Le grandi aziende e società sono oggi organizzate in vari livelli di funzioni e compiti, nell’ambito delle quali diviene fondamentale l’individuazione del soggetto responsabile quale organo preposto al controllo e direzione dei subordinati ma anche quale centro di imputazione di eventuali responsabilità civili e penali. Tuttavia la complessa organizzazione delle odierne strutture aziendali implica talvolta la necessità di delegare dette funzioni di vertice ad altri soggetti, circostanza spesso ricorrente nell’ambito del lavoro subordinato dove il datore di lavoro è tenuto a una serie di incombenti che diviene difficile espletare da soli. Sotto il profilo penale la questione della legittimità della delega di funzioni da parte del superiore diviene di dirimente importanza sia sotto il profilo della individuazione del soggetto effettivamente responsabile di eventuali condotte criminose sia della possibile configurazione in capo al datore di lavoro delegante di una responsabilità penale per il fatto del delegato alla luce dei principi di legalità e personalità del reato.
Prima di affrontare la questione della rilevanza penale della delega di funzioni in ambito lavoristico, occorre preliminarmente fare qualche cenno agli istituiti basilari cui si riconnette la responsabilità del datore di lavoro, quali la condotta omissiva e il reato omissivo improprio.
Il principio di materialità, sancito dall’art. 25 Cost. e art. 1 c.p., richiede ai fini della punibilità che il reato si esplichi in una condotta materiale e tangibile, estrinsecatasi nel mondo esterno e idonea a modificare il corso degli eventi. Non rilevano quindi le mere intenzioni né la nuda cogitatio, in quanto inoffensive di beni giuridici tutelati dall’ordinamento.
Il codice penale distingue la condotta commissiva dalla condotta omissiva. Nel primo caso l’azione si concreta come movimento del corpo umano idoneo a modificare il mondo esterno e foriero di un danno o pericolo verso i beni della vita tutelati dalla norma penale. La condotta omissiva invece sotto il profilo naturalistico si identifica con una mancata azione da parte del soggetto obbligato prescritta dalla norma (reato omissivo proprio) o nella mancata azione doverosa diretta a impedire il verificarsi di un evento di danno o di pericolo penalmente rilevanti (reato omissivo improprio).
La dottrina ha definito l’omissione come una mera inerzia o un aliud facere. Tali definizioni si sono tuttavia rivelate insoddisfacenti per ciò che riguarda il reato omissivo improprio, in quanto la condotta omissiva, sotto il profilo naturalistico, rappresenta un semplice non facere inidoneo causalmente a cagionare un evento. Ai fini della sua rilevanza penale quindi l’omissione deve essere intesa in senso normativo, la cui definizione primaria è rinvenibile al comma 2 dell’art. 40 secondo il quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”. L’omissione si definisce quindi come la il mancato impedimento possibile di un evento che il soggetto aveva l’obbligo giuridico di impedire. La norma dispone quindi sotto il profilo giuridico un rapporto di equivalenza (non di uguaglianza) tra la condotta commissiva e quella omissiva. L’omissione non rileva in quanto idonea di per se a cagionare un evento, ma in quanto non ha impedito il suo verificarsi. La fattispecie omissiva troverà quindi il suo fondamento normativo dal combinato disposto dell’art. 40, c. 2 c.p. e le fattispecie di parte speciale che contemplano le ipotesi di reato commissive, purché si tratti di reati d’evento a condotta non vincolata.
Dalla definizione data dall’art. 40 c.p. possono essere desunti i caratteri essenziali del reato omissivo improprio. Il soggetto responsabile deve innanzitutto essere titolare di un obbligo giuridico di intervento atto a prevenire ed evitare la causazione dell’illecito penale. In accoglimento della teoria formale, l’obbligo giuridico deve essere previsto da una specifica norma di legge o promanare da rituale contratto (anch’esso avente base normativa all’art. 1372 c.c.). Dall’obbligo giuridico scaturisce in capo all’obbligato una correlativa posizione di garanzia nei confronti di determinati soggetti incapaci di provvedere a se stessi (posizione di garanzia di protezione) o verso determinate fonti di pericolo (posizione di garanzia di controllo). Si rivela inoltre necessario che l’obbligo giuridico, ponendo un limite alla libertà del destinatario, debba essere circoscritta sia con riferimento ai soggetti obbligati sia con riguardo alle specifiche categorie di soggetti e attività nei cui riguardi debba essere esercitata l’attività di controllo e protezione. Ciò è quantomeno essenziale anche al fine di evitare una arbitraria estensione delle fattispecie penali a casi non espressamente contemplati dalla legge in ossequio al principio di legalità e tassatività della norma penale. Da ultimo, in linea con l’art. 27 cost. che prescrive il principio di personalità della responsabilità penale, l’obbligato deve essere dotato di idonei poteri impeditivi della situazione di danno o pericolo che si intende evitare, preesistenti alla posizione di garanzia assegnata. L’obbligato quindi non è responsabile in quei casi in cui non abbia possibilità di tenere la condotta impeditiva perché nel caso concreto i poteri conferiti risultino inidonei ad evitare la situazione vietata o perchè non esercitabili.
Nell’ambito dei reati omissivi impropri assume particolare importanza la posizione di garanzia rivestita dal datore di lavoro cui fanno capo compiti di sorveglianza e doveri di prevenzione per garantire la sicurezza e l’incolumità dei suoi lavoratori subordinati. In particolare, l’art. 18 del D. Lgs. 81/2008, che reca norme in materia di tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro, prevede in capo al datore una serie di specifici obblighi giuridici. Tra questi si menzionano l’obbligo di nominare il medico deputato alla sorveglianza sanitaria, attuare misure di prevenzione degli incendi, tutelare i lavoratori predisponendo cautele e assegnando loro mansioni consone alla propria preparazione ed esperienza, adottare misure nei casi di emergenza, ecc. La norma in esame quindi si configura quale fonte e fondamento degli obblighi giuridici facenti capo ai datori di lavoro e presupposto indefettibile ai fini di una eventuale imputazione della responsabilità penale ai sensi dell’art. 40, c. 2 c.p.
Il D. lgs. 81/2008 non esclude tuttavia la possibilità per il superiore di delegare parte dei suoi compiti ad altri soggetti, delega spesso imposta dalla complessità delle strutture aziendali che rende gravoso onerare un unico soggetto delle diverse funzioni connesse alla posizione di vertice rivestita. Il legislatore, in linea con l’orientamento passato della giurisprudenza, ha ammesso la delega di funzioni a determinate condizioni (art.16), anche al fine di evitare fenomeni di de-responsabilizzazione all’interno del luogo di lavoro che si verrebbero a creare nelle ipotesi di deleghe a cascata prive di apposita regolamentazione. La delega per essere efficace deve avere la forma scritta e deve essere accettata dal delegato. Inoltre è necessario che il delegato possieda i requisiti ed esperienza necessaria per svolgere l’incarico affidato e che vengano a esso attribuiti poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura dell’incarico, oltre all’autonomia di spesa. La delega quindi si configura come un atto negoziale traslativo delle funzioni facenti capo al datore di lavoro alla quale segue l’indefettibile trasferimento degli obblighi giuridici allo stesso facenti capo e della relativa posizione di garanzia al delegato. La mancata osservanza da parte del delegato degli obblighi di controllo e protezione originariamente posti a capo del datore di lavoro configura gli estremi del reato omissivo improprio laddove la condotta omissiva sia causalmente orientata al verificarsi dell’evento vietato dalla norma penale. Si pensi al caso di incendio nel luogo di lavoro in conseguenza della mancata predisposizione da parte del soggetto delegato dei piani di prevenzione e controllo degli incendi e delle emergenze, cui segua la morte di alcuni lavoratori. Rimangono tuttavia non delegabili le funzioni di valutazione di tutti i rischi riportata in apposito documento la cui elaborazione spetta al datore di lavore e la nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dei rischi. In questo caso la delega ha mera valenza esecutiva e attuativa della volontà del superiore in capo al quale permane l’intera responsabilità per le scelte e valutazioni, anche quelle eventualmente effettuate da terzi delegati.
L’ammissibilità della delega di funzioni da parte del datore di lavoro lascia aperta un’ulteriore questione che riguarda il permanere di una sua residua responsabilità a fronte dell’assunzione della posizione di garanzia in capo al delegato. Sul punto si sono registrate diverse tesi tra loro opposte. Da un lato si è posto in luce come la delega, frutto di una mera manifestazione negoziale, sarebbe incapace di derogare alla legge che prevede una espressa responsabilità in capo al datore di lavoro, di certo non trasferibile mediante atti privatistici qual è il contratto. Altra tesi invece sostiene che la delega, nel rispetto dei parametri delineati dal legislatore, determina una traslazione tout court della responsabilità dal datore di lavoro al delegato, di guisa che ogni fattispecie delittuosa riconducibile a quest’ultimo non possa essere ascritta al superiore delegante. Da ultimo parte della dottrina ha ravvisato come il datore di lavoro, pur attuando una dismissione dei propri obblighi giuridici mediante la delega, non può andare esente da un dovere di vigilanza nei confronti del sottoposto delegato, stante i poteri a lui attribuiti ab origine da parte dell’ordinamento. Quest’ultima tesi sembra del resto quella più conforme al dettato di cui al citato art. 18 del D. Lgs. 81/08, tanto che in quest’ultimo senso sembra essersi orientato il legislatore, il quale ha previsto che la delega di funzioni non fa venir meno l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento delle funzioni da parte del delegato (art. 16, c. 2 D. Lgs. 81/08). Viene così scongiurata l’ipotesi di una responsabilità da posizione in quanto il superiore non risponderà penalmente di ogni omissione commessa da parte del delegato ma solo nei casi in cui non sia stato rispettato il suo dovere di vigilanza che concorre alla commissione dell’illecito penale. Si viene così a creare un doppio binario di responsabilità in merito ai doveri di sicurezza sul posto di lavoro: il delegato risponderà per le omissioni inerenti le funzioni delegate, mentre il datore di lavoro sarà responsabile dell’omessa vigilanza nei confronti del primo ai sensi del citato art. 16. Non vi è quindi alcuna sovrapposizione tra la posizione di garanzia del delegato e quella ricoperta dal delegante, i quali rimangono titolari di distinti obblighi giuridici di contenuto differente. In tal caso è lo stesso legislatore a prevedere il grado di controllo necessario e sufficiente per poter rendere il datore esente da responsabilità penale, circoscrivendone i limiti. L’obbligo di vigilanza si intende assolto se il datore di lavoro adotta e attua in modo efficace i modelli di verifica e controllo sui modelli di organizzazione e gestione aziendale adottati, tra i quali rientrano anche la delega di funzioni, predisponendo ove necessario un riesame o modifica degli stessi se riscontri violazioni significative delle norme sulla prevenzione della sicurezza e igiene sul lavoro (art. 30, c. 4 D. Lgs. 81/2008). In conformità ai principi di tassatività e di precisione della norma penale, l’omessa vigilanza dovrà essere in ogni caso indagata tenendo conto delle peculiarità del caso concreto e, in particolare, dell’effettivo contenuto delle funzioni delegate e del possibile controllo che sulle stesse il datore di lavoro poteva esercitare.
Non è infine ammessa la sub delega da parte del delegato se non previa intesa con il datore di lavoro e purché limitata a determinate funzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro nel rispetto dei limiti formali e sostanziali previsti in caso di delega (art. 16 c. 3 bis D. lgs. 81/08). La norma tende quindi a disincentivare deleghe a cascate che impedirebbero in via successiva l’individuazione degli effettivi soggetti responsabili in caso di illeciti nel rispetto della personalità della responsabilità penale.
Sul punto sembra essersi allineata anche la giurisprudenza, la quale ha affermato in diverse pronunce la permanenza di un persistente obbligo di vigilanza del delegante sull’attività del delegato (Cassazione Penale, Sez. 4, 27 febbraio 2013, n. 9505; Cassazione penale sez. IV, 24 febbraio 2011, n. 12027).
Individuata quindi la possibilità per il datore di lavoro di incorrere in una responsabilità penale nelle ipotesi di delega di funzioni, ci si chiede a quale titolo egli possa concorrere nell’altrui violazione. L’analisi della questione non conduce a una risposta univoca, posto che diversi possono essere gli esiti a fronte del diverso atteggiarsi della volontà del datore di lavoro e dello stesso delegato innanzi alla commissione del reato.
Il concorso nel reato infatti presuppone, oltre alla pluralità di soggetti nella commissione della fattispecie penale, la consapevolezza e volontà del concorrente di concorrere nell’altrui reato in adesione all’altrui proposito criminoso (art. 110 c.p.). Nella casistica trattata pertanto, ai fini di una imputazione del reato nei confronti del datore di lavoro, è necessario che lo stesso sia consapevole e voglia concorrere nella realizzazione del reato commesso dal delegato o quantomeno ne accetti il rischio della sua verificazione alla stregua del dolo eventuale.
Una responsabilità concorrente del datore di lavoro può inoltre configurarsi nel caso di cooperazione nel delitto colposo ai sensi dell’art. 113 c.p. Alla condotta colposa del delegato viene ad aggiungersi quella del superiore il quale partecipa con la sua condotta alla realizzazione della fattispecie criminosa. In questo caso la cooperazione viene intesa come consapevole partecipazione da parte del concorrente nell’attività altrui, agendo in modo congiunto verso un fine comune. A differenza dell’ipotesi sopra citata il datore di lavoro non vuole la realizzazione dell’evento dannoso né accetta il rischio del suo verificarsi, concorrendo con la sua condotta alla violazione delle regole cautelari prescritte in materia a titolo di colpa cosciente.
Diversa e discussa è invece l’ipotesi in cui il datore di lavoro concorra con la sua condotta omissiva colposa, in violazione del dovere di sorveglianza a cui è tenuto, alla realizzazione del reato previsto e voluto dal delegato. In tal caso verrebbe infatti a configurarsi un concorso colposo nel reato doloso, tema ampiamente discusso e al quale la giurisprudenza di legittimità ha di recente dato risposta negativa.
In particolare la Corte di Cassazione ha escluso l’imputazione della responsabilità penale a titolo di concorso colposo nel delitto doloso alla luce dell’art. 42, c .2 c.p. che prevede l’eccezionalità del reato colposo punito solo nei casi previsti dalla legge. L’applicazione dell’art. 110 c.p. e delle relative fattispecie dolose di parte speciale anche a un eventuale concorso colposo determinerebbe una non consentita estensione della responsabilità penale in violazione del principio di legalità (Cass. Penale, Sez IV sentenza n. 7032 del 14.02.19). L’assunto, secondo la Corte, è confermato dall’art. 113 c.p., il quale espressamente fa riferimento a un concorso “nel delitto colposo”, presupponendo un’identica responsabilità soggettiva a titolo di colpa.
In quest’ultima ipotesi, esclusa una responsabilità a titolo di concorso colposo, il datore di lavoro potrebbe al più rispondere in via autonoma del reato del delegato ove l’evento sia causalmente riconducibile all’omesso obbligo di vigilanza previsto dall’art. 16, c. 3 D. Lgs. 81/08. Secondo le coordinate ermeneutiche e applicative del nesso di causalità previste per il reato omissivo improprio, sarà tuttavia necessario provare che il controllo del delegante sull’attività del delegato sarebbe stato idoneo, con un alto grado di probabilità logica, a evitare il verificarsi della fattispecie incriminatrice del delegato. Pertanto, il datore di lavoro non potrà andare esente da responsabilità se, secondo le norme della migliore scienza ed esperienza applicate al caso concreto ed esclusi eventuali fattori causali estrinseci e alternativi non controllabili, il reato commesso dal delegato si sarebbe potuto evitare per mezzo di un efficace controllo da parte del datore di lavoro.
A titolo esemplificativo si pensi al datore di lavoro che ometta di vigilare l’attività del delegato e non abbia approntato modelli di verifica sulla sua gestione nonostante le evidenti inadempienze del sottoposto sfociate poi nel reato di lesioni verso altri lavoratori.
Alla luce di quanto sopra può dunque desumersi come la delega di funzioni da parte del datore di lavoro non determini un’integrale dismissione della sua posizione di garanzia e delle responsabilità facenti lui capo in quanto egli rimane in ogni caso, secondo legge, responsabile della gestione e della sicurezza sul lavoro. La delega determina una mera riformulazione delle sue funzioni all’interno del luogo di lavoro, relegandolo al ruolo di osservatore e sorvegliante delle funzioni delegate di gestione e controllo a lui originariamente affidate.
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