Al fine di analizzare la regola della compensatio lucri cum damno, pare opportuno premettere qualche cenno sulla funzione assolta dal risarcimento del danno.
All’interno del nostro ordinamento giuridico, infatti, la funzione svolta risarcimento del danno può essere definita come eminentemente – ma, come si vedrà, non esclusivamente – compensativo-riparatoria.
In effetti, il risarcimento del danno è un tecnica di tutela che permette la traslazione di un costo: il costo sopportato dal soggetto danneggiato viene traslato, in base ad un criterio normativo di responsabilità, al soggetto danneggiante.
Segnatamente, l’art. 2056 c.c., infatti, rinvia agli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c. per la valutazione del risarcimento che spetta al danneggiato nel caso di fatto illecito.
In particolare, le norme richiamate, pur essendo dettate in tema di danno risarcibile a seguito di inadempimento delle obbligazioni, sono applicabili, giusto il rinvio operato dall’art. 2056, anche al risarcimento dovuto per fatto illecito.
In particolare, l’art. 1223 c.c. prevede che il danno risarcibile debba coprire tanto il danno emergente, ossia il danno che consiste nell’effettiva perdita subita a causa dell’inadempimento contrattuale o del fatto illecito, nonché del lucro cessante, ossia il mancato guadagno derivato dagli stessi fatti.
Nella seconda parte della norma, poi, si enuncia il principio della causalità, in ragione del quale il danno risarcibile è solo quello che consiste nella conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento ovvero del fatto illecito; ad ogni modo, più recentemente la giurisprudenza ha adottato una concezione più estensiva sino a ricomprendere nel danno risarcibile ogni conseguenza, non anche immediata e diretta, ma che si pone come conseguenza “normale” dell’inadempimento alla luce del principio della regolarità causale.
L’art. 1226 c.c., poi, dispone in tema di valutazione equitativa del danno, qualora lo stesso non possa oggettivamente essere provato nel suo preciso ammontare.
Infine, l’art. 1227 c.c. disciplina le ipotesi del fatto colposo del creditore o del danneggiato.
Alla luce, dunque, di tale impianto normativo, si possono dedurre tanto il principio della integralità, quanto quello della indifferenza O equivalenza del risarcimento del danno.
Se, da un lato, il primo principio indica la necessità che il risarcimento vada a reintegrare del tutto la lesione subita dal creditore o dal danneggiato, il principio di indifferenza sta ad indicare che la situazione post factum del creditore/danneggiato deve essere identica a quella che caratterizzava la fase ante factum, quindi prima che si verificasse il danno o l’inadempimento.
In altre parole, il principio di indifferenza censura ogni arricchimento o indebita locupletazione per il creditore/danneggiato in seguito al verificarsi dell’inadempimento/danno.
Fermo quanto appena esposto, non può comunque negarsi che, in varie disposizioni sono rinvenibili esempi di risarcimento del danno che, accanto alla funzione tipica compensativo-restitutoria, connubiano una funzione sanzionatoria, ovvero deterrente o, addirittura, punitiva.
In particolare, si è fatta strada recentemente in giurisprudenza una corrente che ammette che il risarcimento del danno, accanto alla tipica funzione compensativo-restitutoria, possa espletare altresì un’ulteriore funzione, ad esempio sanzionatoria ovvero deterrente.
Si è passati, dunque, da una concezione che riconosceva carattere monofunzionale al risarcimento del danno, ad una concezione che tende a riconoscere carattere polifunzionale al risarcimento del danno.
Alcuni esempi del carattere sanzionatorio rivestito da certe norme in tema di risarcimento del danno sono, in tema di proprietà industriale, gli artt. 124, comma 2 e 131, comma 2, del D. lgs. 30/2005; in tema di consumatore, l’art. 140, comma 7 del D. lgs. 206/2005 (Codice del consumo) e nel codice di procedura civile, l’art. 96, comma 3.
Dato conto dell’evoluzione che si è registrata in giurisprudenza circa la funzione talvolta non esclusivamente compensativo-riparatoria affidata al risarcimento del danno, ci si è chiesti se, nei casi in un cui da un medesimo fatto dannoso, oltre al danno, derivino anche vantaggi, se questi ultimi debbano essere tenuti in considerazione e compensati nella liquidazione del danno.
Ebbene, ecco che viene in esame la figura, assai discussa sia in dottrina che in giurisprudenza, della compensatio lucri cum damno.
Sebbene non vi sia traccia nel Codice civile di tale istituto, della regola della compensatio lucri cum damno si trova traccia nella dottrina pandettistica tedesca che, a sua volta, riferisce di fonti romanistiche che ne danno conto.
Ebbene, si parla di compensatio lucri cum damno per riferirsi a quella regola che prevede che, qualora da un fatto illecito, oltre ai danni, occorrano altresì vantaggi nella sfera giuridica del danneggiato, di tali vantaggi si debba tenere conto in sede di risarcimento del danno.
In assenza di alcun referente normativo all’interno del sistema codicistico, la dottrina e la giurisprudenza, per lungo tempo, hanno escluso l’operatività nel nostro ordinamento di tale istituto.
Risultando, infatti, esplicitamente affermato dall’art. 1223 c.c. sul principio di indifferenza-equivalenza del risarcimento, la tesi richiamata sostiene che non occorra la compensatio lucri cum damno per affermare il principio secondo cui, nella determinazione del risarcimento del danno, a seguito di fatto illecito, debba tenersi in considerazione tanto delle conseguenze in malam partem quanto di quelle in bonam partem, dovendosi per l’appunto evitare ogni locupletazione indebita a favore del danneggiato.
La tesi oggi largamente dominante, invece, sostiene che la compensatio lucri cum damno sia un istituto del tutto operante nel nostro ordinamento giuridico e che trovi la propria fonte proprio nell’art. 1223 c.c., ma occorre distinguere a seconda che il beneficio collaterale debba essere corrisposto da un medesimo soggetto-danneggiante ovvero da un altro soggetto obbligato.
Non sorgono particolari problemi, infatti, quando i benefici collaterali derivano direttamente dalla stessa fonte (o dallo stesso titolo) da cui è occorso il fatto illecito e che obbligano lo stesso soggetto-danneggiante.
In tali casi, infatti, occorre defalcare dalle poste negative da liquidare, quelle positive che, appunto, sono derivate dallo stesso titolo. Ciò in ragione del fatto che, dal lato del danneggiato, egli conseguirebbe un arricchimento rispetto alla situazione quo ante, dal lato del danneggiante, in quando in capo allo stesso si vedrebbe duplicare obbligazione risarcitoria.
E’ il caso, ad esempio, dell’indennizzo che il Ministero della Salute è tenuto a corrispondere al danneggiato a causa di emotrasfusione con sangue infetto (L. 210/1992): in tale evenienza, se la regola della compensatio non operasse nei casi di unicità del soggetto danneggiante obbligato, il Ministero della Salute sarebbe tenuto, oltre che al risarcimento del danno, anche alla corresponsione dell’indennità prevista dalla legge, con la conseguenza che si verificherebbe un arricchimento in capo al danneggiato ed una duplicazione di conseguenze risarcitorie in capo al danneggiante.
Quando, invece, il vantaggio acquisito al patrimonio del danneggiato in connessione con il fatto illecito derivi da un titolo diverso o, più in generale, vi siano due soggetti distinti obbligati al risarcimento e/o indennizzo in base a titoli diversi, la regola della compensatio non si ritiene debba sempre operare.
In altre parole, nei casi in cui il fatto illecito è il presupposto per il sorgere di un diritto ad indennità ovvero ad altri emolumenti di carattere previdenziale, assistenziale, lavorativo, assicurativo o sociale, il defalco delle poste positive dal risarcimento non è, infatti, automatico.
Sul punto si sono espresse di recente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali hanno chiarito che è necessario indagare la funzione svolta e la natura del beneficio collaterale: se il beneficio, infatti, svolge una funzione diversa da quella meramente riparatorio-compensativa – funzione tipicamente svolta dal risarcimento del danno – allora il primo non andrà defalcato dal risarcimento vero e proprio.
E’ il caso, a mero titolo esemplificativo e non esaustivo, della pensione di reversibilità e del risarcimento del danno da morte del coniuge derivante dalla circolazione di veicoli.
La pensione di reversibilità, infatti, ha una funzione che potrebbe essere definita “premiale” e che deriva dall’opera lavorativa prestata da un soggetto negli anni; se anche essa viene corrisposta a partire dall’evento morte, stesso evento che origina il risarcimento del danno, ciò avviene a prescindere dal fatto che la morte sia derivata per cause naturali o a causa del fatto illecito.
Non avendo, pertanto, una funzione riparatorio-compensativa, la pensione di reversibilità potrà certamente cumularsi con il risarcimento del danno per lesione parentale derivante, appunto, dalla morte del coniuge.
Al contrario, invece, qualora si tratti di indennizzo assicurativo derivante da un contratto di assicurazione contro i danni, se il danneggiato abbia ottenuto la liquidazione dell’indennizzo assicurativo, tale ammontare dovrà essere defalcato dal risarcimento del danno ancora da liquidarsi.
Infatti, la finalità cui è preposto l’indennizzo assicurativo è quello di neutralizzare il danno subito dal danneggiato. E tale funzione risulta essere la stessa cui è preposto il risarcimento del danno, per cui si realizzerebbe una indebita duplicazione delle poste risarcite con arricchimento ingiustificato del danneggiato.
In tali casi, tra l’altro, l’assicuratore, ai sensi dell’art. 1916 c.c., che ha liquidato l’indennità, risulterà surrogato fino alla concorrenza dell’ammontare liquidato nei diritti del danneggiato nei confronti dell’autore del fatto illecito.
Ebbene, potremmo dire, dunque, che, nei casi di incertezza, occorre riferirsi alla funzione di cui il beneficio collaterale si rivela essere espressione; in altre parole, per comprendere se è opportuno defalcare o cumulare i benefici derivanti da un medesimo evento (che è, anche, evento dannoso), occorre analizzare la ragione giustificatrice dell’attribuzione patrimoniale.
Del resto, tale impostazione è la stessa che risulta essere alla base dei Principles of European tort law (c.d. PETL) che prevedono, all’art. 10:103, rubricato “vantaggi derivanti dall’evento dannoso”, che i vantaggi ottenuti dal danneggiato a causa dell’evento dannoso devono essere presi in considerazione “salvo che ciò non sia conciliabile con lo scopo dei vantaggi”.
Scrivi un commento
Devi accedere, per commentare.