Con sentenza n. 150, depositata il 12 luglio 2021, la Corte costituzionale, nel confermare l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 e, in via consequenziale, dell’art. 30, comma 4, della legge 6 agosto 1990, n. 223 che, come è noto, prevedono nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a lire centomila, ha contestualmente dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 595, terzo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 21 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 10_ della Convenzione EDU, nonché degli artt. 27, comma terzo, e 25 Cost .
Il giudice remittente aveva ravvisato il contrasto tra le disposizioni censurate e l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai seguenti dati normativi:
- all’art. 10 CEDU in quanto la previsione della pena detentiva doveva ritenersi del tutto sproporzionata al fatto criminoso fatta eccezione per quelle ipotesi, come l’incitamento all’odio razziale, individuate dalla stessa Cedu come l’eccezione alla regola (vedi le sentenze della Corte EDU 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia; 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia; 17 dicembre 2004, Cumpana e Mazare contro Romania)
- agli artt. 3 e 21 Cost., in quanto la previsione di una pena detentiva per i reati di diffamazione a mezzo stampa sarebbe «manifestamente. irragionevole e totalmente sproporzionata rispetto alla libertà di manifestazione di pensiero, anche nella forma del diritto di cronaca giornalistica, fondamentale diritto costituzionalmente garantito dall’art. 21 Cost.
Secondo il rimettente, poi, la comminatoria di una pena detentiva per le condotte di diffamazione a mezzo stampa si porrebbe in contrasto con il principio di offensività, ricavabile dall’art. 25 Cost., «in quanto totalmente sproporzionata, irragionevole e non necessaria rispetto al bene giuridico tutelato dalle norme incriminatrici in questione, ovvero il rispetto della reputazione personale» e vanificherebbero, infine, la funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost., attesa la «inidoneità della minacciata sanzione detentiva a garantire il pieno rispetto della funzione generalpreventiva e specialpreventiva della pena stessa».
La Corte costituzionale ha osservato che la disposizione di cui all’art. 13 della legge 8 febbraio 1948 n. 47 prevede in via cumulativa, la pena della reclusione e della multa, che il giudice è tenuto ad applicare a meno che non sussistano, nel caso concreto, circostanze attenuanti giudicate prevalenti o, almeno, equivalenti all’aggravante in esame. Rileva che proprio l’indefettibilità dell’applicazione della pena detentiva, in tutte le ipotesi nelle quali non sussistano – o non possano essere considerate almeno equivalenti – circostanze attenuanti, rende la disposizione censurata incompatibile con il diritto a manifestare il proprio pensiero, riconosciuto tanto dall’art. 21 Cost., quanto dall’art. 10 Conv. EDU. Sul punto richiama la propria ordinanza n. 132 del 2020, in cui si osservava che una simile necessaria irrogazione della sanzione detentiva (indipendentemente poi dalla possibilità di una sua sospensione condizionale, o di una sua sostituzione con misure alternative alla detenzione rispetto al singolo condannato) è divenuta ormai incompatibile con l’esigenza di «non dissuadere, per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri».
La Corte non ha, tuttavia, escluso che, anche a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge n. 47 del 1948, la diffamazione a mezzo stampa possa essere punita con la reclusione. Ha, infatti, dichiarato infondate le q.l.c. relative al disposto dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., ritenendo che, in ragione del venir meno della disciplina speciale di cui all’art. 13 cit., vede riespandere il proprio ambito applicativo anche alle diffamazioni a mezzo stampa. Ed è proprio grazie a tale previsione normativa – e alla possibilità di applicazione della pena detentiva (alternativa a quella pecuniaria) allorché l’offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico – che il giudice, trovando il punto di equilibrio tra la tutela della reputazione ed il diritto di informare, è legittimato ad applicare la sanzione piu rigorosa. La tutela della reputazione individuale, infatti, può, a. determinate condizioni, escludere l’attrito con gli artt. 21 Cost. e 10 Conv. EDU della previsione della pena detentiva per la diffamazione, rendendo recessiva, nello scrutinio sul trattamento sanzionatorio, la tutela della libertà di espressione dei giornalisti nell’esercizio del diritto di cronaca e di critica.
La reputazione del singolo, infatti, è un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona, suscettibile di essere gravemente compromesso da aggressioni illegittime compiute attraverso la stampa, o attraverso gli altri mezzi di pubblicità cui si riferisce l’art. 595, terzo comma, cod. pen. che impattino sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica del soggetto aggredito.
Nel confronto tra i citati diritti la Corte Costituzionale non ha escluso in assoluto la sanzione detentiva, «sempre che la sua applicazione sia circondata da cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica».
Tali cautele si identificano nell’enucleazione dei casi nei quali le offese portate alla vittima possano qualificarsi come di “eccezionale gravità“, sì che la tutela del soggetto passivo della diffamazione acquisti una preminenza tale da rendere costituzionalmente e convenzionalmente. compatibile la condanna al carcere per il reato di cui all’art. 595 cod .. pen.
La Corte costituzionale ha specificamente menzionato due diverse categorie di offese. La prima, direttamente ispirata alla giurisprudenza della Corte EDU, in parte richiamata nell’ordinanza n. 132 (Corte EDU, Grande Camera, 17 dicembre 2004, Cumpànà e Mazàre contro Romania, § 115; 5 novembre 2020, Balaskas contro Grecia,§ 61; 11 febbraio 2020, Atamanchuk contro Russia,§ 67; 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia,§ 59; 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia,§ 53; 6 dicembre 2007, Katrami contro Grecia, § 39), individua, come meritevoli della pena detentiva, i discorsi d’odio e quelli che istighino alla violenza, quando veicolanti o veicolati da messaggi diffamatori.
La seconda ha ad oggetto ipotesi che attengono alle «campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i socia! media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi». Quando l’attività di informazione conduca a trasmettere informazioni di tal fatta – sostiene la Corte – essa non costituisce il “cane da guardia” della democrazia, ma rappresenta addirittura un pericolo per quest’ultima, potendo finanche incidere, mediante campagne di discredito della persona offesa rispetto all’opinione pubblica, su competizioni elettorali.
Al di fuori di queste ipotesi, da considerarsi veramente eccezionali, la prospettiva carceraria in relazione all’esercizio del diritto di cronaca e di critica giudiziaria deve essere totalmente esclusa per il giornalista, così come per chiunque altro che abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione; resta perciò aperta la possibilità che siano applicate pene diverse dalla reclusione, nonché rimedi e sanzioni civili o disciplinari, in tutte le ordinarie ipotesi in cui la condotta lesiva della reputazione altrui abbia ecceduto dai limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca o di critica.
La Corte non ha mancato di richiamare il legislatore a porre ad avviare una complessiva riforma della disciplina vigente, come già sottolineato con l’ordinanza n. 132 del 2020, allo scopo di «individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica: e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime – e talvolta maliziose – aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività».
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