Il primato delle fonti comunitarie nel sindacato delle Alte Corti
di Andrea Marabini
Nell’ordinamento giuridico italiano si considerano fonti del diritto amministrativo la Costituzione, le leggi dello Stato e delle Regioni e gli atti equiparati, gli statuti degli enti pubblici territoriali (regioni, province, comuni), i regolamenti, taluni atti di regolazione delle autorità amministrative indipendenti, le norme interne e le circolari (queste ultime non sono atti normativi).
I rapporti tra le diverse fonti sono regolati in base al criterio di gerarchia o di competenza e le possibili antinomie tra fonti eguali in base al criterio cronologico o al criterio di specialità.
In particolare, al vertice del sistema si colloca la Costituzione (fonte superprimaria), che si pone in rapporto di sovra-ordinazione rispetto alla legge e agli atti ad essa equiparati (fonti primarie) e che designa un rapporto di sovra/subordinazione tra le altre fonti, anteponendo la legge e gli atti equiparati ai regolamenti (fonti secondarie) e questi ultimi agli altri atti normativi (fonti sub-secondarie). Sempre la Costituzione designa un rapporto di competenza per materia tra legge dello Stato e legge regionale (art. 117 co. 2).
La violazione del criterio gerarchico o del criterio di competenza determina la illegittimità della fonte subordinata o incompetente. Ma il meccanismo attraverso il quale il vizio può essere dichiarato è diverso a seconda che il conflitto si ponga tra Costituzione e fonti primarie ovvero tra fonti primarie e fonti secondarie (o tra queste ultime e le fonti sub-secondarie): nel primo caso (conflitto tra Costituzione e fonti primarie) il conflitto si risolve attraverso il sindacato accentrato esercitato in via esclusiva dalla Corte costituzionale che determinerà l’espunzione ex tunc della fonte illegittima secondo le regole previste dalla Costituzione (art. 134 Cost., art. 2 l. cost. 1/53); nel secondo caso (conflitto tra fonte primaria e fonte secondaria) attraverso il potere di annullamento esercitato in via diffusa dal giudice comune nei limiti previsti dalla legge ordinaria.
Le possibili antinomie tra fonti eguali si risolvono, invece, attraverso il criterio di specialità o il criterio cronologico, ossia dando prevalenza, rispettivamente, alla fonte speciale sulla fonte generale o a quella più recente su quella più remota.
Oltre a regolare i rapporti tra i più importanti atti normativi interni, la Costituzione pone i criteri per risolvere i conflitti configurabili con ordinamenti esterni e in particolare tra gli strumenti normativi del diritto internazionale, generale e particolare: attraverso le disposizioni di cui agli artt. 10, 11 e 117, la Carta fondamentale esprime il c.d. principio internazionalista, riconoscendo implicitamente la pluralità degli ordinamenti giuridici ed affermando princìpi fondamentali in ordine alla regolazione dei rapporti con essi e tra le rispettive fonti.
Per quanto in questa sede interessa, il processo di integrazione comunitaria trova fondamento e legittimazione nella cessione di sovranità cui fa riferimento l’art. 11 Cost..
Esso ha dato vita alla creazione di un ordinamento sovranazionale particolare, che trova la sua fonte genetica nel trattato di Roma del 1957 e il suo ultimo approdo nel trattato di Lisbona del 2007.
I trattati comunitari (c.d. fonti primarie o originarie) designano l’Unione Europea conferendo alle Istituzioni che la compongono alcuni poteri assimilabili a quelli di uno Stato sovrano, tra cui, in particolare, il potere di emanare atti vincolanti (c.d. fonti secondarie o derivate) e di garantire la corretta e uniforme interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione (si allude rispettivamente al Parlamento-Consiglio-Commissione e alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea).
I trattati comunitari designano, quindi, un vero e proprio ordinamento giuridico e ciò vale a connotare e distinguere l’Unione europea da altre esperienze di cooperazione tra Stati, pure culminate in trattati-convenzioni, istitutive di sistemi di giustizia sovranazionale (nell’ambito del Consiglio d’Europa, in particolare la C.E.D.U.).
È oggi pacifico che i rapporti tra ordinamento statale e ordinamento dell’Unione siano regolati mediante ripartizione di competenze per materia (c.d. principio di attribuzione) – secondo cui l’U.E. può agire esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono conferite dai Trattati e nell’ambito degli obiettivi da essi previsti – e che nell’ambito delle materie di competenza comunitaria, esclusiva o concorrente, eventuali conflitti tra diritto interno e diritto dell’Unione vada risolto assegnando prevalenza a quest’ultimo (c.d. primato del diritto comunitario).
Il principio del primato del diritto comunitario sul diritto nazionale non è espressamente sancito dai trattati ed è frutto dell’elaborazione pretoria della Corte di Giustizia dell’U.E., maturata nell’ambito di un significativo contrasto con la Corte costituzionale italiana in ordine alla concezione c.d. monista (secondo la CGUE) ovvero c.d. dualista (C. cost.) degli ordinamenti.
Giova premettere che sono fonti del diritto comunitario (anche amministrativo), assimilabili agli atti normativi interni, i trattati e gli atti ad essi equiparati (fonti primarie), i regolamenti e le direttive (fonti secondarie). Sono fonti del diritto comunitario, ma sono di regola rivolte a destinatari determinati le decisioni, mentre non hanno efficacia vincolante le raccomandazioni ed i pareri.
I trattati enunciano i princìpi fondamentali dell’ordinamento dell’Unione, sono parametro di legittimità delle fonti subordinate e sono assimilabili per cogenza alle disposizioni costituzionali interne.
I regolamenti hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e sono direttamente applicabile negli Stati membri.
Le direttive vincolano gli Stati membri in ordine a un obiettivo da raggiungere e di regola non hanno efficacia diretta negli ordinamenti nazionali, necessitando di un atto di recepimento interno. Le decisioni, sono obbligatorie in tutti i loro elementi e, se designano i destinatari, sono obbligatorie soltanto nei confronti di questi. Le raccomandazioni ed i pareri sono atti non vincolanti adottati da tutte le istituzioni comunitarie, anche se un ruolo preminente in materia è attribuito alla Commissione. Le due fonti non sono facilmente distinguibili tra loro. In linea generale, mentre le raccomandazioni sono normalmente dirette agli Stati membri e contengono l’invito a conformarsi ad un certo comportamento, i pareri costituiscono l’atto con cui le stesse istituzioni o altri organi comunitari fanno conoscere il loro punto di vista su di una determinata materia.
Per quanto si darà, rileva già in questa sede menzionare le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione Europea, in quanto atti vincolanti e rilevanti anche per il diritto amministrativo – interno e comunitario – ancorché non siano assimilabili agli atti normativi.
Come accennato, l’affermazione del principio del c.d. primato del diritto comunitario è il prodotto di un contrasto giurisprudenziale, che ha visto contrapposte la CGUE da un lato e la Corte costituzionale italiana dall’altro, in ordine alla concezione dei rapporti tra gli ordinamenti e con implicazioni significative sui rapporti tra fonti nazionali e fonti comunitarie (in particolare, regolamenti e direttive)
Nel dettaglio, con riguardo ai regolamenti la CGUE ha da sempre sostenuto la loro immediata cogenza con i corollari della loro diretta applicabilità, del divieto di adottare atti interni di recepimento e della prevalenza sul diritto nazionale, in una prospettiva di integrazione tra gli ordinamenti improntata a gerarchia (c.d. teoria monista).
Di converso, la Corte costituzionale italiana ha dapprima negato la primazia del diritto comunitario e, sull’assunto per cui il diritto comunitario non potrebbero che avere lo stesso rango della fonte interna di recepimento dei trattati (legge ordinaria), ha affermato che i rapporti con le fonti primarie andavano risolti secondo il criterio cronologico, con l’effetto che il diritto comunitario previgente poteva essere abrogato da una legge successiva.
In un secondo momento la Corte costituzionale ha riconosciuto la primazia del diritto comunitario, ricavandone copertura costituzionale ex art. 11 Cost., con la conseguenza che eventuali conflitti andavano risolti in base al criterio gerarchico e, pertanto, attraverso l’incidente di costituzionalità dinnanzi alla Corte costituzionale e la declaratoria di illegittimità del diritto interno per violazione del parametro indicato.
La CGUE ha censurato l’impostazione della Corte Costituzionale ritenendola riduttiva e non idonea a realizzare, nel concreto, il primato della fonte comunitaria; infatti, mentre il criterio della successione cronologica non risolveva il problema delle norme che fossero state adottate antecedentemente alla norma comunitaria, il sindacato della Corte Costituzionale poteva intervenire solo all’ esito di una questione incidentale eventuale sollevata nell’ambito di un singolo procedimento.
Il punto di approdo è stato raggiunto con una successiva pronuncia della Corte costituzionale che, muovendo dalla premessa implicita che i rapporti tra gli ordinamenti debbano inquadrarsi secondo il criterio della competenza, ha affermato la prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale e, sull’assunto che gli ordinamenti siano distinti, ancorché coordinati (c.d. teoria dualista), ha precisato che l’eventuale conflitto tra le fonti non determina la illegittimità o la abrogazione della fonte nazionale bensì la sua disapplicazione (o non applicazione) da parte del giudice comune o di qualsiasi autorità nazionale chiamata a farne applicazione.
Si è affermato in dottrina che la modifica all’art. 117 Cost. per opera della l. cost. 3/01 in forza della quale è stato costituzionalizzato in forma espressa l’obbligo per il legislatore, nazionale e regionale, di rispettare “gli obblighi derivanti dall’ordinamento comunitario” costituirebbe un argomento per superare anche l’impostazione c.d. dualista patrocinata dalla Corte costituzionale. Ulteriore argomento a favore di tale tesi sarebbe la (auto)riconosciuta possibilità per la Corte costituzionale di formulare rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE alla Corte di giustizia, in veste di “giudice comune” del diritto dell’Unione.
In realtà la Corte costituzionale, pur avendo in successive pronunce affermato che la primazia del diritto comunitario opera anche con riguardo alle disposizioni costituzionali, si è sempre riservata uno spazio di sindacato del diritto comunitario (rectius: della legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati comunitari) per l’ipotesi in cui dovesse prevedere disposizione contrarie ai princìpi fondamentali dell’ordinamento nazionale (c.d. controlimiti) e questa riserva (da ultimo espressa nella nota vicenda Taricco) appare difficilmente conciliabile con una concezione monista degli ordinamenti.
La costituzionalizzazione del “divieto di contrasto” della legislazione interna al diritto comunitario ex art. 117 co. 1 Cost. appare, invece, rilevante con riguardo alla tematica della efficacia delle direttive comunitarie e in particolare del loro rapporto con le fonti nazionali.
Si è già accennato che le direttive comunitarie non sono di regola direttamente applicabili, ma impongono un obbligo di risultato in capo al legislatore nazionale, che rimane libero di scegliere mezzi e forme per recepirne il contenuto entro un certo termine purché non ne pregiudichi l’effettività.
Va ora osservato che gli spazi del legislatore nazionale per dare attuazione ad una direttiva comunitaria si restringono e si ampliano in base al grado di dettaglio della direttiva. E per giurisprudenza consolidata, laddove la direttiva contenga previsioni chiare, precise e incondizionate (c.d. direttive self executing), essa è suscettibile di acquisire efficacia diretta (sia pur nei soli rapporti c.d. verticali: cittadino-stato operando come sanzione per il legislatore inerte) nel caso in cui il legislatore nazionale non rispetti il termine di recepimento o ne dia inesatta attuazione.
In tali casi i rapporti tra direttiva (self executing) e diritto nazionale si pongono negli stessi termini e con gli stessi effetti esaminati con riguardo al regolamento, ossia con la prevalenza della fonte comunitaria e con il potere dell’autorità nazionale di disapplicare il diritto interno contrastante .
Diversamente, laddove la direttiva non sia connotata da un precetto auto-applicativo ovvero ne sia connotata ma non sia ancora decorso il termine di recepimento, essa non è in grado di provocare la disapplicazione della fonte interna contrastante, in quanto, o per le sue caratteristiche (direttiva programmatica) o perché l’inerzia del legislatore non può considerarsi inadempimento, non sarebbe idonea a regolare la fattispecie. Ma proprio con riguardo a tali direttive (programmatiche), la Corte costituzionale ha ammesso la possibilità di un sindacato accentrato, con conseguente espunzione della fonte primaria nazionale per violazione dell’obbligo di rispettare il diritto comunitario previsto dall’art. 117 co. 1 Cost., come modificato dalla l. cost. 3/01, laddove si ponesse in contrasto ai programmi della direttiva
Da ultimo meritano menzione le sentenze della CGUE che, pur non potendosi inquadrare tra le fonti del diritto secondo i paradigmi nazionali, acquistano un significato e una valenza ad esse assimilabili nell’ordinamento dell’Unione Europea, sia esso concepito come integrante gli ordinamenti nazionali ovvero come ordinamento distinto ma coordinato. Si allude in particolare alle sentenze emesse dal supremo giudice comunitario su rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, la cui efficacia interpretativa è vincolante non solo per il remittente, ma per qualsiasi autorità nazionale (non solo giurisdizionale in senso stretto) che si trovi a decidere di vicende in cui quei principi assumano rilevanza.
Allargando la prospettiva di analisi, può ora osservarsi che la tematica del rapporto tra le fonti dell’ordinamento nazionale e dell’ordinamento comunitario si inserisce nel più ampio tema dei rapporti tra i due ordinamenti.
Come accennato in premessa, l’ordinamento comunitario presenta caratteristiche peculiari nel panorama del diritto internazionale, fatte salve nell’Unione le prerogative originarie degli Stati nazionali con specifico riguardo alla potestà normativa, esecutiva e giurisdizionale
Ne consegue che l’esercizio di tali prerogative è influenzato dagli ordinamenti nazionali, perché promanano da essi, e allo stesso tempo li influenzano, atteso che il loro conferimento in capo all’Unione è volto a determinare una regolamentazione, interpretazione e applicazione uniforme. In questo processo di continua interazione e integrazione ordinamentale assumono particolare rilevanza i princìpi di eguaglianza e ragionevolezza, comuni alla generalità degli Stati membri, che saldandosi ai princìpi di non discriminazione e di leale collaborazione di matrice comunitaria connotano l’ordinamento “integrato” di una sostanziale forza espansiva, capace di superare la formale ripartizione delle competenze.
Quanto osservato in ordine ai rapporti tra le fonti vale per il diritto amministrativo, ma è estensibile a qualsiasi ramo dell’ordinamento (diritto civile, penale ecc.) le cui fonti entrino in rapporto con le fonti comunitarie.
Allo stesso modo, quanto precisato con riguardo ai rapporti tra i due ordinamenti può essere riferito a qualsiasi branca dell’ordinamento interno; tuttavia, una esemplificativa chiave di lettura può essere data analizzando più da vicino gli influssi reciproci nel diritto amministrativo con particolare riguardo alla materia degli appalti pubblici.
A tal riguardo basti osservare che nell’ordinamento interno la Costituzione pone quali principi generali dell’attività amministrativa il principio di legalità, di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. e che nell’ordinamento dell’Unione, accanto ad essi, trovano voce princìpi ulteriori, quali il principio di libera concorrenza, di certezza del diritto, del legittimo affidamento, di leale collaborazione e di proporzionalità.
A livello di produzione normativa l’Unione ha competenza esclusiva in materia di concorrenza e la disciplina nazionale in materia di appalti pubblici è costituita da fonti primarie di recepimento di direttive comunitarie improntate a garantire la parità tra gli operatori economici per lo sviluppo del libero mercato.
Sul versante amministrativo, l’arretramento dell’economia statale e l’insufficienza delle amministrazioni tradizionali nell’esercizio dei compiti riservati al potere autoritativo ha comportato la necessità di istituire autorità amministrative indipendenti, capaci di regolare e vigilare sul corretto funzionamento del mercato (es. AGCM) in stretto rapporto con le istituzioni comunitarie (Commissione).
Infine, l’interpretazione e l’applicazione del diritto dell’Unione da parte delle autorità nazionali può creare tensioni con il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., laddove vengano in rilievo fattispecie meramente interne che presentino forti analogie con quelle regolate dal diritto comunitario, con l’effetto di spingere l’interprete ad applicare (es. giurisdizione in tema di appalti sotto-soglia) o il legislatore ad adottare una soluzione uniforme al diritto comunitario onde evitare irragionevoli disparità di trattamento.
In conclusione, si assiste ad un rapporto tra gli ordinamenti caratterizzato da osmosi e contaminazioni reciproche che può essere sinteticamente descritto in termini di armonizzazione circolare. Nell’ambito di tale più ampio contesto deve essere ricondotto il rapporto tra le fonti nazionali e comunitarie, che è retto dal principio di prevalenza del diritto comunitario su quello interno e che si atteggia in termini diversi a seconda della fonte che viene in rilievo.
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