L’espressione «quasi contratto» è stata impiegata per individuare quegli istituti diretti a soddisfare l’esigenza di disciplinare gli effetti derivanti da situazioni in cui manca l’accordo delle parti. Nel diritto romano classico nel novero dei quasi contratti erano inclusi la condicio indebiti, che consentiva il recupero dei beni consegnati in esecuzione di un contratto invalido e che costituisce l’archetipo dell’attuale ripetizione dell’indebito di cui all’art. 2033 c.c.; la negotiorum gestio modellata sulla base del mandato e che consentiva un’estensione della relativa disciplina anche ai casi in cui mancava un incarico da parte del dominus e che costituisce l’archetipo dell’attuale gestione di affari altrui ex artt. 2028 ss. c.c. ed, infine, l’actio de in rem verso che consentiva di agire direttamente contro il pater familias che avesse tratto profitto dal negozio concluso da un membro della famiglia nei limiti dell’effettivo arricchimento e da cui deriva l’attuale rimedio dell’arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c.
Il codice del 1865, riproducendo le Istituzioni di Giustiniano, ricomprendeva i quasi contratti, senza includervi l’arricchimento senza causa, tra le fonti delle obbligazioni, mentre l’attuale codice li ha espunti dalle fonti delle obbligazioni sostituendoli, invece, con la clausola generale “altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico”. A tale clausola si riconducono gli istituti che traggono origine dai quasi contratti, ossia la gestione di affari altrui, la ripetizione dell’indebito e l’arricchimento senza causa, i quali fanno parte della più ampia categoria delle obbligazioni da fatto lecito, fonti di un obbligo restitutorio indennitario.
Per quanto concerne, in particolare, l’arricchimento senza giusta causa, il codice civile del 1942, in ossequio al brocardo «nemo locupletari potest cum aliena iactura» ne ha sancito espressamente il divieto all’art. 2041 c.c. Tale disposizione rappresenta una norma di chiusura del sistema nel senso che ogni spostamento patrimoniale non giustificato e non sanzionato dall’altra norma ricade nell’ambito di applicazione dell’art. 2041 c.c. e comporta l’obbligo restitutorio, cui corrisponde un diritto esercitabile attraverso l’azione di arricchimento senza causa. Si tratta, quindi, di un rimedio generale, sussidiario e residuale, esperibile in assenza di rimedi specifici.
I presupposti per la proponibilità dell’azione di cui all’articolo 2041 c.c. sono l’arricchimento; l’impoverimento; la correlazione tra impoverimento e arricchimento; l’assenza di una giusta causa e la sussidiarietà dell’azione.
Per quanto riguarda l’arricchimento la giurisprudenza aderisce ad una nozione oggettiva che postula l’effettivo e valutabile incremento patrimoniale e un risparmio di spesa a cui risponda un danno inteso come oggettiva perdita patrimoniale. In altre parole si deve trattare di un vantaggio suscettibile di valutazione economica cui commisurare l’obbligo di indennizzo. Non rientra nel concetto di impoverimento, invece, il mancato guadagno.
L’arricchimento senza causa può derivare dalla condotta del danneggiato, quando la prestazione viene eseguita al di fuori di un rapporto anche solo astrattamente solutorio, ovvero può derivare dalla condotta dell’arricchito. In quest’ultimo caso l’arricchimento è stato ottenuto mediante un fatto lesivo della sfera giuridica altrui in quanto l’arricchito ha causato un danno ingiusto. Si tratta di una fattispecie analoga alla responsabilità aquiliana ma che se ne differenzia sotto molteplici profili tra cui elemento soggettivo, la funzione e il regime prescrizionale.
La responsabilità extracontrattuale, da cui sorge un’obbligazione risarcitoria, deriva, infatti, da un fatto colposo o doloso, come espressamente previsto dall’art. 2043 c.c., l’arricchimento senza causa, invece, si basa su un fatto commesso in buona fede, intesa in senso soggettivo, cioè in assenza della consapevolezza di ledere un diritto altrui, ed è fonte di un’obbligazione restitutoria nei limiti dell’arricchimento effettivamente conseguito.
La funzione dei due istituti, infatti, è completamente differente. Nella responsabilità aquiliana, la quale risponde alla logica del neminem laedere, il risarcimento del danno ha una funzione preminentemente riparatoria in quanto, secondo una prospettiva vittimologia, è diretto a ristorare integralmente il danneggiato del pregiudizio cagionato dall’autore dell’illecito. L’arricchimento senza causa, diversamente, svolge una funzione indennitaria nel senso che il danneggiato è tenuto indenne delle conseguenze del fatto del danneggiante nei limiti dell’arricchimento, poiché l’obbligazione indennitaria prescinde dalla prospettiva vittimologica e risponde al principio di equità. In altre parole la responsabilità aquiliana deriva da un fatto non iure e produce un danno contra ius, mentre l’arricchimento senza causa deriva da un fatto iure, ossia consentito dall’ordinamento, ma produce un danno contra ius che necessita di essere indennizzato. L’obbligazione indennitaria derivante dall’art. 2041, infatti, è un’obbligazione ex lege derivante da un fatto lecito.
Nel codice civile sono numerose le ipotesi di responsabilità derivanti da fatto lecito ma dannoso come ad es. l’art. 843, co. 2 e 3, c.c. per l’accesso al fondo del vicino; gli artt. 924 e 925 c.c. per l’inseguimento dello sciame di api e di animali nel fondo altrui; l’art. 1328 c.c. nel caso di revoca della proposta; gli artt. 1038 c.c. e 1053 c.c. in tema di servitù; gli artt. 1671 e 2227 c.c. per il caso di recesso dal contratto di appalto e dal contratto d’opera; l’art. 2582 c.c. per il caso di ritiro dell’opera dal commercio e, infine, l’art. 834, co. 1, c.c. nel caso di espropriazione per pubblica utilità.
Ulteriore differenza tra la responsabilità aquiliana e l’azione di arricchimento senza causa risiede nel regime prescrizionale che, nel primo caso, è di cinque anni mentre nel secondo è decennale.
Ciò posto in merito alle caratteristiche generali dell’arricchimento senza causa, occorre soffermarsi sulla configurabilità dell’arricchimento indiretto e imposto.
La tesi tradizionale, formatasi durante la vigenza del codice del 1865, riteneva esperibile l’azione di arricchimento senza causa anche nell’ipotesi di arricchimento indiretto ossia quando l’esecuzione di una prestazione in favore di un soggetto determina l’arricchimento di un terzo. Successivamente con revirement giurisprudenziale, avallato anche dalle Sezioni Unite, si è stabilito che l’art. 2041 c.c. postula la sussistenza di un nesso di causalità tra l’arricchimento di un soggetto e il corrispondente depauperamento patrimoniale di un altro soggetto e che tanto l’arricchimento quanto la diminuzione devono dipendere da un fatto unico. Se, infatti, l’ingiustificato arricchimento è determinato da una successione di fatti distinti che hanno inciso in modo indipendente su due soggetti diversi, il depauperamento del soggetto terzo non è l’effetto dell’arricchimento e, quindi, viene meno il presupposto dell’azione di cui all’art. 2041 c.c.
La regola generale dell’unicità del fatto costitutivo e della conseguente non esperibilità dell’azione di cui all’art. 2041 c.c. nel caso di arricchimento indiretto, presenta, tuttavia, due eccezioni.
In primo luogo è ammessa l’azione di arricchimento senza causa nel caso di arricchimento del terzo derivante da un’alienazione a titolo gratuito. In tale ipotesi l’ammissibilità dell’azione di cui all’art.2041 c.c. deriva dall’applicazione analogica dell’art. 2038 c.c. rubricato «alienazione della cosa ricevuta indebitamente». Tale disposizione prevede espressamente che “nel caso di alienazione a titolo gratuito, il terzo acquirente è obbligato nei limiti dell’arricchimento” mentre non prevede eguale obbligo nel caso di alienazione a titolo oneroso. L’arricchimento indiretto in cui la prestazione indebitamente ricevuta dal terzo sia stata eseguita in virtù di un atto a titolo gratuito comporta, quindi, l’esperibilità, da parte del danneggiato, dell’azione di cui all’art. 2041 c.c.
L’art. 2038 c.c., quindi, rappresenta il fondamento normativo di fattispecie di arricchimento mediante intermediario, in cui eccezionalmente può esperirsi l’azione di arricchimento senza causa, coerentemente con la funzione equitativa perché, in questi casi, l’esigenza ridistribuiva giustifica la tutela del danneggiato rispetto alla posizione di vantaggio ottenuto dal terzo a titolo gratuito. Tale azione, invece, non è esperibile nel caso di arricchimento indiretto derivante da alienazione a titolo oneroso al terzo in buona fede.
La seconda eccezione all’impossibilità di esperire azione ex articolo 2041 nel caso di arricchimento indiretto è costituito dal c.d. arricchimento imposto che si verifica, a titolo esemplificativo, nel caso di arricchimento senza causa della pubblica amministrazione. Tale tipologia di arricchimento si configura quando l’ente che beneficia della prestazione dell’impoverito è diverso da quella che ha determinato l’impoverimento.
L’arricchimento senza causa della pubblica amministrazione presenta dei caratteri di specialità sia per la natura pubblica del soggetto sia per la rigidità delle norme sull’azione amministrativa ispirate al principio di legalità e volte al perseguimento del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. La specialità di tale figura aveva indotto, in passato, la giurisprudenza a richiedere la prova non solo del fatto materiale dell’esecuzione dell’opera di una prestazione vantaggiosa per l’interesse pubblico, ma anche il riconoscimento dell’utilità dell’opera della prestazione da parte della p.a. La ratio della tesi in esame era quella di scongiurare che l’amministrazione potesse essere chiamata a rispondere ex art. 2041 c.c. dell’iniziative arbitrarie assunte al di fuori degli organi amministrativi responsabili della spesa e per tutelare il buon andamento della pubblica amministrazione.
Tale tesi, tuttavia, è stata fortemente coricata in quanto altamente depenalizzante per il depauperato e, per tale ragione, è stata superata dalle Sezioni Unite. In una pronuncia del 2015, infatti, si è affermato che il principio generale di cui all’art. 2041 c.c. trova applicazione anche nei confronti del soggetto pubblico, in maniera analoga a quanto avviene per il privato e, pertanto, il riconoscimento dell’utilità non costituisce requisito ulteriore per l’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento. Ne consegue che il privato deve provare il fatto oggettivo dell’arricchimento e l’amministrazione può opporre e dimostrare che esso non fu voluto o inconsapevole, ossia un arricchimento imposto, e non può eccepire il mancato riconoscimento dello stesso e quindi la sua inutilità. L’istituto dell’arricchimento ingiustificato, infatti, è ispirato ad una logica oggettiva e prescinde da ogni valutazione soggettiva relativa all’utilità.
Il superamento della tesi che richiedeva l’ulteriore presupposto dell’utilità è coerente con una lettura costituzionalmente orientata idonea ad assicurare la piena tutela del diritto di agire in giudizio contro la p.a. ex artt. 24 e 133 Cost.
La cognizione in ordine all’arricchimento senza causa spetta al giudice ordinario dal momento che l’istituto dell’art. 2041 c.c. dà luogo ad una situazione di diritto soggettivo anche quando la controparte è la pubblica amministrazione. La natura pubblica del soggetto, infatti, non è idonea a fondare una riserva di discrezionalità nel riconoscimento dell’utilità dell’arricchimento in quanto esso è un fatto oggettivo. Tale ricostruzione ermeneutica è altresì coerente con il principio di legalità, di buon andamento e con la tutela effettiva del soggetto leso.
In ultima analisi, occorre prendere in considerazione la natura sussidiaria dell’azione di arricchimento ingiustificato arricchimento e valutare, dal punto di vista processuale, la proponibilità della domanda di indennizzo successivamente all’instaurazione di un giudizio di adempimento contrattuale.
L’articolo 2042 c.c. ribadisce il carattere sussidiario delle azioni prevedendo espressamente che “l’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito”.
Come detto, si tratta di un rimedio sussidiario e residuale esperibile solo quando il titolo dello spostamento patrimoniale è del tutto assente, anche in astratto, ovvero nel caso in cui manchi, in concreto, il titolo in quanto invalido e l’azione di ripetizione dell’indebito ex artt. 2033 e ss. c.c. non è esperibile a casa della natura irripetibile della prestazione eseguita.
Una delle modalità attraverso la quale proporre domanda di indennizzo ex art. 2041 c.c. successivamente all’instaurazione di un giudizio di adempimento contrattuale potrebbe essere quella derivante dalle memorie ex art. 183 co. 6 c.p.c.
E’ sì vero che la domanda giudiziale e relativo petitum e causa pretendi costituiscono il limite oggettivo dell’operato del giudice il quale deve statuire nei limiti della domanda ed esclusivamente relativamente all’oggetto di quest’ultima, in applicazione del principio della domanda e di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c., ma è anche vero che i limiti oggettivi della domanda giudiziale non sono circoscritti al contenuto dell’atto introduttivo del giudizio ma sono quelli precisati nelle conclusioni definitive, dopo la chiusura dell’istruzione. Il giudice, infatti, al fine di determinare l’oggetto della controversia, deve tenere conto di tutte le modifiche e trasformazioni che hanno eventualmente subito le conclusioni formulate nell’atto introduttivo. Fermo il divieto di domande nuove, il «chiesto» a cui fa riferimento l’art. 112 c.p.c. si può ritenere definito solo dopo che siano esaurite le attività di precisazione e modifica delle domande ed eccezioni proposte di cui all’art. 183, co.6, c.p.c. Tale disposizione prevede, tra le altre, che le parti possano “precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate”. Precisare modificare, c.d. emendatio, non vuol dire modificare totalmente la domanda, c.d. mutatio, nè formulare domande nuove, ma soltanto rettificare la portata della domanda che riguarda il medesimo petitum e causa pretendi.
La differenza tra emendatio e mutatio libelli ha una portata decisiva in quanto segna il confine tra attività, ammessa e lecita, di precisazione e modificazioni, e attività, vietata, di mutamento delle della stessa violativa del principio del contraddittorio ex art. 101 c.p.c.
In passato la giurisprudenza interpretava in maniera rigida tale distinzione ritenendo integrata mutatio libelli tutte le volte in cui si avanzava una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria introducendo un petitum più ampio o differente e una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima.
Sulla base di questa rigida interpretazione è evidente che qualora si domandava in giudizio l’adempimento di un contatto non si poteva, attraverso le memorie ex art. 183 c.p.c., chiedere l’ingiustificato arricchimento in quanto sarebbe venuta in rilievo una domanda diversa in violazione del divieto di mutatio.
Nel 2015, tuttavia, le Sezioni Unite sono intervenute tracciando in maniera innovativa il confine tra mutatio ed emendatio libelli ampliando notevolmente i margini di ammissibilità dell’emendatio che, ad oggi, è possibile purché la domanda, così modificata, risulti comunque connessa alla vicenda dedotta in giudizio; non comprometta le potenzialità difensive della controparte e non violi il principio della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost.
In conclusione, sulla base delle mutate coordinate giurisprudenziali, si può affermare che il ricorrente, potrebbe proporre, per mezzo dell’articolo 183 co. 6 n. 1 c.p.c., l’azione ex art. 2041 c.c., all’interno del giudizio di adempimento contrattuale, in quanto, se il rispettoso dei canoni ermeneutici delineati dalle Sezioni Unite, ciò non comporta mutatio libelli e non viola il disposto di cui all’art. 2042 c.c.
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