Il principio di legalità costituisce la pietra miliare dell’intero ordinamento giuridico italiano. Esso postula che il potere di produrre regole giuridiche, ovvero divieti e comandi, debba trovare fondamento in una norma di legge che ne attribuisca la titolarità ad un soggetto, disciplinando contenuti e modalità di esercizio.
Il fondamento costituzionale del principio di legalità si ricava implicitamente da numerose norme costituzionali, ad esempio l’art. 97, 24 e 113 Cost., che lo presuppongono e lo delimitano anche con riguardo alla funzione giurisdizionale che, com’è noto, trova il suo limite nella soggezione alla legge e a nient’altro.
A livello di legge ordinaria, invece, l’art. 1 L. 241/90, sancisce che l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge. A livello europeo, benché non trovi esplicito richiamo, trova riconoscimento indiretto agli artt. 19 TUE e 262 TFUE; inoltre, la giurisprudenza europea lo inserisce tra i principi appartenenti alle tradizioni comuni a tutti gli stati membri dell’UE.
Il principio di legalità può essere visto sotto un duplice aspetto, di legalità garanzia e di legalità indirizzo. Nella prima accezione, costituisce la suprema guarentigia nei confronti della libertà del cittadino, la cui situazione giuridico soggettiva non può essere incisa arbitrariamente dal potere amministrativo; nella seconda, la funzione è quella di indirizzare l’esercizio del potere al perseguimento dei fini espressi nella norma di riferimento.
La distinzione che si suole operare è quella tra legalità formale, ovvero in senso debole, e legalità sostanziale, o in senso forte. Il principio di legalità si ritiene soddisfatto in senso formale allorché il precetto venga impartito da un’Autorità che sia, secondo legge, legittimata ad esplicare tale potere. Pertanto, ritenuta sufficiente la mera indicazione nella norma del soggetto titolare del potere, resterebbero privi di disciplina i contenuti, i limiti, nonché le modalità di esercizio del potere. Di contro, per la legalità intesa in senso c.d. sostanziale, la legge non solo deve attribuire il potere ma anche regolarlo, stabilendo con sufficiente precisione la disciplina materiale. Infatti, risulta indispensabile l’indicazione dell’autorità competente, dei destinatari dell’atto, del tipo di potere, discrezionale o vincolato, dei presupposti, dei limiti e del risultato da raggiungere.
Nel nostro ordinamento la funzione legislativa spetta in via ordinaria al Parlamento; eccezionalmente è attribuita ad altri organi e, in particolare, al Governo a cui è demandata anche la potestà normativa regolamentare o c.d. secondaria. La norma di riferimento che garantisce fondamento costituzionale al regolamento è l’art. 87 Cost. che attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di promulgare le leggi e gli atti aventi forza di legge e di emanare i regolamenti. Inoltre, occorre ricordare che la legge costituzionale 3/2001 ha introdotto il principio del c.d. parallelismo tra competenza legislativa e competenza regolamentare dello Stato; infatti, ai sensi dell’art.117, comma 6, lo Stato è titolare di un potere regolamentare esclusivamente nelle materie che l’art. 117 Cost. affida alla sua competenza esclusiva. Nelle altre materie, in via residuale, la potestà regolamentare spetta alle regioni.
La disciplina generale di rango ordinario è prevista all’art.17 della L.400/88 che individua, come si vedrà, cinque tipologie di regolamenti governativi: esecutivi, attuativi-integrativi, indipendenti, di organizzazione, delegati o autorizzati. L’art.1 delle disposizioni preliminari al codice civile, invece, sancisce il principio di gerarchia delle fonti e pone i regolamenti tra le fonti del diritto dopo la legge. Il rapporto di gerarchia tra la legge, fonte primaria, e il regolamento, fonte secondaria, è dettato all’art. 4 delle Preleggi in cui si prevede espressamente che i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni di legge. Ne consegue che il regolamento non può derogare alla fonte superiore e che, essendo per eccellenza espressione del potere esecutivo, contiene disposizioni normative settoriali o di organizzazione. Il principale dato differenziale tra legge e regolamento risiede nella natura tipica delle fonti primarie rispetto all’atipicità che contraddistingue i regolamenti. Il regolamento è considerato un atto normativo dalla natura ibrida in quanto, da un lato, è atto soggettivamente o formalmente amministrativo, perché adottato dal Governo, dall’altro, invece, oggettivamente o sostanzialmente normativo, perché dotato dei tre caratteri tipici degli atti normativi, ovvero la generalità, l’astrattezza e l’innovatività. L’atto è generale quando è idoneo ad essere applicato ad una sfera indeterminata di soggetti; è astratto quando è suscettibile di indefinita ripetibilità in relazione ad un numero indeterminato di fattispecie; è innovativo quando ha la forza di innovare l’ordinamento giuridico.
L’elencazione dei tratti distintivi del regolamento è utile al fine di rimarcare le differenze, ontologiche e di regime, rispetto agli atti amministrativi generali che, nonostante si presentino come generali, sono privi di carattere normativo e sono espressione di mera potestà amministrativa funzionale alla cura concreta di interessi pubblici. Tralasciando in questa sede il dibattito dottrinale e la trattazione circa le differenze di disciplina che interessano le due tipologie di atti, pare sufficiente chiarire che per l’orientamento oggi prevalente il discrimen tra regolamento e atto amministrativo generale passa attraverso i tre elementi essenziali della generalità, dell’astrattezza e dell’innovatività. Infatti, il Consiglio di Stato, al fine di distinguere tra regolamento e atto amministrativo generale, alla luce della generalità e dell’astrattezza, valorizza il requisito dell’indeterminabilità dei destinatari, sostenendo che l’atto normativo è quello in cui i destinatari sono indeterminabili sia a priori che a posteriori, mentre l’atto amministrativo generale, ad esempio un bando di gara, ha destinatari indeterminabili a priori ma certamente determinabili a posteriori, perché destinato a regolare non una serie indeterminata di casi ma un caso particolare o una vicenda determinata, esaurita la quale vengono meno i suoi effetti.
Al fine di valorizzare le caratteristiche peculiari dei regolamenti indipendenti, occorre seppur brevemente, fare un cenno alle altre tipologie di regolamento prima accennate. I regolamenti esecutivi sono deputati a porre norme di dettaglio, al fine di dare concreta applicazione ad una legge. Si caratterizzano per contenere specificazioni aggiuntive sulle fattispecie interessate dalla legge, precisazioni circa termini, adempimenti e procedure da rispettare. I regolamenti per l’attuazione e l’integrazione sono adottati nelle materie non coperte da riserva assoluta di legge nel caso in cui una legge definisca solo norme di principio, al fine di garantire una migliore applicazione della legge e far fronte a lacune e incompletezze. I regolamenti di organizzazione disciplinano l’organizzazione e il funzionamento della pubblica amministrazione secondo le disposizioni dettate dalla legge. L’art. 97 Cost., in materia di organizzazione, prevede una riserva relativa di legge e pertanto la disciplina dell’assetto generale è posta dalla legge. Infine, i regolamenti delegati realizzano la c.d. delegificazione e cioè, nelle materie non coperte da riserva assoluta di legge, sostituiscono la disciplina dettata da una fonte primaria con la disciplina posta da una fonte secondaria. Infatti, la loro entrata in vigore determina l’abrogazione delle norme dettate dalla fonte primaria.
I regolamenti indipendenti, invece, sono adottati autonomamente dal Governo per regolamentare materie che non sono disciplinate da una fonte primaria, ovvero intervengono in assenza di legge. Per tale ragione si pone la questione della loro ammissibilità, oltre che della loro compatibilità col principio di legalità nei confronti del quale sembrano porsi in rotta di collisione. La problematica sollevata non può che essere risolta alla luce delle concezioni attraverso le quali va interpretato il principio di legalità, quella formale e quella sostanziale. La scelta tra le due concezioni non è indifferente perché l’adesione all’una o all’altra dimensione della legalità incide sulla compatibilità o meno dei regolamenti indipendenti col nostro sistema. I sostenitori della tesi della legalità intesa in senso formale, valorizzano il disposto di cui all’art. 17 lett. c) della legge 400/88, che enuncerebbe una sorta di clausola autorizzatoria generale sufficiente ad attribuire al Governo il potere di emanare regolamenti indipendenti nel rispetto del principio di legalità. L’art.17 lett. c), infatti, cristallizza la caratteristica essenziale che differenzia un regolamento indipendente da tutti gli altri, ovvero, l’assenza di una legge; ed inoltre, la limitazione dell’operatività alle sole materie non soggette a riserva di legge sarebbe idonea a garantire la piena compatibilità col principio di legalità. Di contro, per i fautori della legalità in senso sostanziale, il regolamento indipendente non è ammissibile in assenza di una legge che lo autorizzi e che disciplini la materia. La necessità di una legge che espressamente conferisca il potere al Governo trova la propria ratio nel controllo giurisdizionale del regolamento. La norma di legge offrirebbe il parametro oggettivo ai fini del sindacato del giudice sui regolamenti, alla luce dei confini tracciati dalla norma attributiva del potere, onde evitare intollerabili abusi da parte dell’esecutivo. La critica alla suddetta tesi è stata mossa da coloro i quali rammentano che l’espressa autorizzazione e l’organica disciplina materiale contenuta nella legge, porterebbe a negare l’autonomia dei regolamenti indipendenti facendoli coincidere sostanzialmente con i regolamenti esecutivi o di attuazione. Alla tesi formale e a quella sostanziale si oppone la tesi c.d. mediana, che costituisce l’orientamento prevalente. Quest’ultima postula che i regolamenti debbano essere autorizzati da una legge specifica ma esclude che la legge detti anche una disciplina compiuta. Rispetto alla teoria formale la teoria mediana non reputa sufficiente un’autorizzazione generica, di cui all’art. 17 lett. c), ma sostiene l’indispensabilità di un’autorizzazione specifica; di contro, rispetto alla teoria sostanziale esclude la necessità di una specifica disciplina della materia.
La mancanza di una legge che attribuisca il potere, infatti, conduce a determinate conseguenze giuridiche. Per alcuni, l’atto regolamentare adottato in mancanza di una legge che ne costituisca il fondamento sarebbe inficiato da nullità per carenza di potere; per altri, invece, sarebbe illegittimo perché adottato in violazione di legge o per incompetenza. Pertanto, dall’analisi effettuata non può che ribadirsi la centralità che riveste il principio di legalità nell’ambito dell’esercizio della potestà regolamentare, nonostante l’avvento della globalizzazione e le nuove esigenze del mercato esigano strumenti di regolazione più agili e flessibili che, oltre a mettere a dura prova la tenuta del sistema, inducono gli interpreti a parlare di vera e propria “fuga dal regolamento”.
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