La successione delle leggi penali nel tempo può essere definita come l’intervento riformatore di un particolare settore dell’ordinamento penale o di una singola norma che è diretta espressione di un mutato contesto socio-politico in ragione del quale viene a modificarsi il precetto penale. Tale mutamento opera in una duplice direzione e può comportare l’introduzione di un nuovo precetto penale che abroga la vecchia norma incriminatrice per istituirne una nuova o l’abolizione di un reato senza che se ne introduca uno nuovo. Secondo parte della dottrina l’esigenza di adeguare l’ordinamento positivo e i suoi relativi effetti sono diretti corollari del concetto di legalità della norma penale. A livello interno, infatti, la successione delle leggi penali trova fondamento nell’articolo 2 del codice penale che viene considerato dalla dottrina maggioritaria espressione del principio di cui all’articolo 25 comma 2 Cost.
Un particolare forma di successione delle leggi penali è costituita dalla abolitio criminis. Con tale termine si fa riferimento ad un intervento normativo che abolisce in toto una figura incriminatrice preesistente con importantissime ricadute dal punto di vista pratico-applicativo. Ai sensi dell’articolo 2 comma 2 C.P. nell’ipotesi di abolitio l’intervento riformatore elimina in radice il reato commesso ed accertato facendo venir meno la condanna e i relativi effetti penali.
La dottrina si è a lungo interrogata su tale norma e sui suoi dirompenti effetti. Più nel dettaglio è stato rilevato che la funzione essenziale della successione delle leggi penali di cui al citato articolo 2 C.P. tutela, prima ancora che il principio di legalità, il concetto di uguaglianza di cui all’articolo 3 Cost. Si osserva, infatti, che la ratio di tale fenomeno successorio sia quello di evitare trattamenti sanzionatori discriminatori e, dunque, di evitare che un medesimo fatto riceva una risposta sanzionatoria ingiustificatamente differenziata. Il meccanismo dell’abolitio è quindi un efficace strumento di giustizia sostanziale della sanzione penale che si innesta nel generale quadro del favor rei. L’intervento legislativo abrogativo del precetto penale elimina dall’ordinamento quella determinata figura di reato ma non è detto che renda quel determinato fatto totalmente indifferente per l’ordinamento giuridico. Può accadere che nonostante una figura di reato venga espressamente abolita quest’ultima continui ad avere una sua rilevanza in altri settori dell’ordinamento e, più in particolare, in quello civile o amministrativo. Tale fenomeno prende il nome di depenalizzazione ed individua una situazione in cui l’illecito penale, pur essendo eliminato dall’impianto codicistico o dall’ordinamento penale in genere continui ad avere una sua rilevanza sanzionatoria. La depenalizzazione è infatti uno strumento assai utilizzato dal legislatore ed è spesso dettato da esigenze di deflazione del contenzioso giurisdizionale che risulta particolarmente rallentato anche a causa di controversie bagatellari o procedimenti penali per reati di scarsissimo rilievo in termini di disvalore sociale. È proprio il disvalore sociale sotteso ai reati “minori” a costituire il parametro di operatività degli interventi di depenalizzazione e di abolizione che derivano da veri e proprie valutazioni di economicità del giudizio operate in sede legislativa. Sul punto va segnalato che nonostante la depenalizzazione operi, almeno teoricamente, nell’ottica di modificare la risposta sanzionatoria prevista per un determinato reato introducendo una sanzione amministrativa o un illecito civile, non è detto che tale intervento si traduca, concretamente, in una forma sanzionatoria “mitior” rispetto a quella precedentemente prevista dalla fattispecie di reato. Bisogna infatti sottolineare che, al di là dell’aspetto puramente formale della sanzione, la previsione di un illecito amministrativo o civile può senza dubbio avere una valenza afflittiva superiore a quella prevista dal reato depenalizzato, ben potendo, ad esempio, essere prevista una sanzione amministrativa pecuniaria molto più elevata rispetto alla previgente disciplina penale. Da altro punto di vista, deve evidenziarsi che solo il sistema processuale penale prevede una serie di istituti di favore per l’imputato, quale, ad esempio, quello della sospensione condizionale della pena.
Tra gli interventi di depenalizzazione posti in essere in tempi recenti, particolarmente significativo è stato quello attuato grazie all’emanazione dei Decreti Legislativi n. 7 e 8 del 2016 che hanno trasformato in illecito amministrativo una serie di contravvenzioni previste dal Codice Penale. Gli effetti dell’intervento di depenalizzazione e dunque della successione delle leggi penali devono necessariamente raffrontarsi al momento in cui è stata realizzata la condotta tipica. Se il generale principio di legalità (nella sua variante della irretroattività) prevede, in ossequio al brocardo latino “nulla poena sine lege”, che nessuno possa essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, deve allora affermarsi che la condotta posta in essere dopo l’intervento di depenalizzazione non potrà aver alcun rilievo penale, potendo, se previsto, residuare in capo all’agente una responsabilità di tipo civile o amministrativo. Diversamente, qualora la condotta sia stata posta in essere prima dell’intervento di depenalizzazione-abolizione è opportuno operare una distinzione. Nell’ipotesi in cui alla data di entrata in vigore del provvedimento normativo il procedimento penale sia ancora in corso, quest’ultimo dovrà interrompersi ed il Giudice dovrà emettere provvedimento di non doversi procedere stante l’intervenuta estinzione del reato. La posizione dominante ritiene che in queste ipotesi lo Stato non abbia più interesse alla repressione di quel fatto illecito (ormai inesistente) e dunque il processo si estingue. Più in particolare, se è già intervenuta denunzia di reato e il procedimento si trova ancora nella fase delle indagini preliminari, il PM dovrà chiedere l’archiviazione del reato al giudice delle indagini preliminari e all’esito trasmettere gli atti all’Autorità amministrativa, la quale non potrà applicare la sanzione amministrativa in misura superiore a quella prevista dalla pena pecuniaria. Se invece la denuncia di reato non è stata ancora iscritta nel registro delle Notizie di reato basterà la trasmissione degli atti all’Autorità amministrativa senza l’intervento del Giudice delle indagini preliminari. Ancora, se vi è stata richiesta di rinvio a giudizio in ordine al reato depenalizzato, il giudice deve fissare udienza preliminare e pronunciare l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non è più previsto della legge come reato; uguale sorte avrà il processo penale ove la condanna non sia ancora passata in giudicato e penda appello o vi sia stato già il decreto che dispone il giudizio. Tuttavia, in relazione a quest’ultima opzione, la giurisprudenza più recente ritiene che qualora il reato depenalizzato sia anche estinto per intervenuta prescrizione, il Giudice non è tenuto a trasmettere gli atti all’autorità amministrativa.
Qualora, invece, sia già intercorsa sentenza di condanna definitiva, a norma del citato articolo 2 comma 2 C.P. ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. Da un punto di vista processuale il condannato dovrà proporre per mezzo del suo legale rappresentante un procedimento di incidente di esecuzione di competenza del Giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 673, 1 comma c.p.p. che porterà alla revoca della sentenza di condanna e alla cessazione dei suoi effetti penali. Sul punto si sono posti notevoli problemi applicativi dato che la materia dell’esecuzione penale si fonda sul principio di intangibilità del giudicato che pone il Giudice dell’esecuzione in una situazione di impossibilità di intervento sul merito della decisione. Il problema non è di scarso rilievo perchè si tratta di controbilanciare il principio di legalità della pena con quello della certezza del giudicato. La posizione maggioritaria, facendo leva su una lettura costituzionalmente orientata del conflitto tra giudicato e successione delle leggi penali propende per la c.d. cedevolezza del giudicato. Tale impostazione si fonda sulla considerazione che una pena ingiusta (poiché non supportata da una attuale previsione incriminatrice), oltre ad essere illegittima, sarebbe assolutamente inidonea a svolgere la funzione rieducativa e dunque non rispondente al dettato costituzionale di cui all’articolo 27 comma 3. Ne è quindi derivata un’applicazione estensiva del principio non solo nell’ipotesi di abolitio criminis da parte del legislatore ma anche nelle ipotesi in cui il giudice penale, con sentenza divenuta irrevocabile, sia incorso in un errore di applicazione della norma penale e abbia ravvisato la sussistenza del reato nonostante la sua intervenuta abrogazione per via giurisprudenziale. In tali casi, il principio dell’intangibilità del giudicato non avrebbe dovuto cedere rispetto a quello della sostanziale abolitio criminis, stante il dettato normativo dell’art. 2, IV comma c.p. che, come è noto, esclude l’applicazione della norma più favorevole al reo in caso di successione di norme penali diverse. Tale operazione ermeneutica ha trovato parziale conforto nella Corte Costituzionale che ha accolto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p., sollevata da un giudice torinese per la mancata inclusione, tra le cause di revoca della sentenza definitiva, del mutamento giurisprudenziale favorevole intervenuto con decisione delle Sezioni unite: questione di cui peraltro ha poi dichiarato l’infondatezza sotto tutti gli altri profili denunciati.
I citati D.Lgs. 7 e 8 del 2016, come già detto hanno realizzato un importante intervento di depenalizzazione su cui è opportuno interrogarsi. Tra le figure incriminatrici depenalizzate vi sono forme di reato assai eterogenee soprattutto in relazione al bene giuridico tutelato (ingiuria, atti osceni, pubblicazione di spettacoli osceni, danneggiamento, falsificazione di scritture private etc.). Caratteristica comune a tutti i reati interessati risiede nel fatto che questi ultimi venivano puniti (secondo le vecchie norme penali) con la sola pena pecuniaria e più in particolare attraverso l’ammenda. Le condotte rientranti nelle contravvenzioni interessate vengono, oggi, per lo più punite attraverso sanzioni pecuniarie in quanto costituiscono degli illeciti di natura amministrativa.
L’intervento di depenalizzazione ha dunque notevolmente sfoltito il carico del contenzioso gravante sui Giudici di Pace in quanto le figure di reato interessate rientravano pressoché tutte nella competenza della magistratura onoraria ma ha aperto ulteriori problemi specie in relazione a determinate figure di reato.
In particolare, l’introduzione di un illecito civile a seguito dell’operazione di depenalizzazione citata ha dato vita ad un importante dibattito in sede dottrinaria sul raffronto degli effetti dell’intervento normativo e sulla legittimità dello stesso. L’illecito civile è stato da sempre inteso come un fatto diverso e complementare rispetto all’illecito penale, lesivo delle regole dell’ordinamento civile e, dunque, degli interessi protetti da quel settore dell’ordinamento. La materia civilistica, invero, poggia le proprie fondamenta su principi e valori differenti rispetto a quelli dell’ordinamento penale, tanto da consentire la costituzione della parte privata nel processo penale in via autonoma e solo in parte adesiva rispetto a quella pubblica. E’ per questo che la depenalizzazione in illecito civile realizza un fenomeno affatto peculiare anche rispetto alla rispetto alla derubricazione in illecito amministrativo, la cui applicazione conserva, invece, una valenza pubblicistica propria della Pubblica Amministrazione. Più specificatamente, mentre il sistema penale è funzionalizzato alla tutela di un interesse pubblico e cioè alla punizione del reato sul presupposto che quest’ultimo leda o ponga in pericolo comune a tutti i cittadini, l’ordinamento civile mira invece a tutelare un determinato interesse della parte privata. Tale differenziazione è particolarmente evidente soprattutto se si considera la natura delle parti processuali nei relativi processi, entrambe private in quello civile e pubblico-privata in quello penale. Sulla scorta di tali argomentazioni parte della dottrina ha ravvisato nella depenalizzazione in illecito civile uno strumento di scarsa afflizione, soprattutto in considerazione del differente regime processuale.
Tra le tante ipotesi di depenalizzazioni in illecito civile, assume connotati significativi quella inerente il reato di falso in scrittura privata, oggi divenuto sanzione pecuniaria civile. Tale figura di reato era prevista dall’articolo 485 del c.p. e puniva con la reclusione fino a 3 anni la condotta di chi falsificava in tutto o in parte una scrittura privata in modo da procurare vantaggio a sé o ad altri nonché al fine di arrecare un danno. Ai sensi della recente riforma tale condotta integra, oggi, un illecito civile per il quale è prevista una sanzione pecuniaria fino ad euro 12.000. La previsione di tale illecito civile deriva dal fatto che secondo i promotori della riforma la configurazione di una sanzione civile avrebbe assicurato una migliore risposta sanzionatoria soprattutto in considerazione del fatto che la forbice edittale precedentemente prevista, avrebbe permesso (almeno nella maggioranza dei casi) la sospensione condizionale della pena e dunque una concreta impunità per il fatto commesso. Parte della dottrina ha però evidenziato che la previsione dell’illecito civile finisce per azzerare (o quasi) quell’effetto di deterrenza tipico della norma penale. La parte che avrà subito il danno avrà a disposizione solo il ricorso al Giudice civile potendo avanzare richiesta di risarcimento del danno subito a causa della falsificazione della scrittura privata. Il quadro che ne deriva, dunque, è quello di un netto abbassamento del livello di tutela riconosciuto alla parte lesa, specie in relazione alle complessità e ai tempi della giurisdizione civile e alla valutazione in sede civile della falsità medesima, la cui disciplina, sotto lo specifico profilo della proposizione della querela di falso, non è stata modificata e comporta, come è noto , la necessita di una sospensione della causa, ove la questione sia rilevante e determinate per la decisione del merito.
In conclusione va rilevato che i D. Lgs. 7 e 8 del 2016 hanno realizzato un importante intervento di depenalizzazione di molte figure di reato presenti nel codice e testimoniano come lo strumento dell’abolitio criminis seguito dall’introduzione di illeciti di natura extrapenale sia un rimedio non sempre efficace al fine di snellire il carico dei processi che rallenta l’attività giurisdizionale ordinaria. Tale conclusione deriva da una valutazione oggettiva che riguarda l’impatto della depenalizzazione e la contestuale previsione di illeciti civili o amministrativi. A parte ciò, va poi sottolineato come l’intervento del legislatore abbia spesso comportato (specie in relazione ad alcune figure di reato) una drastica riduzione del livello di tutela concretamente realizzato con pregiudizievoli effetti nei confronti dei soggetti lesi dall’illecito.
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