Ai sensi dell’art. 11, comma primo, prel., “la legge non dispone che per l’avvenire”, essendo precluso qualsivoglia effetto retroattivo della stessa.
È così regolata l’efficacia della legge nel tempo. Ne consegue che “le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori, per dichiarazione espressa del legislatore ovvero per incompatibilità tra le nuove disposizioni e quelle precedenti” (art. 15, comma primo, prel.). In questo modo l’organo legislativo garantisce una piena aderenza del dettato normativo alle esigenze della comunità tenendo conto del fisiologico progresso socio-culturale e tecnologico dell’ordinamento. Il disposto viene reso pubblico ed è cogente erga omnes a far tempo dalla data della pubblicazione in G.U.; ragione per cui solo a decorrere da tale data può esplicare i suoi effetti. (art. 10, comma primo, prel.).
Nella stesura della Carta costituzionale, l’Assemblea ha posto l’articolo 25 Cost. in stretta correlazione con l’articolo 11 prel. testé citato, stabilendo che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Allo stesso modo, all’articolo 7, primo comma, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fa salvo che “nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale”. Per ragioni di completezza, devesi fare menzione dell’articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui “nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale”, nonché dell’articolo 15 del Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici dell’uomo (dalla portata pressoché identica).
È chiaro il rimando alla legislazione in materia penale. Considerata la possibilità concessa a (e solo a) essa di limitare la capacità di autodeterminazione dell’uomo in presenza di condotte antisociali imputabili a lui medesimo, la Costituente ha voluto assicurare, qui più che altrove, che ciò avvenga esclusivamente alla stregua di una regolamentazione certa (o quantomeno conoscibile) e in vigore. In via generale, un soggetto deve (poter) adeguare il proprio agire alle disposizioni vigenti al tempo in cui è capace di intendere e di volere (id est, in vita o almeno imputabile) ed essere messo al corrente (o nella facoltà di apprendere) di quello che la legge vieta o permette al momento di qualunque azione, a maggior ragione se ne può conseguire un trattamento sanzionatorio-detentivo. Si noti bene che “vigente” è sinonimo di “corrente”, susseguendone, quindi, l’inapplicabilità retroattiva di una legge a comportamenti umani anteriori alla sua emanazione perché non conoscibile. Ecco perché il fenomeno della successione delle leggi nel tempo, meglio inquadrabile sotto il profilo del principio di irretroattività della legge, costituisce uno dei corollari essenziali del principio cardine degli ordinamenti moderni, ossia il principio di legalità (art. 25 Cost.). Dal carattere della vigenza di una norma, dunque, dipendono la certezza (rectius, l’apprendimento) del diritto (e del “lecito”) e la libertà degli individui di orientare le loro azioni a seconda di quanto previsto dal legislatore, a prescindere dal fatto che siano sanzionabili o meno. “Conditio sine qua non” è che siano conoscibili. Non può, però, non essere oggetto di approfondimento il già anticipato riferimento dell’articolo 25 della Costituzione alla disciplina penalistica. Nella specie si parla di irretroattività della legge penale; o meglio, di irretroattività della legge penale e retroattività della legge penale in bonam partem, configurandosi nel primo caso la regola generale e nel secondo l’eccezione: non sarà punibile, infatti, (né sarà punibile più) quel comportamento che la legge non prevede come reato in un’epoca successiva alla commissione del fatto (precedentemente incriminato). Cesseranno, altresì, l’esecuzione e gli effetti penali delle relative condanne. Non v’è dubbio che una condanna che poggia le basi su un reato che ha ad oggetto un fatto non rilevante penalmente sarebbe priva di peso giuridico e portata punitiva, ancorché coperta dal giudicato ovvero non divenuta ancora definitiva. Potrà, pertanto, essere oggetto di correzione da parte del giudice dell’esecuzione ex art. 673 c.p.p. quella sentenza che non ha più ragion d’essere a seguito della successione di leggi penali nel tempo in senso più favorevole per il reo. Più precisamente, nel caso di abrogazione della legge penale sulla quale si basa il giudicato (penale), la sentenza viene revocata dal giudice dell’esecuzione penale e ne cessano gli effetti; mentre quella non definitiva dovrà essere riformata nel senso di pervenire all’assoluzione del reo perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Da un punto di vista teorico-formativo, la regola generale è dettata dal primo comma dell’articolo 2 del codice penale, il quale recita, in perfetta coincidenza con l’art. 25 Cost., che “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”. Ciascun individuo deve essere messo nella condizione di distinguere le azioni od omissioni ammesse dall’ordinamento da quelle sanzionate penalmente. L’obiettivo de quo è perseguibile soltanto facendo riferimento a una legge chiara, precisa e, per l’appunto, vigente. Il secondo comma dell’art. 2 c.p. appena citato dispone, inoltre, che “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali”.
Evidente sin da subito è l’intenzione del legislatore (del dopoguerra) di far assurgere il concetto di favor libertatis ad assioma e utilizzarlo come parametro di adeguatezza della produzione legislativa. Senza contare che è principio generale quello secondo cui lex posterior derogat priori. Si aggiunga, infine, che rappresenterebbe senz’altro un paradosso il continuare a punire un soggetto per un fatto che era previsto poco prima dalla legge come reato ma che poi è stato oggetto di depenalizzazione. Il tutto a tutela del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost., dall’osservazione del quale non è certo esentato il giudice una volta adito per l’irrogazione della pena nei confronti dell’imputato. Principio che, vale la pena evidenziarlo ancora una volta, travolge anche il giudicato.
Dottrina e giurisprudenza hanno dovuto compiere, invece, un importante sforzo esegetico con riguardo al quarto comma dell’articolo in esame: “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e quelle posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”. Si parla a tal proposito di successione impropria di leggi penali. Essa si contrappone alla successione propria di cui al comma secondo art. 2 c.p. Se in quest’ultimo caso l’organo deputato alla normazione ha fatto espresso riferimento all’istituto della c.d. abolitio criminis, ossia allo strumento dell’abrogazione di una legge che prevedeva un fatto come reato, nella prima si assiste ad una c.d. abrogatio sine abolitione. Ne discende la “convivenza” di due norme incriminatrici di uno stesso fatto senza che il legislatore si sia pronunciato in merito all’abrogazione di quella meno recente. In un contesto del genere, l’attività interpretativa è stata volta a dirimere quegli inconvenienti che possono presentarsi sul piano pratico-applicativo. Non ha trovato seguito la teoria della “continuità normativa” che faceva leva sull’individuazione del bene giuridico coinvolto in ogni singola fattispecie e conseguenziale applicazione della “disposizione più favorevole al reo” in circostanze di simultaneità. Né è stato avallato il pensiero di chi sosteneva una “doppia punibilità” in concreto del fatto, in base al quale se lo stesso fosse stato riconducibile sia all’ipotesi del comma secondo che all’ipotesi del comma quarto si sarebbe potuto parlare di abrogatio sine abolitione, con applicazione della “disposizione più favorevole al reo”. Altrimenti, ci si sarebbe trovati innanzi ad una abolitio criminis tacita. L’idea che ha trovato accoglimento si fonda sul “principio della continenza”. Ad avviso dei suoi promotori, sussisterebbe sempre un rapporto di specialità tra due norme che concernono (a prima vista) la medesima fattispecie. Il combinato operare del criterio di specialità (lex specialis derogat generali) e dell’assunto “disposizione più favorevole al reo” dovranno fungere da guida. È, poi, dato comune che l’organo giurisdizionale di legittimità eserciti una notevole influenza sui giudici di merito al cospetto di un dubbio ermeneutico da sciogliere. È pacifica la funzione nomofilattica della Suprema Corte di Cassazione, anche laddove la riserva di legge sia assoluta. Con la sentenza n. 230 del 2012, la Corte Costituzionale ha valorizzato tale funzione intendendola nella sua accezione persuasiva, idonea ad indirizzare la decisione dei giudici di primo e di secondo grado, i quali rimangono comunque liberi di discostarsene seppur con adeguata motivazione, potendo, la decisione dei giudici di legittimità essere disattesa da qualunque giudice della Repubblica in assenza del principio dello stare decisis di derivazione anglosassone.
A titolo esemplificativo, appare utile citare il contrasto giurisprudenziale verificatosi tra i giudici di merito e le alte Corti a proposito della fattispecie penale prevista dall’art. 6 comma terzo del l. n. 94 del 15 luglio 2009 modificativa del Testo Unico sull’immigrazione, introdotto con d.lgs. n. 286 del 25 luglio 1998; il disposto originario secondo cui “lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato è punito con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda fino ad euro 2.000”, è stato modificato rispetto al testo previgente, che recitava “lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso o la carta di soggiorno, è punito con l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda fino a lire ottocentomila”. Il contrasto, del quale si discute, è stato originato dal fatto che, secondo quando disposto dalla precedente disposizione, essa poteva trovare applicazione sia agli stranieri in posizione regolare che agli stranieri in posizione irregolare, circostanza, al contrario, esclusa successivamente alla riforma dai giudici di merito i quali avevano, in sede di post- riforma, applicato la norma incriminatrice ai soli stranieri regolari. La questione, giunta all’esame del Giudice delle leggi, si era pertanto sostanziata nel ritenere integrata una fattispecie di abolitio criminis, seppur tacita, ovvero di una semplice rettifica in via interpretativa della precedente disposizione incriminatrice La questione, esaminata dalla Corte Costituzionale, è stata ritenuta rilevante tanto sul piano dogmatico, quanto su quello empirico, dal momento che, applicando l’art. 2 c.p. secondo comma, le accuse mosse agli stranieri irregolari avrebbero dovuto cadere per l’operare della novella del 2009 che fa riferimento ai soli stranieri regolari. Se la Corte costituzionale si è espressa come riportato poc’anzi, i giudici di Cassazione sono giunti ad una soluzione in parte contrastante, ritenendo essersi verificato nel caso in esame una ipotesi di abolitio criminis tacita, nella parte in cui il d.lgs. punisce chi “non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno” e non più chi “non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso”. La congiunzione “ovvero” che precede “il permesso” sarebbe stata sostituita da “e (il permesso)”, dovendosi ricollegare la norma ai soli stranieri regolari che non ottemperano ad un ordine preciso dell’autorità pubblica (e non anche a quelli irregolari) per il semplice fatto che non vi sarebbe alcuna ragione per richiedere ad uno straniero in posizione irregolare il permesso di soggiorno (che non ha mai avuto). Ne consegue che ottemperare all’ordine di esibire il permesso di soggiorno unitamente ai documenti identificativi, oltre che qualificare lo straniero come “regolare”, ne esclude la responsabilità per il reato di clandestinità; va infatti osservato che lo straniero irregolare che non ottemperava all’ordine della consegna del documento di soggiorno poteva, nel passato, essere esente da responsabilità esibendo il documento di riconoscimento, cosa non più possibile oggi laddove i documenti devono essere esibiti tutti e due. E’ pertanto possibile ipotizzare un concorso di responsabilità in entrambi i reati, quello di clandestinità e di mancata esibizione dei documenti richiesti dalla norma penale per gli stranieri irregolari ma ad essi, per il principio della disposizione più favorevole al reo, non potrà applicarsi la nuova norma incriminatrice. Il cuore del problema appare pertanto quello che attiene alla individuazione della disposizione più favorevole al reo. È dubbio se essa dovrà individuarsi in quella che prevedeva l’obbligo di esibizione del documento di riconoscimento e in alternativa del permesso di soggiorno ovvero quella che prevede l’obbligo di esibizione di entrambi di documenti. O, ancora, se, come dedotto dalla Corte Costituzionale, si può parlare di continenza, con la conseguenza per cui nel caso di soggetto irregolare trovato in possesso dei soli documenti di riconoscimento e non del permesso di soggiorno, non sarà configurabile la contravvenzione prevista dall’art. 6, comma terzo del l. n. 94 del 15 luglio 2009 e succ. mod.
L’esempio teste citato mostra l’importanza della necessità di addivenire ad una soluzione condivisa nel caso di successione di legge penale nel tempo. Tale esigenza appare fondamentale con riguardo alle disposizioni in materia di depenalizzazione che hanno fatto “scivolare” fattispecie originariamente previste dal codice penale nella disciplina dell’illecito civile o amministrativo. A titolo esemplificativo, può rammentarsi il combinato disposto tra l’articolo 2 del d.lgs. n. 7 del 15 gennaio 2016, con la rubrica “modifiche al codice penale”, e l’articolo 3 dello stesso decreto, recante la responsabilità civile per gli illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie, laddove è previsto che “i fatti previsti dall’articolo seguente, se dolosi, obbligano, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi stabilita; si osserva la disposizione di cui all’articolo 2947, primo comma, del codice civile”. La norma ha posto seri problemi applicativi di carattere intertemporale con particolare riguardo alle problematiche inerenti la sopravvivenza degli effetti civili rispetto ad una sentenza di condanna revocabile o riformabile per effetto dell’intervenuta depenalizzazione. Sulla questione si sono formati due orientamenti. Nella giurisprudenza di legittimità si è formato un primo indirizzo interpretativo, favorevole al mantenimento, in capo al giudice penale di secondo grado del potere di decidere il ricorso agli effetti civili. Questa giurisprudenza fa leva, in primo luogo, sul testo dell’art. 2, secondo comma, ultima parte, c.p. norma, come si è visto, diretta a disciplinare il fenomeno della abrogazione sopravvenuta a sentenza definitiva di condanna e ritenuta principio-guida laddove statuisce, in caso di abolitio criminis, la cessazione dell’esecuzione di questa e dei relativi effetti penali, desumendosi da tale formulazione, a contrario, che gli eventuali effetti civili non vengono travolti dall’abrogazione. Un secondo argomento è dato dalla evocazione dell’art. 11 prel., che, nello statuire che “la legge non dispone che per l’avvenire” farebbe salvo il diritto acquisito dalla parte civile a vedere esaminata la propria azione già incardinata nel processo penale, fatta eccezione per il caso, non messo in discussione, in cui l’abrogazione sia sopravvenuta alla instaurazione del giudizio di primo grado ma sia antecedente alla pronuncia conclusiva del grado stesso: in tal caso la pronuncia della abrogazione travolgerebbe il diritto pure già esercitato dalla parte civile costituita Alle suddette conclusioni la giurisprudenza in questione è pervenuta sia richiamando l’analogo meccanismo procedurale creato dal coevo d.lgs. n. 8 del 2016, in tema di depenalizzazione, sia proponendo un’applicazione analogica, a tali limitati fini, dell’art. 578 c.p.p. che, in tema di cause di estinzione del reato sopravvenute a sentenza di condanna, attribuisce al giudice della sola impugnazione il potere di decidere agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Il secondo orientamento esclude, invece, che il giudice della impugnazione possa decidere ai fini dei soli capi civili. Secondo questa lettura, l’annullamento della sentenza di condanna per una delle fattispecie criminose abrogate dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, determina la preclusione a decidere in merito ai collegati effetti civili. Le ragioni di tale principio risiedono nella regola generale del collegamento necessario tra condanna e statuizioni civili del giudice penale, nella tassatività della preclusione di deroga contenuta nell’art. 578 c.p.p., nonché nella diversa disciplina sancita dall’art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016 per gli illeciti oggetto di depenalizzazione, non prevista per le ipotesi di abolitio criminis dal d.lgs. n. 7 del 2016, né ad esso applicabile in via analogica. Le S.U. della Corte di Cassazione hanno composto il contrasto appaena esaminato, nel senso che in caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, il giudice della impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Il giudice della esecuzione, viceversa, revoca, con la stessa formula, la sentenza di condanna o il decreto irrevocabili, lasciando ferme le disposizioni e i capi che concernono gli interessi civili. La decisione, oltre a prendere atto della diversa fase temporale processuale in cui è avvenuta la depenalizzazione, da per scontata la tesi secondo cui la norma più favorevole al reo, in caso di depenalizzazione, è l’illecito civile o la sanzione amministrativa che sostituisce l’originaria fattispecie penale, sulla base di una concezione formalistica della gravità del fatto reato rispetto ad altri illeciti. Alla luce, invece, delle molteplici pronunce della Corte di Giustizia in merito alla violazione dell’art. 4, prot. 7, CEDU (c.d. divieto di “ne bis in idem”) da parte degli Stati membri per avere questi ultimi previsto l’applicazione di una sanzione accessoria amministrativa, sostanzialmente penale, ad una fattispecie di reato, configurandosi per l’appunto un’ipotesi di doppia condanna per lo stesso fatto, sembrerebbe quantomeno rischioso affermare a priori che ogni disposizione in materia di depenalizzazione di un reato in favore di una sanzione amministrativa produca effetti più favorevoli per il reo. Adottando, infatti, il criterio interpretativo delle norme penali della Corte UE, che fa leva sul principio di legalità in senso sostanziale, si potrebbe scorgere in alcune sanzioni amministrative un’essenza tipicamente penalistica. Pertanto, sarebbe corretto parlare di successione di leggi penali e non di abolitio criminis. La questione, tuttavia, rileva sotto un profilo squisitamente dottrinario, essendo unanime l’applicazione dell’art. 25 Cost. in senso formale, che fa leva, nel caso di specie, sul nomen iuris della sanzione.
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