Il principio di offensività esprime la necessità che un soggetto sia punito esclusivamente per una condotta offensiva del bene giuridico presidiato dalla fattispecie incriminatrice.
I beni giuridici che possono esser oggetto di tutela penale sono, secondo la tesi prevalente, non solo i beni espressamente contemplati dalla Costituzione ma anche altri beni costituzionali che, pur non essendo esplicitamente enunciati, ricevono indiretta tutela sulla base dei precetti costituzionali.
Secondo l’impostazione della dottrina tradizionale, il principio di offensività trova fondamento nel principio di legalità ex art. 25 co. 2 Cost., il quale prevede che un soggetto sia punibile solo per un “fatto” previsto dall’ordinamento come reato. La nozione di “fatto” ivi indicata viene intesa dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti come fatto materiale e offensivo.
Sotto tale profilo il principio di offensività si collega al principio di materialità nel senso che il fatto deve esser materialmente percepibile nel mondo esterno, dal momento che il nostro ordinamento esclude la punibilità della nuda cogitatio.
Ciò è confermato esplicitamente dall’art. 115 cp, il quale prevede che l’accordo per commettere reato e l’istigazione non sono di per sè punibili, salva l’applicazione delle misure di sicurezza.
Altra norma costituzionale a cui normalmente si ricollega l’operatività del principio di offensività è l’art. 13 Cost. Si ritiene, infatti, che la libertà personale è un bene fondamentale e, come tale, esso può essere compresso solo per tutelare un bene di analogo rilievo, pregiudicato da una condotta offensiva.
Infine, altra norma che viene tradizionalmente considerata come fondamento del principio di offensività è l’art. 27 co. 3 Cost., che stabilisce il principio della funzione rieducativa della pena. Si è osservato, al riguardo, che l’incriminazione e conseguente punibilità di una condotta inoffensiva condurrebbe al risultato per il quale la medesima verrebbe percepita dall’agente come “ingiusta” con la conseguenza, quindi, che essa non sarebbe in grado di svolgere la funzione rieducativa che la Costituzione le attribuisce esplicitamente.
Anche a livello europeo è possibile ravvisare delle norme fondanti, anche se non esplicitamente, il principio di offensività. Si richiama, al riguardo, il principio di legalità ex art. 7 Cedu, che ha un contenuto simile al principio di legalità previsto dall’art. 25 co. 2 Cost.. Anche l’art. 7 Cedu prevede, infatti, che nessuno può essere punito per una “fatto” che al momento della sua commissione non era qualificata come fattispecie costitutiva di reato. L’utilizzo del termine “fatto” implica, infatti, che la condotta dell’agente deve presentare i connotati di materialità e di offensività.
Altre norme rilevanti a livello europeo sono quelle d cui agli artt. 49 e 52 della Carta di Nizza che prevedono il principio di proporzionalità. Tale principio è considerato dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti, infatti, come una “veste” del principio di offensività.
Ciò si evince, in particolare, dall’art. 52 della Carta di Nizza, a tenore del quale “nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apposte limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”. Da tale norma si evince uno stretto collegamento tra principio di offensività e principio di proporzionalità, posto che la proporzionalità del trattamento sanzionatorio può esser valutata in ragione della presenza di due canoni quale quello della necessità della limitazione del diritto altrui, che a sua volta è espressione del principio della sanzione penale come extrema ratio, e quello della effettiva esigenza di protezione dell’altrui diritto o libertà. L’utilizzo del termine effettivo, infatti, sottintende l’imprescindibilità di un’offesa sotto forma di lesione o di messa in pericolo del bene giuridico presidiato.
Quanto all’art. 49 della Carta di Nizza, invece, esso rileva secondo parte della dottrina nel senso che la proporzionalità della pena è imprescindibile per assicurarne la funzione rieducativa, con la conseguenza che la pena sproporzionata rispetto al grado di offensività della condotta è percepita come ingiusta e, quindi, inidonea ad assolvere una funzione risocializzatrice.
Altra norma fondamentale europea che, secondo la dottrina prevalente, costituisce il fondamento normativo del principio di offensività è l’art. 6 Carta di Nizza che sancisce il principio della inviolabilità della libertà personale, da cui si ricava, sulla falsariga di quanto si argomento in relazione all’art. 13 Cost., che stante la natura fondamentale del bene della libertà personale esso può essere limitato solo in funzione della protezione di bene avente analogo rango.
Si osserva, peraltro, che il principio di offensività europeo non rileva solo come limite negativo, ossia in quanto teso alla delimitazione dell’area del penalmente rilevante, bensì rileva anche come limite positivo ossia inteso come obbligo di tutela minima penale.
Viceversa il principio di offensività nel nostro ordinamento rileva essenzialmente in chiave negativa come limite alla punibilità del soggetto, in quanto assolve ad una funzione di garanzia delimitando dell’area del penalmente rilevante sia in astratto sia in concreto.
Il principio che delimita l’area del penalmente rilevante a livello di fattispecie astratta è denominato principio di offensività in astratto. Esso si rivolge al legislatore e svolge la funzione di parametro di legittimità costituzionale. Ad esempio il legislatore ha delimitato l’area del penalmente rilevante attraverso la fissazione di soglie di punibilità che segnano la linea di demarcazione tra illecito penale e illecito amministrativo. Si richiamano al riguardo, ad esempio, i reati tributari ex art. 4, 10 bis, 10 ter d.lgs 74/2000 che prevedono soglie di punibilità, superate le quali il fatto è penalmente rilevante.
Il principio di offensività in astratto opera sia con riferimento al trattamento sanzionatorio sia con riferimento al precetto penale.
Secondo l’impostazione prevalente in dottrina e in giurisprudenza, anche costituzionale, quando esso viene utlizzato per sindacare il trattamento sanzionatorio assume la veste del principio di proporzionalità, mentre quando esso si riferisce al precetto penale esso assume la veste di principio di ragionevolezza.
Nella giurisprudenza costituzionale il principio di offensività è stato applicato, nella sua accezione di principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., in relazione alle fattispecie di coltivazione ad uso personale di sostanza stupefacente ex art. 73, co. 1 d.p.r. 309/1990.
Rispetto a tale norma era stata sollevata una questione di legittimità costituzionale in relazione al principio di offensività in quanto la natura domestica della coltivazione escludeva, secondo il giudice rimettente, la lesione del bene giuridico della salute pubblica in quanto destinata ad uso meramente personale. Nel 1995, la Consulta si espresse in senso negativo, ribadendolo altresì nel 2016. La tesi della Consulta è stata, infatti, quella di ritenere che la condotta criminosa inerente la coltivazione domestica di canapa risultasse obiettivamente pregiudizievole al bene tutelato, vale a dire quello della salute pubblica dal momento che il prodotto coltivato era suscettibile di essere immesso nel mercato e dunque di essere consumato da una platea indifferenziata di utenti.
Un’applicazione del principio di offensività, sub specie di principio di ragionevolezza è stata effettuata, altresì, con riguardo all’aggravante comune della clandestinità ex art. 61 n. 11 bis cp.
La Consulta ha osservato, al riguardo, che la qualifica soggettiva dell’agente può connotare il disvalore del fatto di una maggiore offensività purchè vi sia un nesso di omogeneità tra la qualifica soggettiva e il fatto di reato realizzato, altrimenti vi è il rischio che il soggetto sia sanzionato per una sua qualifica soggettiva e non per il fatto oggettivo comesso.
La Corte Costituzionale si è espressa in senso diametralmente opposto in relazione al reato di clandestinità ex art. 10 bis d.lgs 286/1998, rispetto al quale pure erano stati sollevati dei dubbi di legittimità costituzionale. Tuttavia, la Consulta ha ritenuto che la norma anzidetta fosse esente da censure di incostituzionalità in quanto tale reato mira a tutelare un determinato bene guridico, rappresentato dall’esigenza di controllare i flussi migratori, attività a sua volta funzionale ad assicurare il controllo dell’ordine pubblico.
Il principio di offensività è stato utilizzato dalla Consulta anche per sindacare la proporzionalità del trattamento sanzionatorio imposto dal legislatore.
Si richiama, al riguardo, il reato di oltraggio, la cui norma ex art. 341 cp nella parte in cui prevedeva un trattamento sanzionatorio più grave di quella dell’ingiuria ex art. 594 cp, oggi depenalizzata, era irragionevole perchè l’incremento sanzionatorio era esclusivamente collegato alla qualifica soggettiva di pubblico ufficiale della persona offesa. In particolare, nella fattispecie di oltraggio ex art. 341 il minimo della pena edittale era costituito da sei mesi, che corrispondeva al massimo della pena edittale previsto per il reato di ingiuria ex art. 594 cp. La norma di cui all’art. 341 cp venne dichiarata, dunque, incostituzionale per la previsione del minimo della pena edittale di sei mesi.
In tale vicenda il trattamento sanzionatorio dell’ingiuria aveva assunto la funzione di tertium comparationis. Peraltro, nel 1999, la fattispecie del reato di oltraggio ex art. 341 cp è stata abrogata. Essa è stata reintrodotta nel 2009, nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 341 bis, che oggi non prevede più alcun minimo della pena edittale.
Il principio di offensività, oltre ad atteggiarsi a parametro di legittimità costituzionale, si atteggia – quale principio di offensività in concreto – a criterio ermeneutico di cui il giudice si avvale per verificare se, in base alle circostanze concrete il fatto possa considerarsi o meno offensivo.
Uno degli strumenti di cui il giudice dispone per verificare l’offensività in concreto del fatto è il reato impossibile ex art. 49 cp, nel senso che il giudice per attribuire rilevanza penale alla condotta non può fermarsi alla verifica della corrispondenza del fatto concreto al fatto tipico, dovendo altresì verificare la sua offensività. Esso si configura quando l’evento consumativo del reato non si verifica per l’inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto.
Secondo un’impostazione, oggi minoritaria, il reato impossibile di cui l’art. 49 cp non ha una propria autonomia concettuale e dogmatica, costituendo il doppione in negativo del delitto tentato ex art. 56, ossia un tentativo inidoneo.
In relazione a tale tesi sono stati sollevate diverse critiche.
In primo luogo, tale impostazione non spiega perchè un istituto venga individuato in negativo prima di essere definito in positivo. In secondo luogo, essa conduce ad un interpretatio abrogans dell’art. 49 cp, in quanto essendo l’istituto già contemplato all’art. 56 cp si rivelerebbe una norma inutile.
In terzo luogo, l’art. 49 cp si riferisce genericamente ai reati mentre l’art. 56 si riferisce ai delitti, con la conseguenza paradossale che, aderendo a tale impostazione, il tentativo inidoneo di contravvenzione può comportare l’astratta applicazione di misure di sicurezza, mentre il tentativo idoneo di contravvenzione non comporta alcuna conseguenza penale, riferendosi l’art. 56 cp ai soli delitti. Infine, anche il diverso riferimento all’ “azione”, nel caso del reato impossibile, e agli “atti” nel caso del tentativo conducono a ritenere che si tratti di istituti diversi.
Secondo la concezione realistica del reato, il reato impossibile si configura quando una condotta, pur conforme al fatto tipico, difetta del requisito di offensività. Conseguentemente il soggetto agente, in presenza di un reato impossibile, dovrà essere prosciolto con la formula assolutoria non potendo essere punito per difetto di idoneità della condotta o per inoffensività della stessa.
Rispetto a tale tesi sono state sollevate delle critiche. In particolare, si è rilevato che seguendo tale impostazione ad un giudizio legale fondato sulla tipicità del fatto si sovrappone un giudizio ulteriore ancorato all’offensività, con il rischio di conferire al giudice una discrezionalità eccessiva di dubbia compatibilità con il principio di legalità e di determinatezza ex art. 25 co. 2 Cost.
Pertanto, il requisito dell’offensività deve essere collocato all’interno del fatto tipico. Conseguentemente il giudice dovrebbe valutare la sua esistenza o meno alla stregua di un unico giudizio relativo alla tipicità del fatto.
In tali casi la formula assolutoria adottata dal giudice deve essere piena ossia quella per cui il soggetto deve essere assolto in quanto il fatto non sussiste, fermo restando in ogni caso l’applicazione di misure di sicurezza.
In quest’ottica l’applicazione dell’istituto del reato impossibile ex art. 49 cp presuppone l’astratta applicabilità dell’istituto del tentativo ex art. 56 cp, con riguardo al requisito della idoneità della condotta, nel senso che la possibile coesistenza degli elementi tipizzanti la fattispecie tentata con quella del reato impossibile non esclude di pervenire all’assoluzione piena in tutte le ipotesi in cui, pur avendo, l’agente, posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare un evento criminoso, questo non si realizzato per l’assenza di offensività.
In primo luogo, l’interprete dovrà verificare sulla base di un giudizio ex ante a base parziale, ossia considerando le circostanze conosciute o conoscibili dall’agente, se la condotta sarebbe stata idonea a produrre l’offesa. Se essa è idonea l’interprete dovrà procedere ad effettuare un giudizio di prognosi postuma su base totale, ossia valutando l’idoneità della condotta a realizzare l’offesa in considerazione di tutte le circostanze concrete del fatto, ossia anche di quelle non conosciute dall’agente. Se il giudizio ha un esito positivo si configura il reato impossibile ex art. 49 cp con conseguente sentenza di proscioglimento, salva l’astratta applicabilità delle misure di sicurezza.
Un esempio è rappresentato dall’ipotesi del soggetto che spara un colpo di arma da fuoco in aria allo scopo di colpire un passeggero che si trova su un aereo. Altro esempio di scuola è rappresentato dal furto dell’acino d’uva da parte del proprietario del fondo finitimo, quale condotta inidonea a ledere il bene giuridico protetto rappresentato dal patrimonio nel caso di reato di furto.
Al pari di quanto accade per il reato impossibile ex art. 49 cp anche nel caso di reato putativo ex art. 49 co. 1 cp difetta l’offensività della condotta. In realtà, nel caso del reato putativo ex art. 49 cp difetta non solo l’offensività ma proprio l’esistenza di una fatto costitutivo di reato, in quanto il soggetto pone in essere una condotta che, per errore di diritto o per errore sul fatto, ritenga essere reato. In coerenza con l’assunto per il quale la mera intenzione non può essere oggetto di incriminazione, la circostanza che il soggetto abbia ritenuto erroneamente di aver commesso un reato non può assumere rilevanza penale.
In via esemplificativa, si richiama l’ipotesi del furto di una res che erroneamente si ritiene altrui sebbene, invece, essa sia di proprietà dell’agente. In tale situazione il soggetto versa in errore in ordine ad una circostanza di fatto, con la conseguenza della non punibilità del soggetto.
Diversa è la tipologia di errore che viene in rilievo nel caso di reato aberrante.
Nel caso del reato putativo la tipologia di errore che viene in rilievo è un errore vizio, ossia un errore incidente sulla rappresentazione della realtà da parte del soggetto agente. Viceversa, nel caso dell’aberratio, la divergenza tra il voluto e il realizzato integra un errore-inabilità ossia un errore incidente nella fase esecutiva del reato.
Esistono diverse tipologie di reato aberrante: aberratio ictus, aberratio delicti, aberratio causae.
Nel caso dell’aberratio ictus, che è disciplinata all’art. 82 cp, il soggetto per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione cagiona l’offesa a persona diversa dalla vittima designata.
Nel caso dell’aberratio delicti, disciplinata all’art. 83 cp, il soggetto per errore – inabilità realizza un reato diverso da quello voluto.
Infine, nel caso dell’aberratio causae, il soggetto realizza l’evento consumativo del reato in conseguenza dell’innesco di una dinamica causale diversa da quella che si era rappresentata.
Il principio di offensività ha sollevato dei dubbi interpretativi in ordine alla fattispecie dell’aberratio ictus ex art. 82 cp. Essa può esser monolesiva o plurilesiva, a seconda che, rispettivamente, l’agente cagioni l’offesa solo alla persona diversa dalla vittima designata ovvero che cagioni l’offesa oltre che alla persona diversa anche alla vittima designata.
In particolare la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate se la norma di cui all’art. 82 cp nella parte in cui si riferisce al requisito dell’offesa che deve essere “diretta” verso la vittima designata, ai fini dell’integrazione della fattispecie, essa sottintenda la necessità che la condotta nei confronti della vittima designata debba integrare o meno gli estremi del tentativo.
Una tesi opina in senso affermativo in quanto la necessità del raggiungimento della soglia del tentativo in ordine alla condotta posta in essere dall’agente verso la vittima designata consentirebbe, in coerenza con il principio di offensività, di evitare un arretramento della soglia del penalmente rilevante rispetto ad atti che sono estranei alla dinamica causale di svolgimento dei fatti.
Viceversa secondo un’alternativa e prevalente impostazione non è necessario che, ai fini della configurazione della fattispecie di aberratio ictus monolesiva, l’agente ponga in essere una condotta tentata verso la vittima designata. L’art. 82 co. 1 cp non richiama, infatti, entrambi i requisiti necessari ai fini dell’integrazione del tentativo ex art. 56 cp, ossia l’idoneità e la direzione univoca degli atti, bensì solo il requisito della direzione della condotta.
Conseguentemente, ai fini dell’integrazione della fattispecie ex art. 82 co. 1 cp, è sufficiente che l’agente ponga in essere atti diretti a provocare l’offesa alla vittima designata.
Secondo tale impostazione non è vi è il rischio di un eccessivo arretramento della soglia di punibilità in quanto deve trattarsi comunque di atti che, per la loro connotazione oggettiva, rivelino, assumendo la prospettiva di un osservatore esterno e neutrale, il proposito criminoso dell’agente.
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