Gli enti, intesi quali organizzazioni collettive dotate di una certa autonomia organizzativa, rivestono un ruolo centrale nell’economia moderna, risultando capillare la loro presenza nei più disparati settori produttivi, finanziari e commerciali. Non deve pertanto stupire l’allarmismo destato da quelle manifestazioni di reato che sono sintomatiche di loro sistematiche politiche illecite o che sono comunque favorite dalla complessità delle loro strutture interne, caratterizzate soventemente da una pluralità di centri decisionali che rende più difficoltosa l’individuazione della persona fisica responsabile di un dato reato compiuto nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso. Istanze di politica criminale sempre più pressanti, volte a prevenire e a contrastare in modo più efficace simili fenomeni, hanno pertanto indotto la comunità internazionale a sollecitare la previsione, negli ordinamenti nazionali dei vari Stati, di forme di responsabilità da reato degli enti, peraltro già da tempo una realtà negli Stati Uniti d’America e in diversi Paesi europei. Nel caso dell’Italia, un impulso in tal senso è stato dato dalla Convenzione dell’OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali del 17 dicembre 1997. L’art. 2 della Convenzione, invero, imponeva agli Stati firmatari di adottare le misure necessarie, secondo i propri principi giuridici, per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche in caso di corruzione di un pubblico ufficiale straniero. L’art. 3, co. 2, della Convenzione, inoltre, precisava che, qualora secondo il sistema giuridico di uno Stato firmatario la responsabilità penale non fosse stata applicabile alle persone giuridiche, lo Stato in questione avrebbe dovuto assicurare che le persone giuridiche fossero passibili di sanzioni non penali efficaci, proporzionate e dissuasive, incluse le sanzioni pecuniarie.
La suddetta Convenzione è stata ratificata nel nostro Paese con la L. 29 settembre 2000, n. 300, e con la stessa è stata data delega al Governo per l’emanazione di un decreto legislativo avente ad oggetto, per l’appunto, la disciplina della responsabilità degli enti in relazione alla commissione di una serie di reati, puntualmente indicati nell’art. 11 della medesima L. n. 300/2000, assieme a numerosi principi e criteri direttivi. Conformemente alla suddetta delega, è stato emanato il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Il D.Lgs. n. 231/2001 si compone di quattro capi. Il primo è dedicato ai principi generali e ai criteri di attribuzione della responsabilità all’ente (prima sezione: artt. 1-8), alle sanzioni in generale (seconda sezione: artt. 9-23) e alla responsabilità per reati previsti dal codice penale (terza sezione: artt. 24-26). Il secondo capo disciplina la responsabilità patrimoniale (prima sezione: art. 27) e le vicende modificative dell’ente (seconda sezione: artt. 28-33), mentre il terzo è incentrato sul procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni, dettando disposizioni generali in materia (prima sezione: artt. 34 e 35) e altre più specifiche riguardo a soggetti, giurisdizione e competenza (seconda sezione: artt. 36-43), alle prove (terza sezione: artt. 44), alle misure cautelari (quarta sezione: artt. 45-54), alle indagini preliminari e all’udienza preliminare (quinta sezione: artt. 55-61), ai procedimenti speciali (sesta sezione: artt. 62-64), al giudizio (settima sezione: artt. 65-70), alle impugnazioni (ottava sezione: artt. 71-73), all’esecuzione (nona sezione: artt. 74-79). Infine, il quarto ed ultimo capo detta delle disposizioni di attuazione e di coordinamento (artt. 83-84).
La disciplina della responsabilità da reato degli enti dettata dal D.Lgs. n. 231/2001, nei suoi tratti essenziali, può essere così sintetizzata. Determinati enti, espressamente indicati nell’art. 1, co. 2, D.Lgs. n. 231/2001, possono essere chiamati a rispondere per uno o più dei reati previsti dagli artt. 24 ss., D.Lgs. n. 231/2001, commessi nel loro interesse o a loro vantaggio da persone che ne gestiscono o controllano l’attività o da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza della prime (art. 5, co. 1, rispettivamente lett. a) e b), D.Lgs. n. 231/2001). (bene)
La responsabilità dell’ente è autonoma da quella della persona che ha compiuto il reato, invero sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile ovvero anche qualora il reato si estingua per una causa diversa dall’amnistia (art. 8, D.Lgs. n. 231/2001). Al di fuori di quest’ultima ipotesi, l’ente incorre in responsabilità per fatti reati commessi a suo vantaggio da persone che ne gestiscono o controllano l’attività, ovvero secondo quanto disposto dall’art. 7, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, qualora i soggetti attivi del reato siano persone sottoposte all’altrui direzione o alla vigilanza. In entrambi i casi, è consentita la prova liberatoria per l’ente se prova di aver adottato ed aver efficacemente attuato, prima del compimento del reato, un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
La responsabilità da reato dell’ente, dunque, non è oggettiva ma quanto meno colposa. L’ordinamento giuridico, invero, rimprovera l’ente per una colpa di organizzazione interna e lo punisce con l’applicazione di sanzioni pecuniarie (artt. 10 ss., D.Lgs. n. 231/2001) e con la confisca del prezzo o del profitto del reato (artt. 19, D.Lgs. n. 231/2001), nonché, laddove ne ricorrano i presupposti, con sanzioni interdittive (artt. 13 ss., D.Lgs. n. 231/2001) e con la pubblicazione della sentenza di condanna (art. 18, D.Lgs. n. 231/2001). L’ente potrà essere altresì soggetto all’applicazione di misure cautelari (artt. 45 ss., D.Lgs. n. 231/2001) ovvero subire il sequestro preventivo delle cose di cui è consentita la confisca a norma dell’art. 19, D.Lgs. n. 231/2001 (art. 53, D.Lgs. n. 231/2001) o il sequestro conservativo dei beni mobili e immobili o delle somme o cose allo stesso dovute (art. 54, D.Lgs. n. 231/2001). Al ricorrere di taluni presupposti, infine, la prosecuzione dell’attività può essere temporaneamente affidata a un commissario giudiziale (artt. 15, 45 e 79, D.Lgs. n. 231/2001).
Illustrata brevemente la disciplina del D.Lgs. n. 231/2001 nelle sue linee essenziali, è ora possibile soffermare l’attenzione sull’approfondimento dei principi generali e dei criteri di attribuzione della responsabilità da reato agli enti, contenuti nel Capo I, Sez. I, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (artt. 1-8). Innanzitutto, pare opportuno riflettere sulla natura giuridica della responsabilità da reato degli enti. L’art. 1, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, chiarisce fin da subito che il medesimo decreto legislativo disciplina «la responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato». L’espressione utilizzata sembrerebbe lasciare intendere, da un lato, che vi sia un illecito amministrativo, di cui gli enti potrebbero essere responsabili, dipendente da un illecito penale compiuto da altri soggetti attivi; dall’altro, che la responsabilità da reato degli enti abbia natura amministrativa. Quanto al primo aspetto, la Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire che il fatto costituente reato della persona fisica e di cui anche l’ente può essere chiamato a rispondere deve essere considerato “fatto” di entrambi e per entrambi antigiuridico e colpevole. Sicché, al di là della imprecisa formulazione della norma in esame, l’illecito è unico. Relativamente al secondo profilo, invece, vi è da dire che lo stesso art. 11, L. n. 300/2000, delegava il Governo a disciplinare la «responsabilità amministrativa» degli enti e coerentemente in diverse norme e rubriche del D.Lgs. n. 231/2001 si parla proprio di “responsabilità amministrativa”. A dispetto di tale incontrovertibile dato letterale, tuttavia, la natura della responsabilità da reato degli enti è questione tuttora dibattuta, non essendo pacifico se la stessa sia effettivamente amministrativa o debba essere considerata piuttosto penale, ovvero rappresenti addirittura un tertium genus. Il problema si pone in quanto, al di là del nomen iuris, la responsabilità da reato degli enti, così come disciplinata dal D.Lgs. n. 231/2001, sembra coniugare i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia. Il suddetto dubbio non è meramente teorico in quanto dalla soluzione interpretativa adottata derivano importanti conseguenze di carattere pratico quali la valutazione della costituzionalità della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 231/2001, nel caso in cui si ritenga che la responsabilità degli enti sia soggetta alle norme costituzionali relative alla materia penale, e l’individuazione della normativa sistematicamente applicabile in caso di lacune nel D.Lgs. n. 231/2001. La dottrina prevalente sembra sostenere la tesi della natura penale della responsabilità da reato degli enti mentre la giurisprudenza pare essere maggiormente orientata a qualificarla come tertium genus, sebbene non siano mancate pronunce a sezione unite della Corte di Cassazione anche a favore delle altre due chiavi di lettura. In definitiva, ad oggi, la questione pare essere stata lasciata sostanzialmente irrisolta, non essendosi ancora manifestata una posizione unitaria in grado di orientare con sicurezza l’interprete. In questa sede è possibile però sottolineare come, dal punto di vista meramente formale non di responsabilità penale in senso stretto si tratta posto che l’ente non viene iscritto nel registro delle notizie di reato e che eventuali condanne non vengono iscritte a casellario giudiziario; inoltre, ed il particolar e non è di poco rilievo, non è neanche possibile, allo stato, la costituzione di parte civile nell’ambito del processo penale nei confronti dell’ente -imputato
Altro aspetto molto importante è l’esatta distinzione tra i soggetti giuridici sottoposti alla disciplina del D.Lgs. n. 231/2001, ai quali pertanto potrebbe essere attribuita una responsabilità da reato, e quelli che invece ne sono esclusi. L’art. 1 D.Lgs. n. 231/2001, al secondo comma, individua i soggetti a cui si applicano le disposizioni in esso contenute: si tratta degli enti forniti di personalità giuridica e delle società e associazioni anche prive di personalità giuridica.
L’ampiezza di questa formula normativa è tale da permettere di ricomprendervi le più diverse forme giuridiche che possono qualificare le organizzazioni collettive, quindi, a titolo esemplificativo: tutti i tipi di società, sia di capitali che di persone; le cooperative; le società fiduciarie; le mutue assicuratrici; le associazioni, anche quelle non riconosciute; le fondazioni, comprese quelle bancarie; i fondi di investimento e i consorzi che svolgono attività esterna. Gli interpreti sembrano essere concordi nell’includere tra le società destinatarie della disciplina dettata D.Lgs. n. 231/2001 anche le società di fatto e quelle irregolari; più controversa, invece, è la possibilità di ricomprendervi anche le società apparenti e quelle occulte, soprattutto in ragione delle difficoltà probatorie in ordine all’esistenza di una loro struttura collettiva organizzata. La Corte di Cassazione, poi, ha avuto modo di chiarire che la suddetta disciplina sia applicabile anche alle società unipersonali, alle società pubbliche e alle società capogruppo: queste ultime, invero, potrebbero essere chiamate a rispondere per i reati commessi nell’ambito delle attività di società da esse controllate, purché nella consumazione concorra una persona fisica che agisca per conto della società capogruppo, perseguendo anche l’interesse di quest’ultima. In merito alla possibilità di includere tra i destinatari della normativa de qua anche l’impresa individuale, invece, si sono registrati orientamenti divergenti nella giurisprudenza di legittimità in quanto, a differenza di quanto avviene nel caso delle società unipersonali, l’impresa individuale non è dotata di autonomia soggettiva rispetto alla persona fisica dell’imprenditore né di un patrimonio proprio distinguibile da quello di costui. A fronte di tale differenza, la Corte di Cassazione talvolta si è pronunciata in senso negativo (nel 2004 e nel 2012), in quanto l’autore del reato finirebbe con il divenire destinatario sia della sanzione penale che della sanzione ex D.Lgs. n. 231/2001, in violazione del principio del ne bis in idem; una volta, però (nel 2011), si è espressa in senso positivo, ritenendo in sostanza assimilabile l’impresa individuale alla società unipersonale e paventando un possibile vuoto di tutela nel caso di una sua estromissione; altre volte, si è espressa al contrario. A detta della dottrina, comunque, questo secondo orientamento della Suprema Corte va considerato come un mero episodico “incidente” giurisprudenziale, immediatamente “corretto” nel 2012. Inoltre, dovrebbero essere equiparate alle imprese individuali – e perciò dovrebbero essere escluse dal novero dei soggetti a cui è applicabile il D.Lgs. n. 231/2001 – anche le imprese familiari di cui all’art. 230-bis c.c., nonché, più in generale, tutte quelle forme aggregative di persone fisiche che non determinano la costituzione di un soggetto giuridico autonomo e distinto rispetto ai membri che le compongono.
Le opinioni dottrinali, invece, non risultano essere univoche in relazione a quegli enti privati caratterizzati per l’assenza di un fine di lucro, quali comitati, consorzi con attività interna, cooperative e Onlus. Sempre l’art. 1, D.Lgs. n. 231/2001, al terzo comma, elenca invece i soggetti espressamente esclusi dal campo di applicazione del decreto medesimo, ovvero lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
L’individuazione degli enti pubblici territoriali è piuttosto agevole: si tratta di quelli previsti dall’art. 114, co. 1, Cost., ovvero lo Stato stesso, le Regioni, le Città metropolitane, le Province e i Comuni, e di quelli ulteriori elencati nell’art. 2, D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), ossia le comunità montane, le comunità isolane, le unioni di comuni e i consorzi fra enti territoriali. (bene)
Più problematica risulta essere l’esatta delimitazione di quali enti possano essere considerati enti pubblici non economici in ragione dell’assenza di una definizione normativa univoca di ente pubblico economico a cui fare riferimento. La dottrina, comunque, sembra ritenere non applicabile la disciplina del D.Lgs. n. 231/2001 a tutti gli enti della Pubblica Amministrazione che costituiscono le articolazioni centrali e periferiche dello Stato e che esercitano il potere pubblico (ad esempio: Ministeri, Prefetture, Tribunali, agenzie), agli enti pubblici associativi (ad esempio: ordini professionali, Comitato Olimpico Nazionale Italiano, Croce Rossa Italiana), agli enti pubblici comunitari (ad esempio: scuole, università, camere di commercio) e agli enti pubblici strumentali (ad esempio: autorità amministrative indipendenti, enti di ricerca, enti culturali, enti previdenziali). Secondo la dottrina maggioritaria sarebbero escluse dal campo di applicazione del D.Lgs. n. 231/2001, anche le Aziende sanitarie locali e quelle ospedaliere.
Infine, per quanto riguarda gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale, gli interpreti sono soliti includervi anche i partiti politici e i sindacati. Passando all’esame di alcune regole fondamentali dettate in riferimento alla responsabilità da reato degli enti (artt. 2, 3 e 4, D.Lgs. n. 231/2001), è agevole osservare come queste siano mutuate dal diritto penale.
Per quanto riguarda il principio di legalità – nelle sue accezioni di riserva relativa di legge, di tassatività, precisione, determinatezza e di irretroattività sfavorevole – stabilito in materia penale dall’art. 7 Cedu, dall’art. 25, co. 2 e 3, Cost., e dagli artt. 1, 2, co. 1, e 199 c.p., esso è riproposto in favore degli enti dall’art. 2, D.Lgs. n. 231/2001, ai sensi del quale l’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto. A dispetto di questo parallelismo con il diritto penale, tuttavia, attenta dottrina evidenzia che l’inderogabilità legislativa del principio della riserva di legge è configurabile solo laddove lo stesso trovi copertura costituzionale: nel caso della responsabilità da reato degli enti, quindi, solo qualora si acceda a quegli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che ne riconoscono la natura penale o per lo meno una natura ibrida (tertium genus), anche se il nostro ordinamento ha previsto, con estrema coerenza, la tipicità per tutti gli illeciti amministrativi e, per ultimo, anche per le sanzioni pecuniarie civili, di recente istituite con l’ultimo decreto di depenalizzazione
In merito alla successione delle leggi nel tempo, ricalcando parzialmente l’art. 2 c.p., l’art. 3, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, dispone che l’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce più reato o in relazione al quale non è più prevista la responsabilità amministrativa dell’ente, e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti giuridici (si noti il parallelismo con l’art. 2, co. 2, c.p.). Questo generico riferimento agli effetti giuridici piuttosto che a quelli penali, dovuto alla natura asseritamente amministrativa della responsabilità da reato degli enti, ha indotto parte della dottrina a domandarsi se anche le obbligazioni civili (quali il risarcimento del danno) vi debbano essere incluse: qualora così fosse, si ritiene che andrebbe comunque tutelata la posizione dei terzi creditori in buona fede e che la suddetta cessazione della condanna sia riferibile solo agli effetti ancora in corso (ossia ai rapporti debitori ancora pendenti al momento dell’abolitio criminis) e non a quelli già esauriti con l’adempimento delle obbligazioni pecuniarie. Precisato ciò, l’art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 231/2001, stabilisce che se la legge del tempo in cui è stato commesso l´illecito e le successive sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli, salvo che sia intervenuta pronuncia irrevocabile (principio della lex mitior: si noti il parallelismo con l’art. 2, co. 4, c.p.). Infine, l’art. 3, co. 3, D.Lgs. n. 231/2001, chiarisce che i precedenti due commi non trovano applicazione se si tratta di leggi eccezionali o temporanee (si noti il parallelismo con l’art. 2, co. 5, c.p.). Per concludere sul punto, si noti che sebbene l’art. 3, D.Lgs. n. 231/2001, taccia in relazione alla decretazione d’urgenza a cui, invece, fa riferimento l’art. 2, co. 6, c.p., in dottrina si ritiene che la relativa disciplina codicistica sia applicabile in via analogica, ovviamente nei limiti indicati dalla Corte Costituzionale in una sentenza del 1981.
Relativamente ai reati-presupposto commessi all’estero, l’art. 4, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, fa espresso rinvio alla disciplina del codice penale, stabilendo che gli enti soggetti alla disciplina del D.Lgs. n. 231/2001, aventi nel territorio dello Stato italiano la loro sede principale, rispondono anche in relazione ai reati-presupposto commessi all’estero, nei casi e alle condizioni previsti dagli artt. 7, 8, 9 e 10 c.p., salvo che nei loro confronti non proceda lo Stato estero del luogo in cui è stato commesso il fatto. La norma contempera, dunque, due esigenze: da un lato, quella di evitare possibili elusioni della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 231/2001 attraverso il compimento all’estero dei reati-presupposto, ipotesi tutt’altro che infrequente sul piano criminologico; dall’altro, quella di impedire la sovrapposizione delle azioni punitive da parte dei diversi Stati, cosa che si potrebbe verificare in special modo quando anche nello Stato estero sia vigente il principio di obbligatorietà dell’azione penale come in Italia. È importante precisare che l’ente, qualora non abbia la propria sede principale nel territorio dello Stato italiano, non potrà essere chiamato a rispondere per il reato-presupposto compiuto a suo vantaggio, mentre all’autore (italiano o straniero) del reato-presupposto potrebbe essere comunque applicabile la legge penale italiana sulla base della disciplina degli artt. 7-10 c.p.. Sul punto, tuttavia, in dottrina è diffusa l’opinione che la norma in esame si riferisca solo ai reati-presupposto commessi integralmente all’estero, con la conseguenza che in tutti gli altri casi potrebbe essere chiamato a rispondere anche l’ente, trovando applicazione la disciplina generale dettata dall’art. 6 c.p., ai sensi del quale un reato si considera commesso nel territorio dello Stato italiano, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione. Coerentemente, in giurisprudenza è diffuso l’orientamento secondo cui potrebbero essere perseguibili in Italia anche gli enti stranieri per reati-presupposto commessi da propri agenti (apicali o subordinati) nel territorio dello Stato italiano, mentre la dottrina è più ondivaga sul punto.
L’art. 4, co. 2, D.Lgs. n. 231/2001, poi, precisa che nei casi in cui la legge prevede che il colpevole sia punito a richiesta del Ministro della giustizia, si procede contro l´ente solo se la richiesta è formulata anche nei confronti di quest´ultimo. La norma sembra essere volta a tenere distinte le posizioni del soggetto agente e dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato-presupposto. Si noti che almeno, con riguardo ai principali reati di corruzione – spesso reati – presupposti alla responsabilità dell’ente – la recente legge denominata Spazzacorrotti ha eliminato in radice il problema prevedendo l’assenza della richiesta del Ministro ( cfr. ultimo comma art. 9 c.p)
Esaminate queste regole fondamentali, è ora possibile soffermare l’attenzione sui criteri di imputazione della responsabilità da reato all’ente, iniziando da quelli che insistono su di un piano oggettivo e che sono indicati dall’art. 5, D.Lgs. n. 231/2001, ovvero: (i) il legame funzionale che deve intercorrere tra l’autore del reato-presupposto e l’ente; (ii) il fatto che il reato-presupposto sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente. (bene) Relativamente al primo criterio oggettivo sub (i), l’art. 5, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, distingue in particolare tra: a) soggetti apicali, ovvero persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell´ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) soggetti subordinati, ovvero persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla precedente lett. a). Come si avrà modo di approfondire nel prosieguo, questa distinzione è molto importante perché risulta strumentale a differenziare i criteri di ascrizione sul piano soggettivo della responsabilità da reato all’ente. Passando a una più attenta disamina dei vari soggetti menzionati nell’art. 5, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, è possibile fare le seguenti osservazioni. I soggetti apicali che svolgono funzioni di rappresentanza per l’ente sono, secondo la dottrina, solo quelli che esercitano tale funzione in via organica, ossia in quanto ricoprenti determinati ruoli nell’organizzazione dell’ente: tipicamente, i suoi amministratori. Invece, i soggetti che rappresentano l’ente in virtù dei relativi poteri loro attribuiti attraverso atti negoziali di procura (generale o speciale) andrebbero ricompresi tra i soggetti subordinati sub b), in quanto la suddetta attribuzione di poteri di rappresentanza implica obblighi di rendicontazione che sarebbero indicativi della sottoposizione alla direzione e al controllo altrui. I soggetti apicali che svolgono funzioni di amministrazione sono ovviamente gli amministratori degli enti e, precisa la dottrina, anche tutti quei soggetti che, seppur variamente denominati, gestiscono e governano comunque l’ente.
Si ritiene che il riferimento ai soggetti apicali che svolgono funzioni di direzione sia rivolto ai direttori generali delle società. Questi ultimi, sebbene siano dei dipendenti della società, sottoposti al potere direttivo dell’organo amministrativo, svolgono comunque compiti di gestione operativa che li porta ad essere distinti dai soggetti subordinati sub b). Da escludere, invece, che anche i sindaci (o altri soggetti ad essi equiparabili) possano essere inclusi tra le persone che esercitano la gestione e il controllo dell’ente. Invero, come evidenziato nella stessa Relazione ministeriale al D.Lgs. n. 231/2001, il potere di gestione e quello di controllo devono concorrere ed essere attribuiti al medesimo soggetto, mettendolo nella condizione di esercitare il proprio dominio sull’ente. Condizione che evidentemente non si realizza nel caso dei sindaci.
Infine, soffermando ora l’attenzione sui soggetti subordinati sub b), è possibile notare come l’art. 5, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, li individui genericamente in coloro che sono sottoposti alla direzione oppure alla vigilanza di uno dei soggetti apicali pocanzi menzionati. Alla luce di ciò, la dottrina è orientata nel senso di includere in tale categoria non solo i dipendenti inquadrati a vario titolo nell’organigramma dell’ente ma anche soggetti esterni a cui sia stato affidato un dato incarico e debbano eseguirlo sotto la direzione e il controllo di soggetti apicali dell’ente, come potrebbe avvenire nel caso di agenti, di promotori, di faccendieri, di intermediari commerciali o di certi tipi di consulenti. Relativamente al secondo criterio di imputazione sul piano oggettivo, di cui sopra sub (ii), l’art. 5, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, stabilisce che l’ente è responsabile solo per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio. Su di un piano oggettivo di imputazione, dunque, perché a un ente possa essere ascritta la responsabilità per uno o più dei reati previsti dagli artt. 24 ss., D.Lgs. n. 231/2001, non è sufficiente che tale reato-presupposto sia stato compiuto da un soggetto funzionalmente legato all’ente ma occorre altresì che egli abbia agito nell’interesse e a vantaggio dell’ente. Fermo restando ciò, in dottrina sono emersi due orientamenti in merito a come dover intendere questa disposizione. Secondo una prima tesi (c.d. tesi monista), maggioritaria in dottrina, il legislatore avrebbe utilizzato i termini “interesse” e “vantaggio” come sinonimi e dunque all’espressione «nel suo interesse o a suo vantaggio» dovrebbe essere dato un senso unitario. Un argomento a sostegno di questa tesi è il dettato dell’art. 5, co. 2, D.Lgs. n. 231/2001, ai sensi del quale l’ente non risponde se gli autori del reato-presupposto hanno agito nell´interesse esclusivo proprio o di terzi. Al ricorrere di quest’ultima circostanza, quindi, la responsabilità per il reato-presupposto non potrebbe essere ascritta all’ente anche nel caso in cui avesse ottenuto comunque un vantaggio dalla commissione di quell’illecito.
Un’altra tesi (c.d. tesi dualista), fatta propria anche dalla giurisprudenza, sostiene, invece, che i termini “interesse” e “vantaggio” abbiano dei significati ben distinti: il primo indicherebbe la direzione finalistica del reato-presupposto, attribuitagli dal suo autore, e sarebbe da valutare ex ante; il secondo si riferirebbe agli effetti conseguiti alla realizzazione del reato-presupposto, indipendentemente dalla sua finalizzazione originaria, e sarebbe da valutare ex post. Argomenti a sostegno di questa seconda tesi sono sia la volontà del legislatore, ricavabile dalla lettura della relazione ministeriale accompagnatoria del D.Lgs. n. 231/2001, che avrebbe inteso i due termini in rapporto alternativo tra loro, sia l’esigenza di attribuire una funzione al criterio del vantaggio, che altrimenti diverrebbe superfluo. In ogni caso, i criteri oggettivi dell’interesse e del vantaggio previsti dall’art. 5, D.Lgs. n. 231/2001, a prescindere dalla tesi alla quale si preferisca aderire, risultano di problematica applicazione laddove l’interprete sia chiamato a valutare l’imputabilità a un ente della responsabilità per reati-presupposto colposi, come quelli previsti dall’art. 25-septies, D.Lgs. n. 231/2001, conseguenti a violazioni delle norme sulla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Non si vede, invero, come un ente possa perseguire il proprio interesse o ottenere un vantaggio attraverso eventi colposi lesivi della vita o dell’integrità fisica delle persone. La giurisprudenza sembra aver risolto questo problema interpretativo assumendo come termine di relazione dell’interesse o del vantaggio non l’evento del reato ma la condotta posta in essere dall’autore del reato-presupposto. In tale prospettiva, la violazione di regole cautelari potrebbe essere strumentale al perseguimento di un interesse dell’ente valutato in termini di risparmio di spesa derivante dal mancato adeguamento dell’organizzazione aziendale agli obblighi cautelari imposti dalla legge. La dottrina maggioritaria sembra condividere questa chiave di lettura, seppur mettendone in evidenza le criticità e auspicando un intervento legislativo in merito, mentre una parte minoritaria la considera frutto di un’interpretazione analogica in malam partem, inammissibile nella materia penale.
Passando ora all’esame dei criteri di imputazione della responsabilità da reato all’ente che insistono su di un piano soggettivo, la colpevolezza dell’ente viene configurata dal legislatore come una sorta di “colpa da mala organizzazione” derivante dall’avere consentito o agevolato le condizioni per la successiva commissione di reati-presupposto dello stesso tipo di quello realizzato. Come anticipato, tuttavia, questa “colpa” si atteggia in modo diverso a seconda che l’autore del reato-presupposto sia un soggetto apicale o un soggetto subordinato dell’ente. Invero, ai sensi dell’art. 6, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, se il reato-presupposto è stato commesso da soggetti in posizione apicale (indicati nell’art. 5, co. 1, lett. a)), D.Lgs. n. 231/2001), l´ente non risponde se prova che: a) l´organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l´osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell´ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell´organismo di cui alla lettera b). Invece, ai sensi dell’art. 7, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, se il reato-presupposto è stato commesso da soggetti subordinati (indicati nell’art. 5, co. 1, lett. b)), l´ente è responsabile se la commissione del reato-presupposto è stata resa possibile dall´inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza. Tuttavia, aggiunge l’art. 7, co. 2, D.Lgs. n. 231/2001, tale inosservanza è esclusa se l´ente, prima della commissione del reato-presupposto, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Dal raffronto tra quanto disposto dall’art. 6, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, e quanto previsto nell’art. 7, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, appare allora evidente come il legislatore abbia ripartito diversamente l’onere probatorio tra l’ente e il pubblico ministero a seconda della posizione rivestita dall’autore del reato-presupposto: se soggetto apicale, spetterà all’ente dare prova di non essere responsabile del reato-presupposto commesso nel suo interesse o a suo vantaggio; al contrario, qualora il soggetto sia un subordinato, sarà il pubblico ministero a dover provare l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza
Nel concludere l’esame delle disposizioni contenute nel Capo I, Sez. I, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, è possibile ricordare, infine, che la responsabilità da reato degli enti è autonoma. Invero, ai sensi dell’art. 8, co. 1, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, la responsabilità da reato dell’ente sussiste anche quando l´autore del reato non è stato identificato o non è imputabile oppure quando il reato-presupposto si estingue per una causa diversa dall´amnistia. Al ricorrere di quest’ultima, invece, il secondo comma dell’art. 8 stabilisce che, salvo che la legge disponga diversamente, non si procede nei confronti dell´ente quando è concessa amnistia per un reato in relazione al quale è prevista la sua responsabilità e l´imputato ha rinunciato alla sua applicazione. In ogni caso, ai sensi del terzo e ultimo comma dell’art. 8, l´ente può rinunciare all´amnistia.
Gli enti, intesi quali organizzazioni collettive dotate di una certa autonomia organizzativa, rivestono un ruolo centrale nell’economia moderna, risultando capillare la loro presenza nei più disparati settori produttivi, finanziari e commerciali. Non deve pertanto stupire l’allarmismo destato da quelle manifestazioni di reato che sono sintomatiche di loro sistematiche politiche illecite o che sono comunque favorite dalla complessità delle loro strutture interne, caratterizzate soventemente da una pluralità di centri decisionali che rende più difficoltosa l’individuazione della persona fisica responsabile di un dato reato compiuto nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso. Istanze di politica criminale sempre più pressanti, volte a prevenire e a contrastare in modo più efficace simili fenomeni, hanno pertanto indotto la comunità internazionale a sollecitare la previsione, negli ordinamenti nazionali dei vari Stati, di forme di responsabilità da reato degli enti, peraltro già da tempo una realtà negli Stati Uniti d’America e in diversi Paesi europei. Nel caso dell’Italia, un impulso in tal senso è stato dato dalla Convenzione dell’OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali del 17 dicembre 1997. L’art. 2 della Convenzione, invero, imponeva agli Stati firmatari di adottare le misure necessarie, secondo i propri principi giuridici, per stabilire la responsabilità delle persone giuridiche in caso di corruzione di un pubblico ufficiale straniero. L’art. 3, co. 2, della Convenzione, inoltre, precisava che, qualora secondo il sistema giuridico di uno Stato firmatario la responsabilità penale non fosse stata applicabile alle persone giuridiche, lo Stato in questione avrebbe dovuto assicurare che le persone giuridiche fossero passibili di sanzioni non penali efficaci, proporzionate e dissuasive, incluse le sanzioni pecuniarie.
La suddetta Convenzione è stata ratificata nel nostro Paese con la L. 29 settembre 2000, n. 300, e con la stessa è stata data delega al Governo per l’emanazione di un decreto legislativo avente ad oggetto, per l’appunto, la disciplina della responsabilità degli enti in relazione alla commissione di una serie di reati, puntualmente indicati nell’art. 11 della medesima L. n. 300/2000, assieme a numerosi principi e criteri direttivi. Conformemente alla suddetta delega, è stato emanato il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Il D.Lgs. n. 231/2001 si compone di quattro capi. Il primo è dedicato ai principi generali e ai criteri di attribuzione della responsabilità all’ente (prima sezione: artt. 1-8), alle sanzioni in generale (seconda sezione: artt. 9-23) e alla responsabilità per reati previsti dal codice penale (terza sezione: artt. 24-26). Il secondo capo disciplina la responsabilità patrimoniale (prima sezione: art. 27) e le vicende modificative dell’ente (seconda sezione: artt. 28-33), mentre il terzo è incentrato sul procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni, dettando disposizioni generali in materia (prima sezione: artt. 34 e 35) e altre più specifiche riguardo a soggetti, giurisdizione e competenza (seconda sezione: artt. 36-43), alle prove (terza sezione: artt. 44), alle misure cautelari (quarta sezione: artt. 45-54), alle indagini preliminari e all’udienza preliminare (quinta sezione: artt. 55-61), ai procedimenti speciali (sesta sezione: artt. 62-64), al giudizio (settima sezione: artt. 65-70), alle impugnazioni (ottava sezione: artt. 71-73), all’esecuzione (nona sezione: artt. 74-79). Infine, il quarto ed ultimo capo detta delle disposizioni di attuazione e di coordinamento (artt. 83-84).
La disciplina della responsabilità da reato degli enti dettata dal D.Lgs. n. 231/2001, nei suoi tratti essenziali, può essere così sintetizzata. Determinati enti, espressamente indicati nell’art. 1, co. 2, D.Lgs. n. 231/2001, possono essere chiamati a rispondere per uno o più dei reati previsti dagli artt. 24 ss., D.Lgs. n. 231/2001, commessi nel loro interesse o a loro vantaggio da persone che ne gestiscono o controllano l’attività o da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza della prime (art. 5, co. 1, rispettivamente lett. a) e b), D.Lgs. n. 231/2001). (bene)
La responsabilità dell’ente è autonoma da quella della persona che ha compiuto il reato, invero sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile ovvero anche qualora il reato si estingua per una causa diversa dall’amnistia (art. 8, D.Lgs. n. 231/2001). Al di fuori di quest’ultima ipotesi, l’ente incorre in responsabilità per fatti reati commessi a suo vantaggio da persone che ne gestiscono o controllano l’attività, ovvero secondo quanto disposto dall’art. 7, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, qualora i soggetti attivi del reato siano persone sottoposte all’altrui direzione o alla vigilanza. In entrambi i casi, è consentita la prova liberatoria per l’ente se prova di aver adottato ed aver efficacemente attuato, prima del compimento del reato, un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
La responsabilità da reato dell’ente, dunque, non è oggettiva ma quanto meno colposa. L’ordinamento giuridico, invero, rimprovera l’ente per una colpa di organizzazione interna e lo punisce con l’applicazione di sanzioni pecuniarie (artt. 10 ss., D.Lgs. n. 231/2001) e con la confisca del prezzo o del profitto del reato (artt. 19, D.Lgs. n. 231/2001), nonché, laddove ne ricorrano i presupposti, con sanzioni interdittive (artt. 13 ss., D.Lgs. n. 231/2001) e con la pubblicazione della sentenza di condanna (art. 18, D.Lgs. n. 231/2001). L’ente potrà essere altresì soggetto all’applicazione di misure cautelari (artt. 45 ss., D.Lgs. n. 231/2001) ovvero subire il sequestro preventivo delle cose di cui è consentita la confisca a norma dell’art. 19, D.Lgs. n. 231/2001 (art. 53, D.Lgs. n. 231/2001) o il sequestro conservativo dei beni mobili e immobili o delle somme o cose allo stesso dovute (art. 54, D.Lgs. n. 231/2001). Al ricorrere di taluni presupposti, infine, la prosecuzione dell’attività può essere temporaneamente affidata a un commissario giudiziale (artt. 15, 45 e 79, D.Lgs. n. 231/2001).
Illustrata brevemente la disciplina del D.Lgs. n. 231/2001 nelle sue linee essenziali, è ora possibile soffermare l’attenzione sull’approfondimento dei principi generali e dei criteri di attribuzione della responsabilità da reato agli enti, contenuti nel Capo I, Sez. I, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (artt. 1-8). Innanzitutto, pare opportuno riflettere sulla natura giuridica della responsabilità da reato degli enti. L’art. 1, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, chiarisce fin da subito che il medesimo decreto legislativo disciplina «la responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato». L’espressione utilizzata sembrerebbe lasciare intendere, da un lato, che vi sia un illecito amministrativo, di cui gli enti potrebbero essere responsabili, dipendente da un illecito penale compiuto da altri soggetti attivi; dall’altro, che la responsabilità da reato degli enti abbia natura amministrativa. Quanto al primo aspetto, la Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire che il fatto costituente reato della persona fisica e di cui anche l’ente può essere chiamato a rispondere deve essere considerato “fatto” di entrambi e per entrambi antigiuridico e colpevole. Sicché, al di là della imprecisa formulazione della norma in esame, l’illecito è unico. Relativamente al secondo profilo, invece, vi è da dire che lo stesso art. 11, L. n. 300/2000, delegava il Governo a disciplinare la «responsabilità amministrativa» degli enti e coerentemente in diverse norme e rubriche del D.Lgs. n. 231/2001 si parla proprio di “responsabilità amministrativa”. A dispetto di tale incontrovertibile dato letterale, tuttavia, la natura della responsabilità da reato degli enti è questione tuttora dibattuta, non essendo pacifico se la stessa sia effettivamente amministrativa o debba essere considerata piuttosto penale, ovvero rappresenti addirittura un tertium genus. Il problema si pone in quanto, al di là del nomen iuris, la responsabilità da reato degli enti, così come disciplinata dal D.Lgs. n. 231/2001, sembra coniugare i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia. Il suddetto dubbio non è meramente teorico in quanto dalla soluzione interpretativa adottata derivano importanti conseguenze di carattere pratico quali la valutazione della costituzionalità della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 231/2001, nel caso in cui si ritenga che la responsabilità degli enti sia soggetta alle norme costituzionali relative alla materia penale, e l’individuazione della normativa sistematicamente applicabile in caso di lacune nel D.Lgs. n. 231/2001. La dottrina prevalente sembra sostenere la tesi della natura penale della responsabilità da reato degli enti mentre la giurisprudenza pare essere maggiormente orientata a qualificarla come tertium genus, sebbene non siano mancate pronunce a sezione unite della Corte di Cassazione anche a favore delle altre due chiavi di lettura. In definitiva, ad oggi, la questione pare essere stata lasciata sostanzialmente irrisolta, non essendosi ancora manifestata una posizione unitaria in grado di orientare con sicurezza l’interprete. In questa sede è possibile però sottolineare come, dal punto di vista meramente formale non di responsabilità penale in senso stretto si tratta posto che l’ente non viene iscritto nel registro delle notizie di reato e che eventuali condanne non vengono iscritte a casellario giudiziario; inoltre, ed il particolar e non è di poco rilievo, non è neanche possibile, allo stato, la costituzione di parte civile nell’ambito del processo penale nei confronti dell’ente -imputato
Altro aspetto molto importante è l’esatta distinzione tra i soggetti giuridici sottoposti alla disciplina del D.Lgs. n. 231/2001, ai quali pertanto potrebbe essere attribuita una responsabilità da reato, e quelli che invece ne sono esclusi. L’art. 1 D.Lgs. n. 231/2001, al secondo comma, individua i soggetti a cui si applicano le disposizioni in esso contenute: si tratta degli enti forniti di personalità giuridica e delle società e associazioni anche prive di personalità giuridica.
L’ampiezza di questa formula normativa è tale da permettere di ricomprendervi le più diverse forme giuridiche che possono qualificare le organizzazioni collettive, quindi, a titolo esemplificativo: tutti i tipi di società, sia di capitali che di persone; le cooperative; le società fiduciarie; le mutue assicuratrici; le associazioni, anche quelle non riconosciute; le fondazioni, comprese quelle bancarie; i fondi di investimento e i consorzi che svolgono attività esterna. Gli interpreti sembrano essere concordi nell’includere tra le società destinatarie della disciplina dettata D.Lgs. n. 231/2001 anche le società di fatto e quelle irregolari; più controversa, invece, è la possibilità di ricomprendervi anche le società apparenti e quelle occulte, soprattutto in ragione delle difficoltà probatorie in ordine all’esistenza di una loro struttura collettiva organizzata. La Corte di Cassazione, poi, ha avuto modo di chiarire che la suddetta disciplina sia applicabile anche alle società unipersonali, alle società pubbliche e alle società capogruppo: queste ultime, invero, potrebbero essere chiamate a rispondere per i reati commessi nell’ambito delle attività di società da esse controllate, purché nella consumazione concorra una persona fisica che agisca per conto della società capogruppo, perseguendo anche l’interesse di quest’ultima. In merito alla possibilità di includere tra i destinatari della normativa de qua anche l’impresa individuale, invece, si sono registrati orientamenti divergenti nella giurisprudenza di legittimità in quanto, a differenza di quanto avviene nel caso delle società unipersonali, l’impresa individuale non è dotata di autonomia soggettiva rispetto alla persona fisica dell’imprenditore né di un patrimonio proprio distinguibile da quello di costui. A fronte di tale differenza, la Corte di Cassazione talvolta si è pronunciata in senso negativo (nel 2004 e nel 2012), in quanto l’autore del reato finirebbe con il divenire destinatario sia della sanzione penale che della sanzione ex D.Lgs. n. 231/2001, in violazione del principio del ne bis in idem; una volta, però (nel 2011), si è espressa in senso positivo, ritenendo in sostanza assimilabile l’impresa individuale alla società unipersonale e paventando un possibile vuoto di tutela nel caso di una sua estromissione; altre volte, si è espressa al contrario. A detta della dottrina, comunque, questo secondo orientamento della Suprema Corte va considerato come un mero episodico “incidente” giurisprudenziale, immediatamente “corretto” nel 2012. Inoltre, dovrebbero essere equiparate alle imprese individuali – e perciò dovrebbero essere escluse dal novero dei soggetti a cui è applicabile il D.Lgs. n. 231/2001 – anche le imprese familiari di cui all’art. 230-bis c.c., nonché, più in generale, tutte quelle forme aggregative di persone fisiche che non determinano la costituzione di un soggetto giuridico autonomo e distinto rispetto ai membri che le compongono.
Le opinioni dottrinali, invece, non risultano essere univoche in relazione a quegli enti privati caratterizzati per l’assenza di un fine di lucro, quali comitati, consorzi con attività interna, cooperative e Onlus. Sempre l’art. 1, D.Lgs. n. 231/2001, al terzo comma, elenca invece i soggetti espressamente esclusi dal campo di applicazione del decreto medesimo, ovvero lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
L’individuazione degli enti pubblici territoriali è piuttosto agevole: si tratta di quelli previsti dall’art. 114, co. 1, Cost., ovvero lo Stato stesso, le Regioni, le Città metropolitane, le Province e i Comuni, e di quelli ulteriori elencati nell’art. 2, D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), ossia le comunità montane, le comunità isolane, le unioni di comuni e i consorzi fra enti territoriali. (bene)
Più problematica risulta essere l’esatta delimitazione di quali enti possano essere considerati enti pubblici non economici in ragione dell’assenza di una definizione normativa univoca di ente pubblico economico a cui fare riferimento. La dottrina, comunque, sembra ritenere non applicabile la disciplina del D.Lgs. n. 231/2001 a tutti gli enti della Pubblica Amministrazione che costituiscono le articolazioni centrali e periferiche dello Stato e che esercitano il potere pubblico (ad esempio: Ministeri, Prefetture, Tribunali, agenzie), agli enti pubblici associativi (ad esempio: ordini professionali, Comitato Olimpico Nazionale Italiano, Croce Rossa Italiana), agli enti pubblici comunitari (ad esempio: scuole, università, camere di commercio) e agli enti pubblici strumentali (ad esempio: autorità amministrative indipendenti, enti di ricerca, enti culturali, enti previdenziali). Secondo la dottrina maggioritaria sarebbero escluse dal campo di applicazione del D.Lgs. n. 231/2001, anche le Aziende sanitarie locali e quelle ospedaliere.
Infine, per quanto riguarda gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale, gli interpreti sono soliti includervi anche i partiti politici e i sindacati. Passando all’esame di alcune regole fondamentali dettate in riferimento alla responsabilità da reato degli enti (artt. 2, 3 e 4, D.Lgs. n. 231/2001), è agevole osservare come queste siano mutuate dal diritto penale.
Per quanto riguarda il principio di legalità – nelle sue accezioni di riserva relativa di legge, di tassatività, precisione, determinatezza e di irretroattività sfavorevole – stabilito in materia penale dall’art. 7 Cedu, dall’art. 25, co. 2 e 3, Cost., e dagli artt. 1, 2, co. 1, e 199 c.p., esso è riproposto in favore degli enti dall’art. 2, D.Lgs. n. 231/2001, ai sensi del quale l’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto. A dispetto di questo parallelismo con il diritto penale, tuttavia, attenta dottrina evidenzia che l’inderogabilità legislativa del principio della riserva di legge è configurabile solo laddove lo stesso trovi copertura costituzionale: nel caso della responsabilità da reato degli enti, quindi, solo qualora si acceda a quegli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che ne riconoscono la natura penale o per lo meno una natura ibrida (tertium genus), anche se il nostro ordinamento ha previsto, con estrema coerenza, la tipicità per tutti gli illeciti amministrativi e, per ultimo, anche per le sanzioni pecuniarie civili, di recente istituite con l’ultimo decreto di depenalizzazione
In merito alla successione delle leggi nel tempo, ricalcando parzialmente l’art. 2 c.p., l’art. 3, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, dispone che l’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce più reato o in relazione al quale non è più prevista la responsabilità amministrativa dell’ente, e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti giuridici (si noti il parallelismo con l’art. 2, co. 2, c.p.). Questo generico riferimento agli effetti giuridici piuttosto che a quelli penali, dovuto alla natura asseritamente amministrativa della responsabilità da reato degli enti, ha indotto parte della dottrina a domandarsi se anche le obbligazioni civili (quali il risarcimento del danno) vi debbano essere incluse: qualora così fosse, si ritiene che andrebbe comunque tutelata la posizione dei terzi creditori in buona fede e che la suddetta cessazione della condanna sia riferibile solo agli effetti ancora in corso (ossia ai rapporti debitori ancora pendenti al momento dell’abolitio criminis) e non a quelli già esauriti con l’adempimento delle obbligazioni pecuniarie. Precisato ciò, l’art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 231/2001, stabilisce che se la legge del tempo in cui è stato commesso l´illecito e le successive sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli, salvo che sia intervenuta pronuncia irrevocabile (principio della lex mitior: si noti il parallelismo con l’art. 2, co. 4, c.p.). Infine, l’art. 3, co. 3, D.Lgs. n. 231/2001, chiarisce che i precedenti due commi non trovano applicazione se si tratta di leggi eccezionali o temporanee (si noti il parallelismo con l’art. 2, co. 5, c.p.). Per concludere sul punto, si noti che sebbene l’art. 3, D.Lgs. n. 231/2001, taccia in relazione alla decretazione d’urgenza a cui, invece, fa riferimento l’art. 2, co. 6, c.p., in dottrina si ritiene che la relativa disciplina codicistica sia applicabile in via analogica, ovviamente nei limiti indicati dalla Corte Costituzionale in una sentenza del 1981.
Relativamente ai reati-presupposto commessi all’estero, l’art. 4, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, fa espresso rinvio alla disciplina del codice penale, stabilendo che gli enti soggetti alla disciplina del D.Lgs. n. 231/2001, aventi nel territorio dello Stato italiano la loro sede principale, rispondono anche in relazione ai reati-presupposto commessi all’estero, nei casi e alle condizioni previsti dagli artt. 7, 8, 9 e 10 c.p., salvo che nei loro confronti non proceda lo Stato estero del luogo in cui è stato commesso il fatto. La norma contempera, dunque, due esigenze: da un lato, quella di evitare possibili elusioni della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 231/2001 attraverso il compimento all’estero dei reati-presupposto, ipotesi tutt’altro che infrequente sul piano criminologico; dall’altro, quella di impedire la sovrapposizione delle azioni punitive da parte dei diversi Stati, cosa che si potrebbe verificare in special modo quando anche nello Stato estero sia vigente il principio di obbligatorietà dell’azione penale come in Italia. È importante precisare che l’ente, qualora non abbia la propria sede principale nel territorio dello Stato italiano, non potrà essere chiamato a rispondere per il reato-presupposto compiuto a suo vantaggio, mentre all’autore (italiano o straniero) del reato-presupposto potrebbe essere comunque applicabile la legge penale italiana sulla base della disciplina degli artt. 7-10 c.p.. Sul punto, tuttavia, in dottrina è diffusa l’opinione che la norma in esame si riferisca solo ai reati-presupposto commessi integralmente all’estero, con la conseguenza che in tutti gli altri casi potrebbe essere chiamato a rispondere anche l’ente, trovando applicazione la disciplina generale dettata dall’art. 6 c.p., ai sensi del quale un reato si considera commesso nel territorio dello Stato italiano, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione. Coerentemente, in giurisprudenza è diffuso l’orientamento secondo cui potrebbero essere perseguibili in Italia anche gli enti stranieri per reati-presupposto commessi da propri agenti (apicali o subordinati) nel territorio dello Stato italiano, mentre la dottrina è più ondivaga sul punto.
L’art. 4, co. 2, D.Lgs. n. 231/2001, poi, precisa che nei casi in cui la legge prevede che il colpevole sia punito a richiesta del Ministro della giustizia, si procede contro l´ente solo se la richiesta è formulata anche nei confronti di quest´ultimo. La norma sembra essere volta a tenere distinte le posizioni del soggetto agente e dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato-presupposto. Si noti che almeno, con riguardo ai principali reati di corruzione – spesso reati – presupposti alla responsabilità dell’ente – la recente legge denominata Spazzacorrotti ha eliminato in radice il problema prevedendo l’assenza della richiesta del Ministro ( cfr. ultimo comma art. 9 c.p)
Esaminate queste regole fondamentali, è ora possibile soffermare l’attenzione sui criteri di imputazione della responsabilità da reato all’ente, iniziando da quelli che insistono su di un piano oggettivo e che sono indicati dall’art. 5, D.Lgs. n. 231/2001, ovvero: (i) il legame funzionale che deve intercorrere tra l’autore del reato-presupposto e l’ente; (ii) il fatto che il reato-presupposto sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente. (bene) Relativamente al primo criterio oggettivo sub (i), l’art. 5, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, distingue in particolare tra: a) soggetti apicali, ovvero persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell´ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) soggetti subordinati, ovvero persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla precedente lett. a). Come si avrà modo di approfondire nel prosieguo, questa distinzione è molto importante perché risulta strumentale a differenziare i criteri di ascrizione sul piano soggettivo della responsabilità da reato all’ente. Passando a una più attenta disamina dei vari soggetti menzionati nell’art. 5, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, è possibile fare le seguenti osservazioni. I soggetti apicali che svolgono funzioni di rappresentanza per l’ente sono, secondo la dottrina, solo quelli che esercitano tale funzione in via organica, ossia in quanto ricoprenti determinati ruoli nell’organizzazione dell’ente: tipicamente, i suoi amministratori. Invece, i soggetti che rappresentano l’ente in virtù dei relativi poteri loro attribuiti attraverso atti negoziali di procura (generale o speciale) andrebbero ricompresi tra i soggetti subordinati sub b), in quanto la suddetta attribuzione di poteri di rappresentanza implica obblighi di rendicontazione che sarebbero indicativi della sottoposizione alla direzione e al controllo altrui. I soggetti apicali che svolgono funzioni di amministrazione sono ovviamente gli amministratori degli enti e, precisa la dottrina, anche tutti quei soggetti che, seppur variamente denominati, gestiscono e governano comunque l’ente.
Si ritiene che il riferimento ai soggetti apicali che svolgono funzioni di direzione sia rivolto ai direttori generali delle società. Questi ultimi, sebbene siano dei dipendenti della società, sottoposti al potere direttivo dell’organo amministrativo, svolgono comunque compiti di gestione operativa che li porta ad essere distinti dai soggetti subordinati sub b). Da escludere, invece, che anche i sindaci (o altri soggetti ad essi equiparabili) possano essere inclusi tra le persone che esercitano la gestione e il controllo dell’ente. Invero, come evidenziato nella stessa Relazione ministeriale al D.Lgs. n. 231/2001, il potere di gestione e quello di controllo devono concorrere ed essere attribuiti al medesimo soggetto, mettendolo nella condizione di esercitare il proprio dominio sull’ente. Condizione che evidentemente non si realizza nel caso dei sindaci.
Infine, soffermando ora l’attenzione sui soggetti subordinati sub b), è possibile notare come l’art. 5, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, li individui genericamente in coloro che sono sottoposti alla direzione oppure alla vigilanza di uno dei soggetti apicali pocanzi menzionati. Alla luce di ciò, la dottrina è orientata nel senso di includere in tale categoria non solo i dipendenti inquadrati a vario titolo nell’organigramma dell’ente ma anche soggetti esterni a cui sia stato affidato un dato incarico e debbano eseguirlo sotto la direzione e il controllo di soggetti apicali dell’ente, come potrebbe avvenire nel caso di agenti, di promotori, di faccendieri, di intermediari commerciali o di certi tipi di consulenti. Relativamente al secondo criterio di imputazione sul piano oggettivo, di cui sopra sub (ii), l’art. 5, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, stabilisce che l’ente è responsabile solo per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio. Su di un piano oggettivo di imputazione, dunque, perché a un ente possa essere ascritta la responsabilità per uno o più dei reati previsti dagli artt. 24 ss., D.Lgs. n. 231/2001, non è sufficiente che tale reato-presupposto sia stato compiuto da un soggetto funzionalmente legato all’ente ma occorre altresì che egli abbia agito nell’interesse e a vantaggio dell’ente. Fermo restando ciò, in dottrina sono emersi due orientamenti in merito a come dover intendere questa disposizione. Secondo una prima tesi (c.d. tesi monista), maggioritaria in dottrina, il legislatore avrebbe utilizzato i termini “interesse” e “vantaggio” come sinonimi e dunque all’espressione «nel suo interesse o a suo vantaggio» dovrebbe essere dato un senso unitario. Un argomento a sostegno di questa tesi è il dettato dell’art. 5, co. 2, D.Lgs. n. 231/2001, ai sensi del quale l’ente non risponde se gli autori del reato-presupposto hanno agito nell´interesse esclusivo proprio o di terzi. Al ricorrere di quest’ultima circostanza, quindi, la responsabilità per il reato-presupposto non potrebbe essere ascritta all’ente anche nel caso in cui avesse ottenuto comunque un vantaggio dalla commissione di quell’illecito.
Un’altra tesi (c.d. tesi dualista), fatta propria anche dalla giurisprudenza, sostiene, invece, che i termini “interesse” e “vantaggio” abbiano dei significati ben distinti: il primo indicherebbe la direzione finalistica del reato-presupposto, attribuitagli dal suo autore, e sarebbe da valutare ex ante; il secondo si riferirebbe agli effetti conseguiti alla realizzazione del reato-presupposto, indipendentemente dalla sua finalizzazione originaria, e sarebbe da valutare ex post. Argomenti a sostegno di questa seconda tesi sono sia la volontà del legislatore, ricavabile dalla lettura della relazione ministeriale accompagnatoria del D.Lgs. n. 231/2001, che avrebbe inteso i due termini in rapporto alternativo tra loro, sia l’esigenza di attribuire una funzione al criterio del vantaggio, che altrimenti diverrebbe superfluo. In ogni caso, i criteri oggettivi dell’interesse e del vantaggio previsti dall’art. 5, D.Lgs. n. 231/2001, a prescindere dalla tesi alla quale si preferisca aderire, risultano di problematica applicazione laddove l’interprete sia chiamato a valutare l’imputabilità a un ente della responsabilità per reati-presupposto colposi, come quelli previsti dall’art. 25-septies, D.Lgs. n. 231/2001, conseguenti a violazioni delle norme sulla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Non si vede, invero, come un ente possa perseguire il proprio interesse o ottenere un vantaggio attraverso eventi colposi lesivi della vita o dell’integrità fisica delle persone. La giurisprudenza sembra aver risolto questo problema interpretativo assumendo come termine di relazione dell’interesse o del vantaggio non l’evento del reato ma la condotta posta in essere dall’autore del reato-presupposto. In tale prospettiva, la violazione di regole cautelari potrebbe essere strumentale al perseguimento di un interesse dell’ente valutato in termini di risparmio di spesa derivante dal mancato adeguamento dell’organizzazione aziendale agli obblighi cautelari imposti dalla legge. La dottrina maggioritaria sembra condividere questa chiave di lettura, seppur mettendone in evidenza le criticità e auspicando un intervento legislativo in merito, mentre una parte minoritaria la considera frutto di un’interpretazione analogica in malam partem, inammissibile nella materia penale.
Passando ora all’esame dei criteri di imputazione della responsabilità da reato all’ente che insistono su di un piano soggettivo, la colpevolezza dell’ente viene configurata dal legislatore come una sorta di “colpa da mala organizzazione” derivante dall’avere consentito o agevolato le condizioni per la successiva commissione di reati-presupposto dello stesso tipo di quello realizzato. Come anticipato, tuttavia, questa “colpa” si atteggia in modo diverso a seconda che l’autore del reato-presupposto sia un soggetto apicale o un soggetto subordinato dell’ente. Invero, ai sensi dell’art. 6, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, se il reato-presupposto è stato commesso da soggetti in posizione apicale (indicati nell’art. 5, co. 1, lett. a)), D.Lgs. n. 231/2001), l´ente non risponde se prova che: a) l´organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l´osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell´ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell´organismo di cui alla lettera b). Invece, ai sensi dell’art. 7, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, se il reato-presupposto è stato commesso da soggetti subordinati (indicati nell’art. 5, co. 1, lett. b)), l´ente è responsabile se la commissione del reato-presupposto è stata resa possibile dall´inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza. Tuttavia, aggiunge l’art. 7, co. 2, D.Lgs. n. 231/2001, tale inosservanza è esclusa se l´ente, prima della commissione del reato-presupposto, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Dal raffronto tra quanto disposto dall’art. 6, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, e quanto previsto nell’art. 7, co. 1, D.Lgs. n. 231/2001, appare allora evidente come il legislatore abbia ripartito diversamente l’onere probatorio tra l’ente e il pubblico ministero a seconda della posizione rivestita dall’autore del reato-presupposto: se soggetto apicale, spetterà all’ente dare prova di non essere responsabile del reato-presupposto commesso nel suo interesse o a suo vantaggio; al contrario, qualora il soggetto sia un subordinato, sarà il pubblico ministero a dover provare l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza
Nel concludere l’esame delle disposizioni contenute nel Capo I, Sez. I, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, è possibile ricordare, infine, che la responsabilità da reato degli enti è autonoma. Invero, ai sensi dell’art. 8, co. 1, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, la responsabilità da reato dell’ente sussiste anche quando l´autore del reato non è stato identificato o non è imputabile oppure quando il reato-presupposto si estingue per una causa diversa dall´amnistia. Al ricorrere di quest’ultima, invece, il secondo comma dell’art. 8 stabilisce che, salvo che la legge disponga diversamente, non si procede nei confronti dell´ente quando è concessa amnistia per un reato in relazione al quale è prevista la sua responsabilità e l´imputato ha rinunciato alla sua applicazione. In ogni caso, ai sensi del terzo e ultimo comma dell’art. 8, l´ente può rinunciare all´amnistia.
Scrivi un commento
Devi accedere, per commentare.