Prima di esaminare le questioni sottese al reato di diffamazione commesso per via telematica e, in particolare, alle ipotesi di punibilità (o di non punibilità) ed ai criteri di individuazione del cd. locus commissi delicti (anche ai fini della individuazione del giudice competente) è necessario definire brevemente i limiti spaziali della norma penale con particolare riferimento alla fattispecie delittuosa in esame.
Il territorio dello Stato costituisce il limite tendenziale di efficacia nello spazio della legge penale nazionale (cd. principio di territorialità), come è dato evincere dall’art. 3 c.p. (la legge italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato) e dall’art. 6 c.p., che prevede l’irrogazione delle pene previste dalla legge italiana per chiunque commetta un reato nel territorio dello Stato come individuato dall’art. 4 co. 2 c.p.
Deroghe al principio di territorialità sono previste, per determinate tipologie di reati (cd. delitti contro la personalità dello Stato) commessi all’estero, secondo quanto disposto dall’art. 7 del c.p. e per i delitti politici ex art. art. 8 c.p. che, dopo aver statuito ai suoi primi due commi che è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministero della Giustizia (con l’aggiunta della querela della persona offesa ove si tratti di delitto perseguibile a querela), il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero un delitto politico non compreso fra quelli indicati nel numero 1 dell’art. 7 c.p., prevede al comma 3 che agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato (vale a dire, il regolare funzionamento del suo assetto istituzionale) o un interesse politico del cittadino (ovvero il diritto che il cittadino ha di partecipare immediatamente e attivamente alla vita dello Stato, ricoprendo eventuali uffici o funzioni pubbliche, il diritto elettorale, etc.) fungendo, così, da norma di chiusura.
In chiave ulteriormente derogatoria rispetto al principio di territorialità, si segnalano poi alcune categorie di reati che, anche se commesse all’estero, sono sottoposte alla legge penale italiana; è il caso, ad esempio, delle ipotesi criminose di cui agli artt. 9 e 10 c.p. e delle norme contro la pedofilia, di cui all’ art. 10 della legge 269/98 -emanata dall’Italia in attuazione della Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo- che ha modificato l’art. 604 c.p.
L’efficacia ultraterritoriale della legge italiana, in tali casi, viene subordinata sostanzialmente alla presenza del cittadino nel territorio dello Stato, da valutare con riferimento al momento dell’esercizio dell’azione penale.
Quanto all’individuazione del luogo di commissione del reato, l’art. 6 c.p. prevede che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero ivi si è verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione.
In virtù di tale norma, è quindi possibile valorizzare, ai fini dell’individuazione del luogo del delitto, quello in cui si è verificata la condotta dell’illecito, oppure l’evento, o ancora, secondo la cd. teoria dell’ubiquità, una qualsiasi porzione materiale della fattispecie criminosa.
Tale teoria giunge dunque ad attrarre nella sfera di efficacia della legge penale italiana anche i c.d. reati di transito, allorché nello Stato italiano si verifichi una mera fazione intermedia di tenue rilevanza (si pensi alla spedizione di un pacco esplosivo proveniente da uno Stato estero verso altro Stato, che passi tuttavia per l’Italia).
L’unico limite di tale teoria si riscontra nei casi in cui nel territorio italiano abbia a verificarsi un mero presupposto della condotta, una mera circostanza aggravante non attinente alla condotta o all’evento, o una condizione obbiettiva di punibilità.
La categoria di reati per i quali l’individuazione del locus commissi delicti si presenta maggiormente problematica, è quella dei cd. reati informatici in relazione ai quali sono irrilevanti i profili geografici ed è praticamente impossibile individuare esattamente ed immediatamente il luogo dal quale un’informazione viene veicolata in rete.
All’interno di questa categoria di reati, la diffamazione per via telematica ha destato, negli ultimi anni, particolare interesse da parte di dottrina e giurisprudenza, sia in considerazione della importanza degli interessi coinvolti, relativi alla tutela di diritti di rilevanza costituzionale (come, ad esempio, quello di cronaca e quello alla reputazione) e delle conseguenti ipotesi di punibilità, sia proprio in ragione delle problematiche afferenti la corretta individuazione del locus commissi delicti.
In generale, il reato di diffamazione previsto e punito dall’articolo 595 del codice penale, consiste nel fatto di chi, comunicando con più persone, offende la reputazione di una persona non presente.
La diffamazione risulta dunque inquadrata tra i delitti contro l’onore e l’oggetto giuridico di tale delitto è la reputazione, intesa come la stima di cui l’individuo gode nel proprio ambiente sociale e professionale.
Pertanto si può affermare che, nel delitto di diffamazione, viene protetto l’onore in senso oggettivo, visto come la stima che la persona offesa riscuote presso gli altri membri della comunità, mentre l’onore in senso soggettivo, inteso come opinione o sentimento che un soggetto ha delle proprie qualità personali, trova tutela nel delitto di ingiuria ex art. 594 c.p.
L’elemento materiale nel reato di diffamazione, richiede: l‘assenza dell‘offeso; l‘offesa all‘altrui reputazione; la comunicazione a più persone.
Quindi, la diffamazione si distingue ulteriormente dall’ingiuria perché solo per l’art. 594 c.p. la presenza dell’offeso, all’atto della realizzazione della condotta, è elemento costituivo della fattispecie.
La fattispecie delittuosa in esame (ovvero l’offesa all’altrui reputazione nella comunicazione con più persone), come detto, deve essere necessariamente contemperata con il dettato costituzionale, in species con l’art. 21 della Carta, il quale attribuisce a ciascuno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero in assenza di censura.
In tale contesto si inseriscono, ai fini della (non) punibilità, le scriminanti del diritto di cronaca e del diritto di critica riconducibili alla causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p.
La giurisprudenza ha individuato tre condizioni sulla base delle quali l’esercizio del diritto di cronaca può avere efficacia scriminante rispetto al reato di diffamazione: verità, pertinenza e continenza.
La notizia, dunque, deve essere vera, per cui i fatti narrati devono corrispondere fedelmente ai fatti accaduti (non essendo sufficiente la verosimiglianza degli stessi), deve rivestire interesse per l’opinione pubblica -per cui restano fuori dall’ambito della pertinenza le notizie relative alla vita privata che ledano il diritto alla privacy e, in generale, i diritti ricavabili dagli artt. 2,3,14 e 15 Cost. e 8 CEDU- e deve essere riportata correttamente evitando l’utilizzo di espressioni offensive gratuite.
È altresì consentito anche esprimere una manifestazione di pensiero critica nei confronti delle affermazioni o condotte altrui purchè si rispetti il limite della rilevanza sociale dell’argomento e della correttezza delle espressioni adoperate.
Da ultimo, sempre ai fini della punibilità, è opportuno richiamare l’art. 599, comma 2, c.p, che prevede che non può essere punito colui che con la sua condotta ha commesso alcuno dei fatti previsti dall’art. 595 c.p, che si trovasse nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso.
La giurisprudenza, in merito al reato di diffamazione, ha chiarito che, che per il riconoscimento dell’esimente in questione, non è necessario che la reazione avvenga nello stesso momento in cui sia ricevuta l’offesa, essendo sufficiente che essa abbia luogo finché duri lo stato d’ira suscitato dal fatto provocatorio.
Nessuna rilevanza è riconosciuta al tempo trascorso, ove il ritardo nella reazione sia dipeso unicamente dalla natura e dalle esigenze proprie degli strumenti adoperati per ritorcere l’offesa.
La Cassazione ha anche chiarito che l’ “immediatezza” della reazione debba essere intesa in senso relativo, tenendo conto della situazione concreta e delle di reazione, in modo da non esigere una contemporaneità che finirebbe per limitare la sfera di applicazione dell’esimente in questione.
Pertanto, affinché si ritenga sussistente l’esimente di provocazione è sufficiente che l’azione reattiva sia condotta a termine persistendo l’accecamento dello stato d’ira provocato dal fatto ingiusto altrui e che tra l’insorgere della reazione e tale fatto sussista una reale contiguità temporale, senza che occorra che la reazione si esaurisca in una reazione istantanea.
Sempre ai fini della punibiltà, invece, il terzo comma, dell’art. 595, c.p., prevede un’aggravante con previsione di autonoma misura di pena, per l’ipotesi in cui l’offesa sia veicolata attraverso “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa e, pertanto, anche tramite internet.
Il diritto alla reputazione, infatti, è tra i diritti della personalità più facilmente aggredibili mediante la diffusione di notizie false o diffamatorie ai danni di un soggetto, sia attraverso la stampa che attraverso il mezzo di internet, che consente una capillare e rapidissima diffusione in ogni angolo del mondo dei contenuti in esso pubblicati.
Per tale motivo la dottrina e la giurisprudenza si sono domandate se si potesse direttamente richiamare, anche in ipotesi di diffamazione on line, la normativa sulla stampa e sulle trasmissioni radio-televisive. Un primo orientamento è stato di segno negativo ed è scaturito dall’insormontabile divieto di analogia in malam partem vigente in materia penale.
Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, un primo ostacolo sarebbe rinvenibile proprio dalla definizione, espressamente dichiarata dalla giurisprudenza dominante insuscettibile di interpretazione estensiva, data dallo stesso art. 1, l . n.° 47 del 1948, che fa riferimento a tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici; appare evidente l’incompatibilità della suddetta definizione con le modalità di diffusione delle pubblicazioni a mezzo internet, che avvengono attraverso la collocazione di dati ed informazioni trasmessi per via telematica, tramite l’utilizzo della rete telefonica al server di un cosiddetto provider o webmaster, accessibile a migliaia di utenti contemporaneamente, presso il quale le informazioni restano a disposizione nei diversi siti in modo tale che ciascun interessato può leggerle e conservarle mediante il proprio computer.
Il citato orientamento giurisprudenziale poteva, del resto, giovarsi del conforto di autorevole dottrina la quale, sin dagli albori della vexata quaestio, aveva coerentemente evidenziato come, pur essendo innegabile che la nozione di comunicazioni telematiche includa un’attività di stampa, essa sia da considerare meramente eventuale e qualora abbia luogo era in ogni caso il soggetto utente a decidere se stampare e cosa stampare, riproducendo l’intero documento o solo parte di esso; peraltro, non si può ignorare come esistano anche comunicazioni telematiche insuscettibili di tale operazione, quali i messaggi audio o video.
Tuttavia, la giurisprudenza più recente ha sposato un’interpretazione estensiva del concetto di stampa di cui alla L. 8 febbraio 1948, n. 47, articolo 1, in linea con la evoluzione degli attuali mezzi di informazione.
In particolare, si è ritenuto applicabile al direttore di testata giornalistica telematica l’art. 57 c.p. che, come noto, configura una responsabilità di natura colposa, a carico del direttore o del vicedirettore responsabile del periodico che ometta di esercitare il controllo necessario ad impedire che, attraverso la pubblicazione on line, siano commessi reati.
Le Sezioni Unite, a tal fine, avevano già chiarito, nel 2015, che il giornale telematico, sia se riproduzione di quello cartaceo, sia se autonoma fonte di informazione, soggiace alla normativa sulla stampa, in quanto pienamente assimilabile alla pubblicazione cartacea.
Pertanto la S.C. ha successivamente evidenziato come l’adesione al contrario orientamento della giurisprudenza di legittimità, che esclude la responsabilità del direttore di un periodico on line per il reato di omesso controllo ex articolo 57 c.p., principalmente per l’impossibilità di ricomprendere detta attività on line nel concetto di stampa periodica, determinerebbe un irragionevole trattamento differenziato dell’informazione giornalistica veicolata su carta rispetto a quella diffusa in rete, in violazione dell’art. 3 Cost.
La peculiarità del mezzo informatico utilizzato per configurare la condotta diffamatoria determina, inoltre, anche una serie di problematiche in relazione alla giurisdizione ed alla competenza territoriale propedeutiche per l’individuazione del giudice competente sia in sede penale ma anche in sede civile.
In particolare, con riferimento alla questione del locus commissi delicti, è evidente che, per individuare la giurisdizione del giudice nazionale, nessuna difficoltà insorge in ipotesi di reato commesso agendo dall’Italia in collegamento con un server parimenti installato in Italia, essendo il fatto interamente commesso nel territorio italiano e, conseguentemente, punibile alla stregua del principio generale di territorialità.
Analogamente, se l’agente opera in e dall’Italia su un server installato all’estero, sussiste la giurisdizione italiana ex art. 6, comma 2, c.p., alla stregua del quale il reato si considera compiuto in Italia. La problematica si presenta, invece, in relazione ai casi in cui l’agente operi all’estero, e all’estero sia pure collocato il server al quale egli accede, ed il messaggio sia ricevuto, oltre che nel resto del mondo, anche in Italia.
In un primo momento, le pronunce dei giudici di merito in materia di diffamazione avvenuta a mezzo internet per tramite di server allocato all’estero, sono state concordi nel ravvisare il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana mentre invece, parte della dottrina, era giunta a conclusioni opposte ritenendo che il reato (ma non il danno) si perfezionava nel momento in cui il messaggio, diffuso sul sito, veniva percepito da una pluralità di persone che a detto sito accedevano; allorquando la percezione del contenuto offensivo dei messaggi fosse avvenuta in Italia, il reato doveva essere considerato come commesso sul territorio italiano, alla luce del disposto dell’art. 6 c.p. e del c.d. principio d’ubiquità.
Tale ultimo orientamento, autorevolmente avallato dalla Suprema Corte, considera la diffamazione come un reato di evento, inteso come avvenimento esterno all’agente sebbene collegato al comportamento di costui, consistente nella percezione da parte dei terzi dell’espressione offensiva; la percezione, conseguentemente, non è un elemento costitutivo della condotta, non essendo in alcun modo ascrivibile all’agente, pur se si configura come una conseguenza del suo operato.
In virtù di quanto innanzi esposto, il momento consumativo del reato de quo non è quello della diffusione del messaggio offensivo, bensì quello della percezione dello stesso da parte di soggetti che siano «terzi» rispetto all’agente e alla persona offesa con la conseguenza che, una volta che il messaggio lesivo sia stato percepito anche sul territorio nazionale, si radica la giurisdizione del giudice italiano, al di là di dove il documento informatico sia stato confezionato e diramato in rete.
Ai fini poi della determinazione della competenza territoriale, tenuto conto della accessibilità della rete da qualunque parte del territorio nazionale, occorre dunque verificare dove concretamente la persona offesa ha reperito il sito diffamatorio.
A tal fine si ritiene operante la presunzione per cui si ritiene che la consultazione del sito offensivo sia percepita nel luogo di residenza, domicilio o dimora della vittima ove, pertanto, si radicherà la competenza territoriale ai fini della proposizione della querela ed anche della eventuale azione risarcitoria per responsabilità extracontrattuale, in sede civile.
De iure condendo sarebbe auspicabile un intervento del legislatore che, in aderenza alla più recente giurisprudenza di legittimità, faccia rientrare nell’alveo dell’art. 13 L. n. 47/1948 anche le comunicazioni offensive diffuse sul web tramite giornali on-line al fine di sanzionare con maggiore gravità condotte che di fatto sono integralmente equiparabili alla stampa tradizionale e ciò anche allo scopo di disciplinare uno strumento che, come dimostrano le recenti cronache, è in grado di indirizzare i gusti, gli umori e finanche il voto degli utenti spesso attraverso l’utilizzo scientifico ed incontrollato delle cd. “fake news”.
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