La Corte Costituzionale, con sentenza n. 100 del 2020 ( Presidente Cartabia, Redattore Coraggio) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tar per la Liguria in relazione all’onere motivazionale di cui all’art 192, comma 2, del Dlgs 50/2016 ( recante il Codice dei contratti pubblici).
Più nello specifico, il giudice a quo ha sollevato la questione di legittimità costituzionale relativamente alla citata disposizione codicistica in riferimento all’art 76 della Costituzione – ed in relazione all’art 1, comma 1, lettera a) ed eee) della legge 11/2016, recante la delega al Governo per l’attuazione delle direttive del Parlamento europeo e del Consiglio n. 23 e 24 del 26 febbraio 2014 sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure di appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture – nella parte in cui prevede l’onere per le stazioni appaltanti di dare conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, delle ragioni del mancato ricorso al mercato.
Nel disattendere la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tar ligure, la Consulta ha avuto modo di chiarire che “L’art 192, comma 2, codice dei contratti pubblici, nell’imporre, in caso di affidamento in house, un onere motivazionale supplementare circa le ragioni del mancato ricorso al mercato, non si pone in contrasto con il c.d. divieto di gold plating. La ratio del divieto, assurto a criterio direttivo nella legge delega n. 11 del 2016, è quella di impedire l’introduzione, in via legislativa, di oneri amministrativi e tecnici, ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria, che riducano la concorrenza in danno delle imprese e dei cittadini, mentre è evidente che la norma censurata si rivolge all’amministrazione e segue una direttrice proconcorrenziale, in quanto volta ad allargare il ricorso al mercato.
Pertanto, l’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato imposto dall’art 192, co2, risponde agli interessi costituzionalmente tutelati della trasparenza amministrativa e della tutela della concorrenza”.
La questione trae origine dall’affidamento, da parte del Comune di Alassio, del servizio di parcheggio a pagamento ad una propria società in house, che avrebbe dovuto succedere, nella gestione del detto servizio, alla società precedentemente affidataria in esito ad una procedura aperta bandita nel 2011.
Tale società ricorreva dunque al Tar per la Liguria, impugnando la delibera comunale di affidamento del servizio in questione alla società in house del Comune di Alassio, poiché adottata in violazione, tra l’altro, dell’art 192 comma 2 del Dlgs 50/2016 e cioè senza che si fosse dato conto della preferenza per il modello c.d. in house providing rispetto alle altre forme possibili di affidamento. Non erano pertanto state effettuate quelle valutazioni prodromiche rispetto all’affidamento diretto, come prescritto dalla citata norma del Codice dei contratti pubblici, che avessero dato conto dell’impossibilità di affidamento tanto mediante procedura di pubblica evidenza, dunque di ricorso al mercato, quanto dell’affidamento a società mista, che in ogni caso avrebbe dovuto presupporre l’indizione della gara per la scelta del socio privato.
L’adito Tar Liguria, nel sollevare l’incidente di incostituzionalità, rammenta l’ampio dibattito dottrinale e pretorio, relativo all’affidamento in house – che costituisce una modalità di aggiudicazione di un appalto o concessione pubblici a soggetti che, seppur formalmente distinti, sono sottoposti a forme di controllo talmente penetranti da parte di una PA da rappresentarne nella sostanza una mera articolazione organizzativa. Più nello specifico, si tratta di un istituto di origine pretoria, in quanto affermatosi per effetto della giurisprudenza comunitaria, che avrebbe trovato la sua prima codificazione nell’ordinamento UE per effetto della direttiva 24 del 2014, il cui quinto considerando stabilisce che “nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.
Il giudice a quo, peraltro, nel precisare che tale specifica applicazione del principio di autorganizzazione amministrativa risulta ulteriormente corroborato da ulteriori disposizioni delle direttive 23 e 24 del 2014, ritiene che potrebbe definitivamente considerarsi pacifico che l’in house providing non costituisca ipotesi eccezionale di gestione dei servizi pubblici, dunque derogatoria a quella “ordinaria” del ricorso al mercato, previa espletazione di procedure di evidenza pubblica, quanto semmai una modalità di affidamento equiordinata rispetto alla seconda, tale che la scelta per l’una piuttosto che per l’altra sarebbe rimessa alle PP.AA. sulla base di un giudizio di opportunità e convenienza economica.
Parimenti, ad avviso del rimettente, detto principio opererebbe anche nell’o.g. italiano, laddove l’art 34 comma 20 del DL 179/2012, relativo all’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, si esprime in termini affatto dissimili rispetto a quanto di cui sopra.
Conclusivamente il Tar per la Liguria ritiene che la disposizione di cui all’art 192 comma 2 del Dlgs 50/2016, nell’imporre un onere motivazionale a carico delle PP.AA. circa il mancato ricorso al mercato, avrebbe palesemente ecceduto rispetto ai principi e criteri direttivi fissati nella legge delega n. 11/2016, in patente violazione dell’art 76 Cost. ( c.d. eccesso di delega) nella misura in cui l’art 1 di detta legge:
- a) fa espresso divieto di introdurre o mantenere livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come sanciti dall’art 14, commi 24 ter e 24 quater, della legge di semplificazione e riassetto normativo n. 246/2005 ( c.d. divieto di gold plating);
- b) prevede la garanzia di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli affidamenti in house, con previsione dell’obbligo di pubblicazione di tutti gli atti relativi all’affidamento, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all’oggetto ed al valore della prestazione e l’istituzione, da parte dell’ANAC, di un elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house.
La norma sospetta di incostituzionalità risulterebbe violativa di ambedue i criteri direttivi testé menzionati, in quanto:
– con riferimento al criterio sub a), nella misura in cui viene previsto un onere amministrativo di motivazione più gravoso rispetto a quello che sarebbe strettamente necessario per l’attuazione della direttiva 24 del 2014, che ammette il ricorso all’affidamento in house in presenza delle condizioni di cui all’art 12;
– quanto al secondo criterio, la violazione si appalesa nel fatto che nello stesso non è dato rinvenire nessuna base normativa su cui fondare tale obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato, il quale peraltro nulla avrebbe a che vedere con la valutazione della congruità economica delle offerte o con la pubblicità e trasparenza degli affidamenti mediante l’istituzione dell’elenco ANAC degli enti aggiudicatori di affidamenti in house.
Il Giudice delle Leggi, con la pronuncia in esame, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata nei termini sopra descritti, sulla base di plurimi profili.
Anzitutto, ad avviso della Consulta, il c.d. divieto di gold plating – che come noto impedisce l’introduzione ovvero il mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive eurounitarie – pur sancito dalle citate norme nazionali, non costituisce un principio proprio del diritto comunitario, il quale, come è noto, vincola gli Stati membri all’attuazione delle direttive, lasciandoli liberi quanto alla scelta della forma e dei mezzi ritenuti più opportuni in vista del raggiungimento dei risultati stabiliti, salve comunque le norme suscettibili di applicazione diretta.
Di tanto vi è prova in una Comunicazione della Commissione europea dell’8.10.2010, in cui si precisa che il termine gold plating afferisce alla prassi degli Stati membri di legiferare oltre i requisiti imposti dalla legislazione UE in sede di recepimento ovvero di attuazione delle direttive europee, contestualmente ritenendo che il fenomeno delle “regole aggiuntive” debba essere ulteriormente approfondito, lasciando dunque la questione aperta.
Parimenti,la Corte rammenta altresì che il divieto di gold plating è stato introdotto dall’art 15, comma 2, lett. b) della L 183/2011, introduttivo nel corpo dell’art 14 L 246/2005 dei commi 24 bis, ter e quater, i quali approfondiscono a loro volta i vari aspetti del divieto in parola: ebbene, ad avviso della Consulta, proprio dall’analisi di tali disposizioni emerge che la ratio di tale istituto, assurto a criterio direttivo nella legge delega 11 del 2016, è quella di impedire che la legge intervenga a stabilire oneri tecnico – amministrativi ulteriori rispetto a quelli imposti dalla normativa UE che abbiano come effetto quello di sminuire il gioco concorrenziale in danno delle imprese e dei cittadini, mentre appare di solare evidenza come la norma sospetta di incostituzionalità sia rivolta alla sola amministrazione, assecondando una finalità “proconcorrenziale”, nella misura in cui si prefigge di allargare il ricorso al mercato.
Di tanto ne costituisce prova il fatto che tale finalità sia riconosciuta anche dalla Adunanza della commissione speciale del C.d.S., il quale, con parere n. 855 del 1.4.2016 relativo allo schema di Codice dei contratti pubblici ha avuto modo di chiarire come il divieto di gold plating debba essere inteso come riduzione di oneri non necessari, senza che , in merito, possano ritenersi compromesse le garanzie poste a presidio di altri valori costituzionali, quali la tutela della concorrenza e della trasparenza dell’azione amministrativa.
Tale linea interpretativa, prosegue inoltre la Corte, è ulteriormente confermata e corroborata dalla giurisprudenza europea (cfr., sul punto, CGUE sentenza 3 ottobre 2019 ed ordinanza 6 febbraio 2020), ad avviso della quale gli Stati membri, proprio in virtù del principio di autorganizzazione, possono ben adottare una normativa interna che subordini il ricorso all’in house providing all’impossibilità di rivolgersi al mercato, ovvero ancora quando l’affidamento diretto comporti dei maggiori vantaggi per la collettività.
La Consulta rammenta peraltro la propria giurisprudenza ( cfr., ex multis pronunce n. 10 del 2018, n. 59 del 2016, nn.98 e 146 del 2015, n. 119 del 2013), la quale riconosce al legislatore delegato ampi margini di discrezionalità e la necessità di tener conto del quadro normativo di riferimento, soprattutto quando la delega concerna settori di disciplina ovvero ambiti normativi organici e complessi.
Tali statuizioni di principio risultano ancor più importanti se si tiene presente che il Codice dei contratti pubblici si prefigge anche di perseguire la finalità della razionalizzazione della disciplina di settore, che nel tempo è andata stratificandosi: è noto infatti, come la norma delegata sia espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento in house che è ormai costante da oltre dieci anni ( a partire, cioé, dal DL 112/2008) e rappresenta un tentativo di arginare l’abuso di tale modello organizzativo da parte delle PP.AA. nazionali e locali, come peraltro segnalato a più riprese dalla stessa ANAC.
Infine, la Corte Costituzionale, prima di dichiarare la infondatezza della questione di legittimità costituzionale sottopostale, richiama due delle sue più importanti pronunce (325/2010 e 46/2013) con le quali ha in passato affrontato questioni analoghe a quella odierna, affermando che “tale maggior rigore non si pone in contrasto,…, con la citata normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri.
E’ infatti innegabile l’esistenza di un margine di apprezzamento del legislatore nazionale rispetto a principi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza nel mercato e per il mercato”. L’affidamento in house, dunque, “…costituisce un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica”.
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