Molto si è parlato sulla stampa nei mesi scorsi di ergastolo ostativo e della sentenza Cedu resa sul tema in data 13 giugno 2019 inerente il caso Viola cui ha seguito a ruota, a fine ottobre 2019, la notizia di una sentenza della Corte Costituzionale circa la dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario a proposito di concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata.
Le motivazioni della sentenza sono state depositate in data 4.12.2019, quasi in concomitanza con altra decisione della Corte Costituzionale attinente l’illegittimità dell’interpretazione della medesima norma (l’art. 4-bis, comma 1, della L. 26 luglio 1975, n. 354) nel caso in cui essa trovi applicazione ai condannati per reati di corruzione commessi anteriormente all’entrata in vigore della Legge n. 3 del 2019. L’art 1 della suddetta legge ha infatti qualificato gran parte di tali reati – considerati di particolare gravità e di elevato allarme sociale – come reati ostativi alla concessione delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della L. n. 354 del 1975 e della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale oltre che oggetto di divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale.
Nel primo caso, la Corte – pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici remittenti – ha sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici penitenziari). In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.
La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dalla Corte di Cassazione in ossequio ai principi dell’art. 3 della CEDU e dell’art. 27 della Costituzione dal momento che espone, “la preclusione assoluta stabilita dalla norma censurata” e si porrebbe “in contrasto con la funzione rieducativa della pena costituzionalmente garantita“, sia perché impedirebbe “il raggiungimento delle finalità riabilitative proprie del trattamento penitenziario“, sia perché sarebbe “disarmonica rispetto ai principi affermati dall’art. 3 CEDU”.
La medesima censura era stata sollevata innanzi alla Consulta e, quindi riunita a quella già esposta, dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, il quale, decidendo sul reclamo di un detenuto condannato alla pena dell’ergastolo per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e per vari delitti di “contesto mafioso”, al quale il magistrato di sorveglianza aveva negato la concessione di un permesso premio in assenza di collaborazione con la giustizia, aveva dubitato che l’obbligo di collaborare con la giustizia per poter accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario (e, in particolare, ai permessi premio) fosse compatibile con gli artt. 3 e 27 Cost., a prescindere dal tipo di reato commesso dal detenuto.
Anche in questo caso, il Tribunale di sorveglianza remittente ha osservato come la preclusione assoluta alla concessione di un beneficio penitenziario, in assenza di una condotta collaborativa, collida con i principi costituzionali deducibili dagli artt. 3 e 27 Cost., poiché impedirebbe il vaglio di elementi che, in concreto, potrebbero condurre ugualmente a un giudizio, individualizzato e attualizzato, di cessata pericolosità sociale. Ha in particolare osservato, richiamando un precedente della medesima Consulta, che non si comprende per quale motivo sia precluso al giudice di sorveglianza, chiamato a verificare l’evoluzione del detenuto, di verificare, in concreto, “le ragioni che hanno indotto l’interessato a non collaborare, cioè a mantenere il silenzio“, evocato non quale mero atteggiamento, ma nel suo significato di diritto inviolabile a non accusare sé stesso. Non senza ritenere, in ulteriore aggiunta, come la finalità rieducativa della pena sarebbe vanificata dall’impossibilità di ottenere permessi premio, i quali costituiscono “uno strumento fondamentale per consentire al condannato di progredire nel senso di responsabilità e di capacità di gestirsi nella legalità, e al magistrato di sorveglianza di vagliare i progressi trattamentali compiuti e la capacità di reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto sociale”
Infine il Tribunale di sorveglianza remittente ha sottolineato la peculiarità dell’esecuzione penale rispetto a quella cautelare: mentre quest’ultima potrebbe tollerare qualche presunzione, l’altra, invece, imporrebbe una valutazione costante dell’evoluzione della persona del condannato, che tenga conto del trascorrere del tempo e della distanza dal reato commesso.
La Corte, esaminando entrambe le questioni, le ha ritenute fondate e ha censurato l’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario “nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti” dichiarando la norma in questione anticostituzionale sotto questo specifico profilo.
E’ interessante notare come la Consulta ha tenuto a ribadire, nelle motivazioni della sentenza, come la censura sollevata dalla Corte di Cassazione di contrasto della norma di cui all’art. 4 bis ord.pen. alle norme CEDU non sia stata fatta propria dalla stessa nell’ordinanza di rimessione. Ne consegue, secondo la Corte Costituzionale che a) “non possono essere presi in considerazione ulteriori profili di illegittimità costituzionale dedotti dalle parti oltre i limiti dell’ordinanza di rimessione” e che : b) alla questione di legittimità costituzionale oggetto di decisione rimangono estranee argomentazioni attinenti all’ergastolo ostativo dal momento che “le questioni di legittimità costituzionale attengono, invece, non alla condizione di chi ha subito una condanna a una determinata pena, bensì a quella di colui che ha subito condanna (all’ergastolo, in entrambi i giudizi a quibus) per reati cosiddetti ostativi, in specie i delitti di associazione di tipo mafioso ai sensi dell’art. 416-bis cod. pen., e quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste”. Il che sta a dire che la questione esaminata dalla Consulta non attiene al tipo di pena cui è stato condannato il soggetto richiedente il beneficio penitenziario (nello specifico il permesso premio) ma l’ostatività dei reati per i quali è stato condannato.
Così definito l’oggetto del giudizio, la Corte ha fatte proprie le censure dei giudici remittenti ritenendo illegittima la presunzione assoluta della mancata rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata nel caso di non collaborazione, pur chiarendo che essa non è da considerarsi automatica perché “è lo stesso detenuto, scegliendo di collaborare, a poter spezzare la consequenzialità della disposizione censurata” . Ha in sostanza ritenuto che non è la presunzione in se stessa a ritenersi illegittima dovendosi ritenere non irragionevole la persistenza dei legami con la criminalità organizzata ove non sia stata espressa una scelta collaborativa. Ciò che è invece da ritenersi illegittima è la preclusione a fornire la prova contraria che può essere desunta dalla prova dell’ emenda.
La seconda sentenza della Corte Costituzionale sopra citata si pone sul medesimo solco teorico, quello attinente alla previsione ostativa della norma di cui all’art. 4 ord. Pen. La decisione affronta però un tema diverso, e segnatamente il principio di irretroattività della norma più sfavorevole in tema di misure alternative alla detenzione, precluse, per effetto della modifica legislativa del 2019 (denominata comunemente Spazzacorrotti) ai condannati per reati di corruzione. Alcune delle undici ordinanze di rimessione sono state sollevate da più Tribunali di sorveglianza investiti di istanze di concessione di benefici o misure alternative alla detenzione (permesso premio, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare) I predetti giudici hanno in particolare richiesto la pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della L. 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici) nella parte in cui non prevede che le modifiche da essa apportate all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario si applichino soltanto ai condannati per fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della L. n. 3 Del 2019. Le restanti ordinanze sono state invece redatte da giudici dell’esecuzione in relazione all’omessa sospensione dell’esecuzione della pena da parte del Procuratore della Repubblica ex art. 656 c.p.p. sulla base della considerazione che, trattandosi di norma processuale, essa doveva ritenersi governata dal principio tempus regit actum
La Corte ha quindi affrontato la natura giuridica della normativa in questione che è pacificamente ritenuta di natura processuale anche dai giudici remittenti. La Consulta ha in proposito osservato che il diritto vivente ritiene, a ragione, che, di regola, le norme disciplinanti l’esecuzione della pena siano in radice sottratte al divieto di applicazione retroattiva in base principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost trattandosi di norme processuali che non attengono alla natura della pena e che, ove applicate in via differenziata rispetto alla data del commesso reato, comporterebbero una tale varietà di trattamenti penitenziari da indurre gravi antinomie all’interno del pianeta carcere. E tuttavia, una “complessiva rimeditazione della tematica” induce a ritenere che debbano essere ricomprese nel divieto di applicazione retroattiva quelle norme di esecuzione della pena che comportino una trasformazione tale da modificare la natura stessa della pena e la sua incidenza sulla libertà personale. In queste ipotesi, secondo la Consulta, “l’applicazione retroattiva di una tale legge è incompatibile con l’art. 25, secondo comma, Cost.”
Infatti in casi siffatti, la successione normativa determina “l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto per essere stata prevista una pena “suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere” divenuta poi – per effetto della modifica normativa più sfavorevole – eseguibile “dentro” il carcere. La Corte osserva che “ Tra il “fuori” e il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa….E ciò vale anche laddove la differenza tra il “fuori” e il “dentro” si apprezzi in esito a valutazioni prognostiche relative, rispettivamente, al tipo di pena che era ragionevole attendersi al momento della commissione del fatto, sulla base della legislazione allora vigente, e quella che è invece ragionevole attendersi sulla base del mutato quadro normativo”
Non possiamo che concordare con quanto appena osservato dalla Corte Costituzionale. E’ evidente infatti che, ai fini del principio di prevedibilità, il soggetto agente deve essere posto in condizione, al momento della commissione del fatto, di sapere non solo quanta pena potrebbe essergli irrogata ove si determinasse a commettere il fatto reto poi ascrittogli ma anche se essa potrà o non potrà essere scontata fuori dal carcere previo accesso alle misure alternative alla detenzione; il principio in questione impone infatti che si evitino situazioni tali da permettere l’applicazione di un trattamento sanzionatorio più severo rispetto a quello in vigore al momento della scelta criminale.
Ciò appare tanto più vero ove si consideri ciò che accade nella pratica corrente allorchè (quasi) tutti coloro che vengono raggiunti da sentenza definitiva per reati di corruzione provengono dalla libertà per essere stati scarcerati in corso di processo. Residuando poi, di norma, nei loro confronti pene inferiori ai tre anni di reclusione prima dell’entrata in vigore della legge Spazzacorrotti, era pertanto prassi corrente attendersi la sospensione dell’esecuzione della pena da parte della Procura della Repubblica competente e transitare cosi nella misura alternativa senza passare per il regime detentivo. Prassi non più esperibile a partire dall’entrata in vigore della legge cd. Spazzacorrotti che ha escluso l’applicabilità in radice di ogni misura alternativa così precludendo a coloro che hanno commesso ii reati di corruzione successivamente all’entrata in vigore della legge ogni possibilità di espiazione della pena irrogabile fuori dal carcere. Deterrente fortissimo, da applicarsi – a fortiori – con tutte le garanzie di legge e quindi nel più rigoroso rispetto del principio di legalità e del conseguente principio di irretroattività della legge più sfavorevole.
Scrivi un commento
Devi accedere, per commentare.