La legittima difesa è una causa di giustificazione (o scriminante) tipica, termine che potrebbe apparire superfluo laddove si accogliesse quell’orientamento dottrinale che nega l’ammissibilità, nel nostro ordinamento giuridico, di scriminanti atipiche, ossia non espressamente previste dal legislatore ma ricavabili in via interpretativa da un esame complessivo dell’ordinamento giuridico o per mezzo del ricorso all’analogia e comune (ossia valida per tutti i reati), disciplinata dall’art. 52 c.p.. Accedendo alla tesi dottrinale maggioritaria che considera le cause di giustificazione quali elementi positivi del fatto, è possibile affermare che, laddove ne ricorrano i presupposti, la legittima difesa esclude l’antigiuridicità di un fatto – che altrimenti sarebbe conforme a una fattispecie incriminatrice – mutandone il disvalore. Il fatto scriminato, pertanto, non solo non costituisce reato ma, anzi, è ab origine lecito, con la conseguenza che non è soggetto ad alcun tipo di sanzione, non solo penale ma anche civile, amministrativa o disciplinare; si noti, tuttavia, che alcuni autorevoli esponenti della dottrina non escludono che vi possano essere dei casi peculiari in cui alla liceità penale non consegua anche la liceità di altra natura: civile, amministrativa, ecc. Come per le altre scriminanti, inoltre, la legittima difesa estende i suoi effetti anche su eventuali concorrenti dell’agente (art. 119, co. 2, c.p.) e opera su di un piano oggettivo, ossia anche se l’agente ha compiuto il fatto scriminato senza essere consapevole – al tempo del medesimo – che ricorrevano i requisiti della legittima difesa.
Esemplificando, è il caso di Tizio che da un pugno a Caio perché in collera con lui – privo pertanto della coscienza/volontà di difendersi – senza , tuttavia, rendersi conto che Caio stava per accoltellarlo. In tal caso, il soggetto agente ha compiuto l’azione ritenendo erroneamente che non ricorressero i suddetti requisiti discriminanti, situazione esattamente speculare a quella di colui che, latitante, venisse rintracciato da criminali di una banda rivale, travestiti da poliziotti per ucciderlo di sorpresa, ed egli, circondato dagli stessi, li uccidesse, nella convinzione erronea di essersi liberato, per l’appunto, di poliziotti e non di essersi legittimamente difeso dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta (art. 59, co. 1, c.p.). Infine, da un punto di vista processuale, se vi è la prova o anche solo il dubbio che il fatto sia stato commesso in presenza di una causa di giustificazione, quale la legittima difesa, il giudice deve pronunciare sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530, co. 1, c.p.p. (art. 530, co. 3, c.p.p.). Molteplici sono le tesi dottrinali avanzate nel corso del tempo riguardo alla ratio dell’efficacia scriminante della legittima difesa. Secondo una prima tesi, qualora sia applicabile tale causa di giustificazione, l’agente non agirebbe con dolo ma solo per difendersi, appunto, e conseguentemente l’ordinamento giuridico non potrebbe rivolgergli alcun rimprovero. Tuttavia, come anticipato, le cause di giustificazione operano su di un piano esclusivamente oggettivo: al ricorrere dei rispettivi requisiti, è irrilevante lo stato psicologico dell’agente. Per tale ragione, questa tesi ha finito con l’essere superata. Un’altra tesi, invece, ha ritenuto di individuare il fondamento della causa di giustificazione de qua nella necessità di autotutela della persona che si manifesta nel momento in cui, in assenza dell’ordinaria tutela apprestata dall’ordinamento, viene riconosciuta, entro determinati limiti, una deroga al monopolio dello Stato dell’uso della forza. Si tratterebbe, in altri termini, di un potere di autotutela che verrebbe attribuito all’agente su delega dello Stato. La tesi oggi maggiormente accreditata, comunque, è quella che rinviene la ratio dell’efficacia scriminante della legittima difesa nella prevalenza accordata dallo Stato all’interesse del soggetto ingiustamente aggredito rispetto a quello di chi si è posto contro la legge (c.d. tesi del bilanciamento di interessi o dell’interesse prevalente). Tanto premesso, la disciplina della causa di giustificazione della legittima difesa è contenuta nell’art. 52 c.p.: nel primo comma sono dettati i requisiti generali che devono ricorrere affinché il fatto possa considerarsi scriminato per legittima difesa; nel secondo e nel terzo comma (introdotti dalla L. 13 febbraio 2006, n. 59) sono dettati degli ulteriori requisiti per la sola c.d. legittima difesa domiciliare in presenza dei quali la proporzionalità tra condotta aggressiva e difensiva è presunta ex lege . E’ questione controversa se la legittima difesa domiciliare costituisca o meno una nuova causa di giustificazione del tutto distinta da quella tradizionale regolata dall’art. 52, co. 1, c.p.. La dottrina maggioritaria pare orientata nel senso di escludere un tale rapporto di eterogeneità: in tale ottica, pertanto, affinché possa dirsi sussistente la legittima difesa domiciliare, dovranno ricorrere anche tutti i presupposti dell’art. 52, co. 1, c.p., salvo quanto precisato riguardo alla proporzione tra condotta offensiva e difensiva nell’art. 52, co. 2, c.p.). La disciplina generale di cui all’art. 52, co. 1, c.p., è imperniata sui requisiti della condotta di entrambi i soggetti coinvolti, di quello, cioè che pone in essere l’aggressione e dell’altro che vi si oppone esplicando la propria difesa. Per quanto riguarda l’aggressione, questa deve: (i) derivare da una condotta (anche omissiva) umana o da animali o cose (ma solo se è individuabile un soggetto tenuto ad esercitare su di essi una vigilanza; in caso contrario, potrebbe trovare applicazione tutt’al più, ricorrendone i presupposti, la scriminante dello stato di necessità); (ii) essere diretta contro diritti soggettivi o comunque contro interessi giuridicamente tutelati (dell’agente o di un terzo aggredito, nel caso del c.d. soccorso difensivo); (iii) essere idonea a determinare un pericolo attuale (ossia incombente o perdurante e non cessato o futuro) non volontariamente determinato dall’agente. La giurisprudenza, tuttavia, considera inapplicabile la scriminante della legittima difesa qualora la reazione del soggetto aggredito sia spropositata e imprevedibile e quindi contraria ai precetti dell’ordinamento giuridico o, secondo alcuni esponenti della dottrina, non imposta o autorizzata dallo stesso. Essa deve essere pertanto: (i) necessaria (ossia inevitabile, in quanto l’unica reazione possibile) per difendersi dall’aggressione (laddove, ad esempio, non sia possibile sottrarsi al pericolo semplicemente fuggendo); (ii) proporzionata all’offesa (in relazione al valore dei beni in conflitto se trattasi di beni eterogenei; in relazione al grado di lesività di offesa e reazione se trattasi di beni omogenei), quindi valutabile da un punto di vista meramente oggettivo.
A titolo esemplificativo, nel caso in cui Tizio cagionasse delle lesioni personali a Caio tramortendolo con un pugno (condotta che – fuori contesto – sarebbe normalmente punita ai sensi dell’art. 582 c.p.) onde scongiurare il tentativo di quest’ultimo di provocarne la morte con una pistola, la reazione di Tizio al pericolo di essere ucciso da Caio costituirebbe una legittima difesa (in quanto rispondente, per l’appunto, a tutti i requisiti poc’anzi illustrati) e dunque non integrerebbe il reato di lesioni personali. La disciplina dettata dall’art. 52, co. 2 e 3, c.p., per la sola c.d. legittima difesa domiciliare prevede dei requisiti ulteriori (o speciali suoi propri, a seconda della tesi dottrinale accolta in merito al rapporto tra il primo e i successivi due commi dell’art. 52 c.p.): (i) deve ricorrere uno dei casi previsti dall’art. 614, co. 1 e 2, c.p. (con un’estensione spaziale dovuta all’art. 52, co. 3, c.p.); (ii) l’agente deve essere stato legittimato a essere presente nei luoghi indicati dalle norme appena citate; (iii) l’agente deve aver usato un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo a scopo difensivo; (iv) la condotta dell’agente deve essere volta a tutelare (iv-a) l’incolumità dell’agente stesso o di altri soggetti oppure (iv-b) i beni patrimoniali dell’agente stesso o di altri soggetti, in quest’ultimo caso. solo qualora non vi sia stata desistenza e vi sia stato pericolo d’aggressione alla persona e non al mero patrimonio, onde rispettare la gerarchia dei valori della Costituzione e l’art. 2, comma 2, lett. a), CEDU). Al ricorrere di tali requisiti, come anticipato, la proporzionalità tra l’aggressione e la difesa non è rimessa al prudente apprezzamento del giudice (come previsto nella disciplina generale dettata dall’art. 52, co. 1, c.p., poc’anzi esaminato) ma è presunta ex lege (se tale presunzione sia assoluta o relativa è ulteriore questione dibattuta, anche se la dottrina maggioritaria pare propendere per la prima opzione). Sempre a titolo esemplificativo, nel caso in cui Tizio cagionasse la morte di Caio (condotta che sarebbe normalmente punita ai sensi dell’art. 575 c.p.), sparandogli con un fucile legittimamente detenuto, onde scongiurare il pericolo che questi, introdottosi, indebitamente nella sua abitazione contro la sua volontà, gli usi violenza fisica, la reazione di Tizio al pericolo di essere vittima di lesioni personali da parte di Caio costituirebbe una legittima difesa domiciliare (in quanto rispondente, ancora una volta, a tutti i requisiti poc’anzi illustrati) e dunque non integrerebbe il reato di omicidio, essendo precluso al giudice, in tale ipotesi, di valutare la proporzionalità tra la condotta aggressiva di Caio e la reazione difensiva di Tizio, presunta come detto ex lege. Qualora non ricorressero i presupposti della legittima difesa richiesti dall’art. 52 c.p., il fatto astrattamente conforme a una fattispecie incriminatrice non sarebbe scriminato e dunque costituirebbe un reato, risultando antigiuridico. Tuttavia, il legislatore prevede una disciplina ad hoc, all’art. 59, co. 4, c.p., per l’ipotesi particolare in cui, pur non ricorrendo i presupposti della legittima difesa (o di altra scriminante), l’agente abbia ugualmente posto in essere il fatto nell’erronea convinzione (generatasi al momento del fatto medesimo) che invece tali presupposti ricorressero (si noti il parallelismo tra la disciplina sull’errore sulla scriminante – che ci si accinge ad illustrare – con quella sull’errore sul fatto dettata dall’art. 47, co. 1, c.p.)
Invero, ai sensi dell’art. 59, co. 4, primo periodo, c.p., «se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena [si legga: cause di giustificazione], queste sono sempre valutate a favore di lui». Sicché, in virtù di questa norma, anche la c.d. legittima difesa putativa (così chiamata per distinguerla da quella reale in cui ricorrono effettivamente i presupposti dell’art. 52 c.p.) ha efficacia scriminante. A tal proposito: la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che la presunzione della proporzionalità tra la condotta offensiva e quella difensiva opera anche nel caso di legittima difesa domiciliare putativa incolpevole; la dottrina, dal suo canto, ha evidenziato come la legittima difesa putativa abbia efficacia scriminante anche qualora l’errore sia dovuto a infermità o seminfermità mentale, ferma restando, tuttavia, la possibilità di applicare una misura di sicurezza all’agente infermo o seminfermo di mente Tuttavia, è bene precisare che, affinché ciò sia possibile, l’errore deve ricadere sul fatto o sull’esistenza di una norma extrapenale integratrice della fattispecie (non essendo invece valido, in virtù dell’art. 5 c.p., l’errore di diritto, ossia il ritenere erroneamente di poter compiere un fatto in quanto vi sarebbe una norma che lo consentirebbe)
Per tornare a uno degli esempi di cui sopra, si ipotizzi che Tizio abbia cagionato delle lesioni personali a Caio, tramortendolo con un pugno, onde scongiurare il tentativo di quest’ultimo di provocarne la morte con una pistola. Come detto, la condotta di Tizio, normalmente punita ai sensi dell’art. 582 c.p., sarebbe scriminata ex art. 52 c.p.. Ora, però, si immagini che a posteriori venga accertato che tale pistola era un semplice giocattolo inoffensivo e che Caio era solito spaventare la gente con la stessa, per scopi puramente ludici. In questo nuovo scenario, l’art. 52 c.p. non sarebbe idoneo, da solo, a giustificare la condotta di Tizio: invero, nel caso di specie, l’aggressione di Caio non sarebbe stata idonea a determinare un pericolo attuale di offesa ingiusta nei confronti di un diritto soggettivo (alla vita o all’integrità fisica) di Tizio e quindi l’art. 52 c.p. non risulterebbe applicabile. Cionondimeno, in virtù dell’art. 59, co. 4, primo periodo, c.p., l’erronea valutazione incolpevole di Tizio, circa l’idoneità della condotta di Caio a procurargli un’offesa ingiusta e – conseguentemente – circa la legittimità della sua reazione difensiva, è valutata a suo favore e quindi come se la condotta di Caio fosse stata effettivamente idonea a cagionargli un’offesa ingiusta, rendendo così nuovamente applicabile, anche in questo scenario, l’art. 52 c.p. Il legislatore, invero, parifica la situazione di chi agisce effettivamente in presenza di una causa di giustificazione alla situazione di chi confida erroneamente (ma incolpevolmente) nella sua esistenza. Tenuto presente quanto sopra, giova a questo punto ricordare che l’art. 59, co. 4, c.p., si compone anche di un secondo periodo, ai sensi del quale «se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo». Quindi, in deroga a quanto disposto dal primo periodo sopra esaminato, quando l’errore dell’agente appare rimproverabile (in quanto verificatosi a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (cfr. il concetto di “colpa” di cui all’art. 43 c.p.) e il fatto corrisponde a una fattispecie incriminatrice punita anche a titolo di colpa (art. 42, co. 1 e 3, c.p.), tale fatto non sarà scriminato e costituirà, conseguentemente, un reato colposo, anche se, secondo un’opinione dottrinale minoritaria si tratterebbe di un reato doloso equiparato a quello colposo soltanto nel regime penale.
Riprendendo l’ultimo esempio proposto, si immagini che potesse essere estremamente evidente per chiunque che la pistola utilizzata da Caio fosse un giocattolo (dunque non idonea a cagionare alcuna offesa ad alcuno) e che Tizio fosse al corrente degli usuali atteggiamenti burloni di Caio. In tal caso, l’errore di valutazione di Tizio sarebbe considerabile colposo, in quanto normalmente evitabile adottando un comportamento diligente e prudente, e la sua reazione difensiva non sarebbe scriminata ex art. 52 c.p., non ricorrendone i presupposti e non essendo questi “integrati” dal disposto dell’art. 59, co. 4, primo periodo, c.p.. Conseguentemente, Tizio sarebbe punibile per lesioni personali colpose ex art. 590 c.p .A integrazione di quanto poc’anzi illustrato, preme evidenziare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’accertamento dell’efficacia esimente della legittima difesa putativa deve essere effettuato con un giudizio ex ante relativo alle specifiche circostanze del caso concreto, onde valutare se la particolare situazione in cui si era trovato a reagire l’agente fosse oggettivamente tale da far sorgere nello stesso l’erroneo convincimento di trovarsi nelle condizioni di fatto che, se fossero state realmente esistenti, avrebbero escluso l’antigiuridicità della sua condotta prevista dalla legge come reato. Invero, l’errore che può giustificare la legittima difesa putativa deve essere stato indotto da un fatto obiettivo che, seppur malamente rappresentato o compreso, abbia avuto comunque la possibilità di determinare nell’agente la (comprensibile/ragionevole) persuasione di trovarsi esposto al pericolo (attuale) di un’offesa ingiusta. In altri termini, la giurisprudenza di legittimità adotta un’interpretazione molto rigoristica dell’art. 59, co. 4, c.p., e richiede che l’errore dell’agente sia sorretto da circostanze di fatto – dunque da dati oggettivi e non meramente soggettivi – che possano ragionevolmente giustificarlo. La ratio di tale lettura della norma de qua pare rinvenibile nell’esigenza, di carattere generalpreventivo e probatorio (fermo restando il dettato dell’art. 530, co. 3, c.p.p.), di evitare che l’agente alleghi pretestuosamente l’errore sulla legittima difesa (o su qualsiasi altra causa di giustificazione) al solo scopo di tentare di eludere la propria responsabilità penale; condotta processuale che risulterebbe assai agevole laddove fosse consentito di basarsi esclusivamente sulle asserzioni dell’agente imputato, rendendo impossibile per il giudice un’analisi critica delle stesse, e ampliando probabilmente fin troppo il campo di applicazione della legittima difesa putativa (o di qualsiasi altra scriminante putativa).
Illustrato il dettato normativo dell’art. 59, co. 4, c.p., e la chiave di lettura fornitane dalla giurisprudenza, è ora possibile passare a riflettere sulla ratio di tale disciplina. Il dibattito dottrinale al riguardo sembra essere caratterizzato dalla presenza di due orientamenti contrapposti: (i) da un lato, quello che interpreta l’art. 59, co. 4, c.p., in termini di esclusione del dolo; (ii) dall’altro, quello che lo interpreta nel senso di escludere la colpevolezza. Quest’ultima tesi si fonda sulla teoria tripartita del reato, in base alla quale il terzo elemento costitutivo del reato dopo la tipicità e l’antigiuridicità in senso normativo (dove “normativo” è inteso a distinguere tale concezione da quella ormai superata della colpevolezza in senso psicologico), è costituito proprio dall’assenza di cause di esclusione della colpevolezza .
I sostenitori del primo orientamento evidenziano che quando ricorre una situazione come quella delineata dall’art. 59, co. 4, primo periodo, c.p., in cui l’agente commette il fatto nell’erronea (e incolpevole) convinzione di stare agendo per legittima difesa, l’atteggiamento psicologico dell’agente è incompatibile con l’elemento soggettivo del dolo: invero, in una simile ipotesi difetta la volontà di porre in essere un fatto costituente reato, essendo preliminarmente viziata dall’errore la rappresentazione del fatto tipico di tale reato. Si torni per un momento all’esempio proposto sub art. 59, co. 4, primo periodo, c.p., in cui Tizio aveva cagionato delle lesioni personali a Caio, tramortendolo con un pugno, ritenendo di starsi legittimamente difendendo dal tentativo di quest’ultimo di provocarne la morte con una pistola, convincimento poi rivelatosi erroneo in ragione del fatto che la condotta di Caio non voleva essere offensiva ma meramente scherzosa dal momento che era stata utilizzata, un’arma giocattolo. Ai sensi dell’art. 43, co. 1, c.p., un delitto è doloso quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione. Ai sensi dell’art. 582, co. 1, c.p., è punito per lesioni personali dolose chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente. Nell’esempio in esame, secondo i fautori del primo orientamento dottrinale di cui si discute, Tizio non avrebbe agito con dolo in quanto, al momento del fatto, non avrebbe dato un pugno a Caio prevedendo e volendo cagionargli una lesione personale (art. 582, co. 1 c.p.) ma ritenendo di esservi costretto dalla necessità di difendere in modo proporzionato il proprio diritto alla vita e all’integrità fisica contro il pericolo attuale di essere ingiustamente colpito dall’arma da fuoco maneggiata da Caio con fare apparentemente minaccioso (art. 52, co. 1, c.p.) Come appare evidente dall’esempio di cui sopra, questo primo orientamento tende a fornire una versione peculiare del concetto di dolo, intendendolo non tanto come rappresentazione e volizione di un fatto corrispondente a una fattispecie incriminatrice ma come rappresentazione e volizione di un fatto qualificabile come lecito, in virtù delle cause di giustificazione (nella specie, quella della legittima difesa), e per questo è criticato dai sostenitori del secondo orientamento. Questi ultimi, come anticipato, ritengono che la ratio dell’art. 59, co. 4, primo periodo, c.p., sia da ravvisare nell’assenza di colpevolezza in senso normativo, osservando che l’agente, pur errando (incolpevolmente) circa la sussistenza dei presupposti fattuali di una causa di giustificazione (nel caso della legittima difesa: di quelli indicati dall’art. 52 c.p.), agisce comunque con la consapevolezza e la volontà di realizzare un fatto corrispondente alla fattispecie incriminatrice (quindi: con dolo) ma erra sull’illiceità della sua condotta, cosicché il suo comportamento non sarebbe rimproverabile e l’ordinamento ne terrebbe conto attraverso l’art. 59, co. 4, primo periodo, c.p.. La giurisprudenza non sembra aver ancora avuto modo di esprimersi su questo tema ma il fatto che interpreti l’art. 59, co. 4, c.p., come visto precedentemente, nel senso di richiedere l’allegazione di circostanze di fatto che possano ragionevolmente giustificare l’errore dell’agente, sembrerebbe indicare – almeno prima facie – una propensione per questo secondo orientamento. Invero, concetti come quello di “ragionevolezza” e di “giustificabilità” dell’errore sembrano rimandare al principio espresso dalla Corte Costituzionale in materia di errore sulle disposizioni penali, ove la responsabilità dell’agente è stata esclusa per la mancanza di colpevolezza in senso normativo in tutti quei casi in cui l’ignoranza da parte sua della legge penale si sia rivelata inevitabile e perciò scusabile (dichiarando parzialmente illegittimo l’art. 5 c.p. in quanto in contrasto, sotto questo profilo, con l’art. 27, co. 1 e 3, della Costituzione). Volendo esemplificare, Tizio avrebbe agito con dolo in quanto, al momento del fatto, avrebbe dato un pugno a Caio prevedendo e volendo cagionargli una lesione personale (art. 582, co. 1 c.p.) ma avrebbe pensato, al contempo ed erroneamente, che la sua condotta fosse lecita in quanto dovuta a legittima difesa (art. 52, co. 1, c.p.) e in ragione di tale errore inevitabile la sua condotta sarebbe comunque scriminata putativamente. Tuttavia, anche questo secondo orientamento è stato oggetto di critiche nella misura in cui parrebbe difficile conciliare l’esclusione della responsabilità dell’agente per l’assenza di colpevolezza in senso normativo con il dettato dell’art. 59, co. 4, secondo periodo, c.p., il quale, come precedentemente illustrato, fa espresso riferimento alla colpa quale elemento psicologico del reato. Sicché, la questione non pare al momento potersi dire definitivamente risolta.
Ciò detto, pare opportuno soffermare, sia pur brevemente, l’attenzione sul rapporto tra l’art. 59, co. 4, c.p., e l’art. 55 c.p., il quale detta la disciplina dell’eccesso colposo nelle cause di giustificazione (nel caso che qui ci occupa: nella legittima difesa). Analogamente a quanto previsto dall’art. 59, co. 4, secondo periodo, c.p., anche l’art. 55 c.p. fa discendere da un errore colposo l’inapplicabilità di una scriminante laddove il fatto corrisponda a una fattispecie incriminatrice colposa. Tuttavia, mentre nel primo caso l’errore colposo verte sull’esistenza (in realtà assente) dei presupposti fattuali di una scriminante (nel caso della legittima difesa, ad esempio, sull’esistenza di un pericolo attuale di subire un’offesa ingiusta), nel secondo caso, l’errore investe le modalità di condotta con cui l’agente eccede (involontariamente ma colpevolmente) i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità di difendersi da un’offesa altrui così superando i limiti di proporzionalità tra condotta offensiva e condotta difensiva imposto dall’art. 52 c.p. Ferma restando tale distinzione, la giurisprudenza di legittimità ha però avuto modo di esaminare anche casi in cui sussistevano contemporaneamente tanto una scriminante putativa quanto l’eccesso colposo in tale scriminante. In simili ipotesi, l’agente aveva ritenuto per errore incolpevole che esistesse una scriminante (in realtà, per l’appunto, inesistente) ma nell’agire aveva comunque trasceso colpevolmente i limiti consentiti dalla disciplina di tale scriminante. Nel caso della legittima difesa, per esempio, ciò si potrebbe verificare laddove Tizio, preso dal panico perché sentitosi minacciato da Caio , in base ad una convinzione poi rivelatasi infondata, lo abbia colpito d’impulso con un coltello nonostante il presunto aggressore fosse disarmato.
In conclusione, coerentemente ai principi cardine del diritto penale moderno e in particolare a quello di colpevolezza, il codice penale italiano consente la commissione di fatti che normalmente integrerebbero fattispecie incriminatrici se giustificati dalla circostanza di essersi dovuti legittimamente difendere e ciò anche nel caso in cui tale circostanza non sia reale ma frutto di un errore di valutazione incolpevole dell’agente (purché suffragato, come richiesto dalla giurisprudenza, da dati di fatto che lo facciano apparire ragionevole e dunque scusabile), lasciando invece inalterata la punibilità di condotte integranti fattispecie incriminatrici colpose laddove tale errore sia a sua volta rimproverabile all’agente a titolo di colpa. Tuttavia, mentre la disciplina della legittima difesa opera su di un piano oggettivo (ossia a prescindere dalla circostanza che l’agente fosse consapevole dell’applicabilità di tale scriminante al fatto posto in essere), quella della legittima difesa putativa lo fa su di un piano soggettivo e quindi indaga se l’errore sull’esistenza della scriminante sia stato determinato o meno da colpa dell’agente.
Scrivi un commento
Devi accedere, per commentare.