I regolamenti, annoverati tra le fonti normative secondarie e soggetti al principio di gerarchia delle fonti, costituiscono espressione del potere delle amministrazioni centrali e periferiche e vengono definiti dal d.p.r. n. 1191/1971, atti generali a contenuto normativo.
Tale definizione, da cui è possibile ricavare la duplice natura di tali fonti, quella di atti formalmente amministrativi e sostanzialmente normativi, ha dato luogo a diversi contrasti in dottrina e in giurisprudenza.
Secondo un primo indirizzo interpretativo, i regolamenti, non costituendo mera esecuzione di una normativa previgente, esprimono precise scelte di particolare o elevato spessore politico.
Diversamente, un altro orientamento ermeneutico individua tali fonti mediante un criterio puramente formale; parametro che prima facie risulta essere caratterizzato da un ampio grado di certezza, ma che in alcune ipotesi produrrebbe effetti distorsivi, in quanto ci sono delle ipotesi in cui un atto, nella sostanza, potrebbe avere un contenuto normativo.
Pertanto, la dottrina maggioritaria ha preferito individuare i regolamenti ricorrendo a un criterio di tipo sostanziale: si tratta di atti generali, perché rivolti ad una pluralità indistinta di destinatari; astratti, nella misura in cui contengono disposizioni normative applicabili ripetutamente a diverse fattispecie concrete; innovativi, vale a dire destinati a modificare definitivamente l’ordinamento giuridico in modo più incisivo rispetto ai provvedimenti amministrativi.
Da ciò ne deriva che i principi “iuranovit curia” e “ignorantia legis non excusat” possono essere applicati ai regolamenti e che, sul piano degli effetti, la loro inosservanza da parte della pubblica amministrazione e del giudice può dar luogo rispettivamente alla illegittimità del provvedimento adottato e al ricorso in cassazione.
Con riguardo all’interpretazione e alla formazione e classificazione di tali fonti, vengono applicati i criteri di cui all’art. 12 delle preleggi e l’iter procedimentale è disciplinato dalla legge n. 400/1988, che, all’art. 17, co.1, contiene un’elencazione delle diverse tipologie di regolamenti.
Si tratta dei regolamenti esecutivi di leggi, decreti legislativi e regolamenti comunitari, quelli attuativi ed integrativi di leggi e decreti legislativi recanti norme di principio e concernenti materie non disciplinate da fonti primarie, di atti con forza di legge o che non siano oggetto di riserva di legge (c.d. regolamenti indipendenti); nonché regolamenti di organizzazione di pubbliche amministrazioni adottati in base a disposizioni di legge (in conformità all’art. 97 Cost.), di riordino e da ultimo di delegificazione.
I regolamenti statali si distinguono poi dai regolamenti comunitari, da quelli regionali e locali (disciplinati dall’art. 117 Cost., commi 5 e 6 Cost) e dagli atti amministrativi generali.
I primi sono atti vincolanti con portata generale, obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili, adottati dalle istituzioni europee; gli atti amministrativi generali (ad es. bandi di gara o di concorso, provvedimenti prezzo e tariffari), invece, costituiscono espressione di mera potestà amministrativa, volti alla cura concreta di interessi pubblici, i cui destinatari, a differenza dei regolamenti, sono individuabili ex post.
Ciò posto, la natura ibrida del regolamento produce dei rilevanti effetti in ordine alla tutela giurisdizionale delle predetti fonti; una prima questione attiene al sindacato di legittimità costituzionale operato dalla Corte costituzionale ai sensi dell’art. 134 Cost. Si tratta di una norma che circoscrive tale controllo alle sole fonti di rango primario (pacificamente ammesso con riguardo al conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni nell’adozione dei rispettivi regolamenti) la cui ratio è da rinvenire nel fatto che il predetto organo, ad avviso della giurisprudenza, è giudice delle leggi, e non già della costituzionalità.
Tuttavia, come ritenuto da taluni autori, può essere ammesso un sindacato di costituzionalità delle fonti di rango secondario in via indiretta, nelle ipotesi in cui la legge non abbia determinato il contenuto minimo del regolamento e, secondo altri in via diretta, nei casi in cui siano stati emanati regolamenti delegati (i quali, apportando modifiche alla legge, assumerebbero la medesima efficacia sostanziale).
Il sindacato di legittimità dei regolamenti, poi, può venire in rilievo in via incidentale innanzi al giudice ordinario: si tratta di quelle ipotesi in cui oggetto del giudizio non è la illegittimità del regolamento, che non compete al predetto organo, ma il diritto soggettivo rispetto a cui la legittimità di tale fonte costituisce un presupposto.
Ed invero, in tali casi e alla luce del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, al primo competerà esclusivamente il potere di disapplicare il regolamento illegittimo ai sensi degli artt. 4-5 L.A.C., nel senso che potrà decidere il caso concreto, ritenendo il regolamento tamquam non esset e privandolo della sua efficacia limitatamente al caso concreto (non assume forza di giudicato).
In ordine alla tutela giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo, va evidenziato che la dottrina tradizionale ha ritenuto che anche il giudice amministrativo è legittimato a sindacare il regolamento, alla luce del carattere impugnatorio del giudizio amministrativo, che non riguarda solo i provvedimenti amministrativi, ma si estende ai regolamenti.
Tuttavia, ad avviso della dottrina, i regolamenti volizione-preliminare, essendo caratterizzati da profili di piena generalità e astrattezza, non sono direttamente lesivi e, di conseguenza, impugnabili (possono essere impugnati congiuntamente al provvedimento amministrativo che ne mutui il vizio); diversamente, i regolamenti volizione-azioni, avendo un contenuto prescrittivo volitivo, sono suscettibili di impugnazione diretta.
Peraltro, qualora l’interessato non impugni immediatamente il regolamento, non potrà impugnare i relativi provvedimenti attuativi, fatti salvi i casi in cui questi ultimi siano affetti da vizi propri.
Ciò posto, adesso occorre analizzare se ed entro quali limiti il giudice amministrativo è legittimato a disapplicare i regolamenti che non siano stati ritualmente impugnati, così come il g.o.
Secondo un tradizionale indirizzo, tale potere è escluso al g.a. (tranne nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva in cui vengono in rilievo diritti soggettivi), in quanto non esiste alcuna norma che preveda siffatto potere.
Inoltre, ad avviso di tali autori, la disapplicazione è uno strumento cui può far ricorso il solo giudice ordinario, atteso che la norma di cui all’art. 5 L.A.C. non può essere applicata in via analogica ai giudizi innanzi al g.a.; per effetto di tale divieto si ottiene l’effetto di disincentivare l’elusione degli ordinari termini di impugnazione dei provvedimenti amministrativi, posto che opinando diversamente, il ricorrente potrebbe far affidamento sulla disapplicazione che il g.a. sarebbe legittimato ad effettuare senza alcun limite temporale. Siffatto indirizzo ermeneutico ha altresì individuato delle incompatibilità tra la disapplicazione e il principio della domanda (art. 112 c.p.c.) e di certezza del diritto.
Ed invero, per un verso, verrebbe riconosciuto al g.a. il potere di sindacare ex officio il regolamento, senza che il ricorrente abbia eccepito alcun vizio nel corpo del ricorso; per un altro verso, dalla disapplicazione conseguirebbe l’ultravigenza di altri provvedimenti attuativi, nonostante il regolamento sia illegittimo.
Diversamente, un altro indirizzo ermeneutico, al fine di ampliare il controllo di legittimità sugli atti normativi, ammette la disapplicazione da parte del g.a.
Le basi di tale assunto sono da rinvenire nella distinzione tra regolamento e provvedimento amministrativo (quest’ultimo, secondo Giannini, è un atto che dispone in ordine a un caso concreto ed è volto alla tutela di un interesse pubblico) e, di conseguenza, nella sottoposizione del primo ai principi “iura novit curia” e di gerarchia delle fonti.
Ciò implica che al g.a. è demandato il compito di interpretare e di conoscere ogni disposizione normativa e di procedere eventualmente alla disapplicazione della norma ritenuta illegittima.
In particolare, come avviene nei casi in cui una normativa nazionale sia in contrasto con il diritto comunitario (in cui prevale quest’ultimo in base al principio del primato), il g.a. è tenuto a non applicare il regolamento configgente con la legge, ai sensi dei citati artt. 4-5 L.A.C., disposizioni aventi valenza generale ed estensibili anche alla giurisdizione amministrativa.
Ed invero, come ritenuto da tali autori, il legislatore si è mostrato silente sul punto in quanto all’epoca dell’approvazione della L.A.C. (1865) si riteneva che gli atti amministrativi non potessero essere sindacati in sede giurisdizionale e, pertanto, non esisteva alcun giudice deputato a tale funzione.
Con riguardo alle obiezioni che si fondano sui principi della domanda e di certezza, va rilevato che la disapplicazione è una mera conseguenza delle doglianze del privato e che questa riveste una funzione nomofilattica, riconosciuta altresì al giudice amministrativo, volta a incentivare l’intervento della p.a. in via di autotutela.
La disapplicazione, inoltre, per certi versi sarebbe da preferire all’annullamento, rimedio che presenta delle ulteriori problematiche nelle ipotesi in cui vi siano dei soggetti controinteressati. Ed invero, nei casi in cui sia impugnato un regolamento lesivo, congiuntamente a un provvedimento amministrativo o autonomamente, ai sensi dell’art. 41 c.p.a., il ricorrente è tenuto a notificare il ricorso ai predetti soggetti e alla p.a. che ha emesso l’atto: l’individuazione di tali soggetti, tuttavia, risulta poco agevole.
Pertanto, secondo un orientamento giurisprudenziale sarebbe preferibile che la disapplicazione o l’annullamento non producesse alcuna efficacia erga omnes, altrimenti un siffatto annullamento produrrebbe effetti, da un lato, esorbitanti rispetto alle istanze di tutela del ricorrente e, dall’altro, pregiudizievoli nei confronti dei terzi, controinteressati e non, estranei alla causa.
Invece, per quanto riguarda i regolamenti volizione-preliminare, potrebbe accadere che il provvedimento sia difforme rispetto un regolamento illegittimo (cd. antipatia), oppure che sia conforme a un regolamento illegittimo (cd. simpatia).
Nel primo caso, il giudice, sebbene il provvedimento sia conforme alla legge, sarebbe sempre tenuto ad annullare il provvedimento impugnato, poiché difforme al regolamento.
In tale ipotesi, il controinteressato, così come altra p.a. diversa da quella che ha emanato l’atto, potrebbero proporre ricorso incidentale avverso l’atto presupposto, salvaguardando il proprio interesse e risolvendo la potenziale antinomia tra norme. In assenza di tali soggetti, non sussiste alcun veicolo processuale in base al quale il giudice possa conoscere della legittimità del provvedimento e, escludendo la possibilità per la p.a. di impugnare un atto proprio, quest’ultima ha potrebbe ricorrere in extrema ratio all’autotutela.
Qualora venga in rilievo il fenomeno della cd. “simpatia”, l’organo giudicante sarebbe tenuto a rigettare il ricorso avverso il provvedimento, fatto salvo il caso in cui l’istante ricorra alla doppia impugnazione: è pacifico che in tale ipotesi il controinteressato è legittimato a proporre ricorso incidentale, mentre colui che non assume tale qualifica, può proporre ricorso per motivi aggiunti.
Da ciò deriva che gli eventuali controinteressati o coloro che propongono ricorso per motivi aggiunti rivestono un ruolo marginale e, nello specifico, i primi non potrebbero considerarsi lesi in via immediata e diretta, posto che lo strumento della disapplicazione (a differenza dell’annullamento) produrrà tendenzialmente degli effetti limitati al caso di specie, fatto salvo il caso in cui quest’ultimo non abbia un interesse alla ultravigenza del provvedimento attuativo.
Sempre con riguardo all’annullamento, potrebbe configurarsi l’ipotesi in cui soggetti terzi rispetto alle parti in lite, lamentino un pregiudizio.
Tale possibilità potrebbe venire in rilievo nelle ipotesi di ricorso per regolamento per volizione-azione, in cui il terzo sarebbe legittimato a far ricorso all’opposizione di terzo ai sensi dell’art. 108 c.p.a., anche nel caso in cui la sentenza sia passata in autorità di cosa giudicata (va evidenziato che prima della riforma del 2011, tale potere veniva escluso dalla giurisprudenza).
Infine, va riportato quel recente indirizzo giurisprudenziale, in base al quale la disapplicazione opera in entrambe le ipotesi di “antipatia” e “simpatia” (ossia in bonam che in malam partem) alla luce del principio di gerarchia delle fonti; si tratta di un criterio che impone al g.a., così come al g.o., di procedere all’accertamento in via incidentale del regolamento illegittimo e alla conseguente disapplicazione, anche in assenza di esplicite doglianze delle parti.
I giudici hanno, per ultimo, ritenuto che al g.a. spetta il potere di disapplicare il regolamento illegittimo, sia nelle ipotesi in cui vengano in rilievo diritti soggettivi, sia nei casi di interessi legittimi: vale a dire indipendentemente dalla posizione giuridica soggettiva che si intende far valere in giudizio e, quindi, anche in sede di giurisdizione generale di legittimità.
Da ciò deriva che lo strumento della disapplicazione consente di garantire al privato un’effettiva tutela rispetto al bene della vita richiesto e limitatamente al caso di specie, non relegandolo alla sola possibilità di rivolgersi al tradizionale rimedio caducatorio e alle conseguenti problematiche che sorgono nei riguardi dei controinteressati e dei terzi rispetto alle parti in lite, e nell’individuazione di costoro.
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