore, la dignità personale, l’identità personale e la libertà sessuale, possono essere oggetto di disposizione purché non ne comporti una loro totale abolizione, trattandosi di beni insiti nella persona e come tali irrinunciabili. Deve, invece, considerarsi bene non disponibile la vita, per cui ogni sua lesione o messa in pericolo determina una condotta penalmente rilevante, a prescindere da una volontà del soggetto titolare.
Secondo la dottrina e la giurisprudenza si tratta di un bene assoluto e irrinunciabile, come si desume dalle stesse norme del codice penale, il quale sanziona ogni comportamento diretto a ledere o far venire meno la vita altrui. Emblematico al riguardo è l’ipotesi di reato di omicidio del consenziente, il quale punisce la condotta di chi cagiona la morte di un soggetto con il suo consenso (art. 580 c.p.). Altra ipotesi normativa che punisce le condotte pregiudizievoli o lesive del bene vita è il reato di istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) La norma è diretta infatti a tutelare il bene della vita anche da quelle condotte che, seppur non cagionino in modo diretto la morte della persona, siano tali da condizionare il proposito suicida altrui.
L’art. 580 c.p. prende in considerazione tre specifiche ipotesi di condotte rilevanti: la determinazione del suicida verso il gesto estremo o il rafforzamento di un proposito suicida già esistente nonché l’agevolazione del soggetto nell’esecuzione del suicidio. Le prime due condotte prese in considerazione (di determinazione e rafforzamento) possono consistere in un contributo materiale o anche solo morale al suicidio altrui. Si pensi al caso di colui che mediante pressioni psicologiche o minacce induca un soggetto a togliersi la vita.L’aiuto al suicidio invece consiste in una condotta materiale, che si esplica in atti che agevolino il soggetto nel suo proposito, interpretazione desumibile dallo stesso tenore letterale della norma che fa riferimento all’ “esecuzione” del suicidio. A tal riguardo può prendersi in considerazione qualsiasi tipo di condotta (cfr. art. 580 c.p.), in quanto idonea e adeguata a portare a termine l’intento altrui di suicidarsi. Vengono quindi in rilievo atti preparatori all’atto suicida o anche atti contestuali al gesto, purché non si risolvano nella diretta esecuzione della morte stessa (altrimenti si verserebbe nella diversa ipotesi di cui all’art. 579 c.p.).
Si pensi a colui che procuri la corda al suicida o che accompagni un soggetto a praticare l’eutanasia in uno Stato in cui è ammessa, tema quest’ultimo molto discusso nell’ambito della giustizia italiana odierna e del quale si accennerà nel prosieguo. In merito all’elemento soggettivo, è necessaria la sussistenza del dolo, intesa come consapevolezza e volontà di determinare, rafforzare o agevolare l’altrui proposito suicida. Ne deriva quindi che l’ignoranza dell’altrui proposito o la semplice minaccia o persuasione non possono rilevare, ove non vi sia anche la volontà di usare quella condotta per rafforzare, indurre o aiutare un soggetto al suicidio.
Ai fini della punibilità l’art. 580 c.p. prevede inoltre, come requisito essenziale, che il suicidio sia portato a termine. L’azione suicida si pone in questo caso come condizione obiettiva di punibilità, quale fattore esterno e indipendente dalla condotta del reo che ne condiziona la punibilità. Va dato atto tuttavia come il suicidio secondo parte della dottrina configurerebbe l’evento dannoso, riconducibile causalmente alla condotta dell’agente e allo stesso riferibile sotto il profilo soggettivo.
Se il suicidio non avviene, la punibilità è esclusa, salvo che il tentativo di suicidio abbia arrecato lesioni gravi o gravissime al suicida.(BENE)Il reato di cui all’art. 580 c.p. esclude quindi la possibilità di scriminare la condotta delittuosa prevista anche a fronte del consenso della vittima ai sensi dell’art. 50 c.p. La questione si è posta di recente con riferimento all’aiuto al suicidio, nell’ambito del quale la condotta del soggetto si inserisce in un contesto in cui vi è una volontà suicida già formata e consapevole.
L’aiuto al suicidio presuppone infatti il consenso del suicida. I problemi attuali si sono posti in particolare per quelle situazioni che vedono coinvolti soggetti in fin di vita e terminali, che si recano all’estero per praticare l’eutanasia con l’aiuto di familiari o persone di fiducia, condotta, quest’ultima, che può essere ricondotta pacificamente nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 580 c.p. La mancata previsione e disciplina dell’eutanasia nel nostro Paese esclude infatti la possibilità di porre in essere qualsiasi condotta agevolativa o d’aiuto alla morte, anche di tipo terapeutico, seppur vi sia il consenso dell’avente diritto. Alla luce dei valori costituzionali, dovrebbe procedersi a una revisione dell’attuale panorama normativo affinché si predisponga una specifica disciplina sull’eutanasia e sul fine vita, situazione nelle quale spesso la vita perde il suo valore assoluto a fronte di interessi altrettanto fondamentali quali la dignità e il diritto a una morte dignitosa.
La giurisprudenza sul punto si è mostrata aperta a queste nuove problematiche, riconoscendo, in alcuni casi limite, l’irrilevanza penale delle condotte agevolatrici alla morte di pazienti che si trovavano in stato vegetativo o in situazioni di irreversibile ripresa delle funzioni vitali. Emblematico è il caso Welby, che riguardava un uomo affetto da una malattia invalidante tale da costringerlo alla respirazione artificiale e immobilizzato. In questo caso la Corte aveva escluso il reato di omicidio del consenziente nei riguardi del medico che aveva staccato il respiratore artificiale, rilevando come il consenso del paziente di rifiutare le cure fosse diritto inviolabile ai sensi dell’art. 32 Cost. Pertanto la condotta del medico rientrava nella scriminante dell’adempimento del dovere ai sensi dell’art. 51 c.p..
Di rilievo è anche il recente caso del Dj Fabo, un giovane divenuto cieco e tetraplegico a seguito di sinistro stradale, che, con l’aiuto di un soggetto, si era recato in Svizzera per praticare l’eutanasia. Sul punto, il Tribunale di Milano è stato investito della questione sulla configurabilità del reato di aiuto al suicidio in capo a colui che aveva accompagnato il paziente in altro Stato, aiuto quantomeno essenziale visto che il ragazzo era impossibilitato a muoversi da solo. La Corte di Assise di Milano ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale al fine di vagliare la legittimità dell’art. 580 c.p., nella parte in cui condanna la condotta di chi agevoli il suicidio di persone capaci ma soggette a patologie irreversibili e sofferenze non superabili con le ordinarie cure, e la sua compatibilità rispetto a valori inderogabili quali la dignità umana, il diritto a una morte dignitosa e il diritto a non soffrire.
La Consulta, pur affermando la costituzionalità dell’art. 580 c.p., ha invitato il Parlamento a una revisione della fattispecie penale alla luce dei nuovi e preminenti valori della persona evidenziata nell’ordinanza di rimessione, princicpi che vengono in rilievo nella fase della malattia e nel momento terminale della vita. La norma è stata considerata sul punto carente e lesiva della libertà del paziente di autodeterminarsi, dal momento che non considera i casi limiti di soggetti affetti da patologie terminali o invalidanti, spesso foriere di sofferenza fisica e psichica, ma comunque coscienti nei quali l’aiuto materiale di soggetti terzi si rivela quantomeno necessario per portare a termine le proprie decisioni sull’epilogo della vita.
La Corte Costituzionale e ha effettuato, in questi termini, un significativo cambio di rotta rispetto alle pregresse pronunce in materia di reato di aiuto al suicidio, nelle quali era stata ammessa senza riserve la legittimità del reato di cui all’art. 580 c.p.
Si osserva tuttavia che il giudice delle leggi non ha escluso in via assoluta la legittimità della condotta di aiuto al suicidio in quanto, in assenza di specifica disciplina legislativa, si esporrebbe ad abusi non altrimenti punibili, considerata anche la particolare vulnerabilità che connota i pazienti nella fase terminale della vita. Sulla base di questi presupposti, pertanto, la Corte ha sospeso il giudizio, ritenendo quantomeno necessario un preventivo intervento del legislatore atto a regolamentare e circoscrivere le condotte penalmente rilevanti nell’ambito del suicidio assistito. Prima della pronuncia della Consulta, il Parlamento era già intervenuto con l’introduzione delle Dichiarazioni anticipate di trattamento (cd. DAT), che consentono ai cittadini di disporre, quando ancora capaci, dei trattamenti sanitari e diagnostici cui sottoporsi nel caso in cui si trovino in stato permanente di incoscienza e perdano la capacità di disporre dei propri diritti. In questo caso il consenso diviene fonte scriminante per la configurazione del reato in capo al sanitario, al quale al contrario è preclusa la possibilità di intervenire con trattamenti terapeutici per i quali l’interessato ha manifestato previamente il suo rifiuto. Seppur la normativa sulle DAT costituisce un risvolto importante nell’ambito della materia in esame, soprattutto innanzi all’accanimento terapeutico spesso ingiustificato, si auspica un intervento del legislatore che possa disciplinare, in via esustiva, l’intera materia dell’ l’eutanasia e il trattamento di fine vita, onde permetterne l’equiparazione con gli altri Stati Europei nella quale essa è correntemente praticata.
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