Home › Forum › V e VI settimana di diritto civile › Correzione temi prima settimana di febbraio 2019
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Cari partecipanti,
Pubblico in area riservata i compiti di Angelo (Linee Guida), Giovanni (depenalizzazione in illecito civile o amministrativo) Barbara (istigazione al suicidio) Alberto (Trust) Emilio (legittima difesa putativa), Andrea (concorso apparente di norme).
Si tratta di temi caldi che, oltre a poter essere oggetto di scelta nelle prove d’esame, vanno capiti bene e approfonditi. perciò di utti i temi potete trarre giovamento leggendo accuratamente quello che hanno scritto gli altri e le mie osservazioni, a volte tese a provocare uan riflessione.
Potete tranquillamente avviare un’autonma discussione su ciascun tema. Il sito non si consuma .. ed anzi è molto agile e duttile.
Un caro saluto
Maria
EMILIO | Traccia: La legittima difesa putativa (50 righe al massimo: v. solo righe sottolineate).
Fonti normative: artt. 52 e 59 c.p..
Scaletta: (i) introduzione sulla legittima difesa quale causa di giustificazione e sui suoi effetti; (ii) esposizione sintetica delle tesi dottrinali relative alla ratio dell’efficacia scriminante della legittima difesa; (iii) la struttura dell’art. 52 c.p. (distinzione preliminare tra la disciplina generale di cui al primo comma e quella dettata per la legittima difesa domiciliare nel secondo e nel terzo comma); (iv) la disciplina generale dettata dall’art. 52, co. 1, c.p. (requisiti e valutazione giudiziale della proporzionalità tra condotta offensiva e condotta difensiva); (v) la disciplina della legittima difesa domiciliare dettata dall’art. 52, co. 2 e 3, c.p. (requisiti e presunzione ex lege della proporzionalità tra condotta aggressiva e condotta difensiva); (vi) la disciplina della legittima difesa putativa: l’art. 59, co. 4, primo periodo, c.p.; (vii) (segue): l’art. 59, co. 4, secondo periodo, c.p.; (viii) l’interpretazione data dalla giurisprudenza di legittimità all’art. 59, co. 4, c.p.; (ix) esposizione sintetica delle due tesi dottrinali relative alla ratio dell’art. 59, co. 4, c.p.: primo orientamento (assenza di dolo nella legittima difesa putativa); (x) (segue): secondo orientamento (assenza di colpevolezza in senso normativo nella legittima difesa putativa); (xi) brevi cenni sul rapporto tra l’art. 59, co. 4, c.p., e l’art. 55 c.p.; (xii) conclusioni.
Svolgimento
La legittima difesa è una causa di giustificazione (o scriminante) tipica (la precisazione, si noti, apparirebbe superflua laddove si accogliesse quell’orientamento dottrinale che nega l’ammissibilità, nel nostro ordinamento giuridico, di scriminanti atipiche, ossia non espressamente previste dal legislatore ma ricavabili in via interpretativa da un esame complessivo dell’ordinamento giuridico o per mezzo del ricorso all’analogia) e comune (ossia valida per tutti i reati), disciplinata dall’art. 52 c.p..
Accedendo alla tesi dottrinale maggioritaria che considera le cause di giustificazione quali elementi positivi del fatto, è possibile affermare che, laddove ne ricorrano i presupposti, la legittima difesa esclude l’antigiuridicità di un fatto – che altrimenti sarebbe conforme a una fattispecie incriminatrice – consentendolo meglio: rendendolo lecito . Il fatto scriminato, pertanto, non solo non costituisce reato ma, anzi, è ab origine lecito, con la conseguenza che non è soggetto ad alcun tipo di sanzione (non solo penale ma anche civile, amministrativa o disciplinare; si noti, tuttavia, che alcuni autorevoli esponenti della dottrina non escludono che vi possano essere dei casi peculiari in cui alla liceità penale non consegua anche la liceità di altra natura: civile, amministrativa, ecc.) (BENE).
Come per le altre scriminanti, inoltre, la legittima difesa estende i suoi effetti anche su eventuali concorrenti dell’agente (art. 119, co. 2, c.p.) e opera su di un piano oggettivo, ossia anche se l’agente ha compiuto il fatto scriminato senza essere consapevole – al tempo del medesimo – che ricorrevano i requisiti della legittima difesa (si pensi a Tizio che dia un pugno a Caio perché in collera con lui – e non con la coscienza/volontà di difendersi – senza rendersi conto che Caio stava per accoltellarlo) o anche se lo ha compiuto pur ritenendo erroneamente che non ricorressero i suddetti requisiti (come potrebbe essere nel caso in cui Tizio, latitante, venisse rintracciato da criminali di una banda rivale, travestiti da poliziotti per ucciderlo di sorpresa, ed egli, circondato dagli stessi, li uccidesse, nella convinzione erronea di essersi liberato, per l’appunto, di poliziotti e non di essersi legittimamente difeso dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta) (art. 59, co. 1, c.p.).
Infine, da un punto di vista processuale, se vi è la prova o anche solo il dubbio che il fatto sia stato commesso in presenza di una causa di giustificazione, quale la legittima difesa, il giudice deve pronunciare sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530, co. 1, c.p.p. (art. 530, co. 3, c.p.p.). (BENE)
Molteplici sono le tesi dottrinali avanzate nel corso del tempo riguardo alla ratio dell’efficacia scriminante della legittima difesa. Secondo una prima tesi, qualora sia applicabile tale causa di giustificazione, l’agente non agirebbe con dolo ma solo per difendersi, appunto, e conseguentemente l’ordinamento giuridico non potrebbe rivolgergli alcun rimprovero. Tuttavia, come anticipato, le cause di giustificazione operano su di un piano esclusivamente oggettivo: al ricorrere dei rispettivi requisiti, è irrilevante lo stato psicologico dell’agente. Per tale ragione, questa tesi ha finito con l’essere superata. (MOLTO BENE)
Un’altra tesi, invece, ha ritenuto di individuare il fondamento della causa di giustificazione de qua nella necessità di autotutela della persona che si manifesta nel momento in cui, in assenza dell’ordinaria tutela apprestata dall’ordinamento, viene riconosciuta, entro determinati limiti, una deroga al monopolio dello Stato dell’uso della forza. Si tratterebbe, in altri termini, di un potere di autotutela che verrebbe attribuito all’agente su delega dello Stato. La tesi oggi maggiormente accreditata, comunque, è quella che rinviene la ratio dell’efficacia scriminante della legittima difesa nella prevalenza accordata dallo Stato all’interesse del soggetto ingiustamente aggredito rispetto a quello di chi si è posto contro la legge (c.d. tesi del bilanciamento di interessi o dell’interesse prevalente).(MOLTO BENE)
Come premesso, la disciplina della causa di giustificazione della legittima difesa è contenuta nell’art. 52 c.p.: nel primo comma sono dettati i requisiti generali che devono ricorrere affinché il fatto possa considerarsi scriminato per legittima difesa; nel secondo e nel terzo comma (introdotti dalla L. 13 febbraio 2006, n. 59) sono dettati degli ulteriori requisiti per la sola c.d. legittima difesa domiciliare in presenza dei quali la proporzionalità tra condotta aggressiva e difensiva è presunta ex lege .
E’ questione controversa se la legittima difesa domiciliare costituisca o meno una nuova causa di giustificazione del tutto distinta da quella tradizionale regolata dall’art. 52, co. 1, c.p.. La dottrina maggioritaria pare orientata nel senso di escludere un tale rapporto di eterogeneità: in tale ottica, pertanto, affinché possa dirsi sussistente la legittima difesa domiciliare, dovranno ricorrere anche tutti i presupposti dell’art. 52, co. 1, c.p., salvo quanto precisato riguardo alla proporzione tra condotta offensiva e difensiva nell’art. 52, co. 2, c.p.). Perché secondo te la giurisprudenza ritiene che il genus sia unico? Riflettiamo.
La disciplina generale di cui all’art. 52, co. 1, c.p., è imperniata sui requisiti che devono essere posseduti dalla condotta aggressiva e da quella difensiva affinché quest’ultima possa essere considerata legittima. Per quanto riguarda l’aggressione, questa deve: (i) derivare da una condotta (anche omissiva) umana o da animali o cose (ma solo se è individuabile un soggetto tenuto ad esercitare su di essi una vigilanza; in caso contrario, potrebbe trovare applicazione tutt’al più, ricorrendone i presupposti, la scriminante dello stato di necessità); (ii) essere recata contro diritti soggettivi o comunque contro interessi giuridicamente tutelati (dell’agente o di un terzo aggredito, nel caso del c.d. soccorso difensivo); (iii) essere idonea a determinare un pericolo attuale (ossia incombente o perdurante e non cessato o futuro) non volontariamente determinato dall’agente. La giurisprudenza, tuttavia, considera ammissibile l’applicabilità della scriminante della legittima difesa qualora la reazione del soggetto provocato sia stata spropositata e imprevedibile rispetto alla provocazione dell’agente) di offesa ingiusta (ossia contraria ai precetti dell’ordinamento giuridico o, secondo alcuni esponenti della dottrina, non imposta o autorizzata dallo stesso). (MOLTO BENE)
La reazione dell’agente, d’altro canto, deve essere: (i) necessaria (ossia inevitabile, in quanto l’unica reazione possibile) per difendersi dall’aggressione (laddove, ad esempio, non sia possibile sottrarsi al pericolo semplicemente fuggendo); (ii) proporzionata all’offesa (in relazione al valore dei beni in conflitto se trattasi di beni eterogenei; in relazione al grado di lesività di offesa e reazione se trattasi di beni omogenei); tale proporzionalità deve essere valutata giudizialmente da un punto di vista meramente oggettivo.
A titolo esemplificativo, nel caso in cui Tizio cagionasse delle lesioni personali a Caio tramortendolo con un pugno (condotta che – fuori contesto – sarebbe normalmente punita ai sensi dell’art. 582 c.p.) onde scongiurare il tentativo di quest’ultimo di provocarne la morte con una pistola, la reazione di Tizio al pericolo di essere ucciso da Caio costituirebbe una legittima difesa (in quanto rispondente, per l’appunto, a tutti i requisiti poc’anzi illustrati) e dunque non integrerebbe il reato di lesioni personali. (BENE)
La disciplina dettata dall’art. 52, co. 2 e 3, c.p., per la sola c.d. legittima difesa domiciliare prevede dei requisiti ulteriori (o speciali suoi propri, a seconda della tesi dottrinale accolta in merito al rapporto tra il primo e i successivi due commi dell’art. 52 c.p.): (i) deve ricorrere uno dei casi previsti dall’art. 614, co. 1 e 2, c.p. (con un’estensione spaziale dovuta all’art. 52, co. 3, c.p.); (ii) l’agente deve essere stato legittimato a essere presente nei luoghi indicati dalle norme appena citate; (iii) l’agente deve aver usato un’arma legittimante detenuta o altro mezzo idoneo a scopo difensivo; (iv) la condotta dell’agente deve essere volta a tutelare (iv-a) l’incolumità dell’agente stesso o di altri soggetti oppure (iv-b) i beni (si ritiene: patrimoniali) dell’agente stesso o di altri soggetti; in quest’ultimo caso. solo qualora non vi sia stata desistenza e vi sia stato pericolo d’aggressione (si ritiene: alla persona e non al mero patrimonio, onde rispettare la gerarchia dei valori della Costituzione e l’art. 2, comma 2, lett. a), CEDU).
Al ricorrere di tali requisiti, come anticipato, la proporzionalità tra l’aggressione e la difesa non è rimessa al prudente apprezzamento del giudice (come previsto nella disciplina generale dettata dall’art. 52, co. 1, c.p., poc’anzi esaminato) ma è presunta ex lege (se tale presunzione sia assoluta o relativa è ulteriore questione dibattuta, anche se la dottrina maggioritaria pare propendere per la prima opzione).
Sempre a titolo esemplificativo, nel caso in cui Tizio cagionasse la morte di Caio (condotta che sarebbe normalmente punita ai sensi dell’art. 575 c.p.), sparandogli con un fucile legittimamente detenuto, onde scongiurare il pericolo che questo, introdottosi nella sua abitazione contro la sua volontà, lo potesse prendere a pugni, la reazione di Tizio al pericolo di essere vittima di lesioni personali da parte di Caio costituirebbe una legittima difesa domiciliare (in quanto rispondente, ancora una volta, a tutti i requisiti poc’anzi illustrati) e dunque non integrerebbe il reato di omicidio, essendo precluso al giudice, in tale ipotesi, di valutare la proporzionalità tra la condotta aggressiva di Caio e la reazione difensiva di Tizio, presunta come detto ex lege. (BENE)
Qualora non ricorressero i presupposti della legittima difesa richiesti dall’art. 52 c.p., il fatto astrattamente conforme a una fattispecie incriminatrice non sarebbe scriminato e dunque costituirebbe un reato, risultando antigiuridico. Tuttavia, il legislatore prevede una disciplina ad hoc, all’art. 59, co. 4, c.p., per l’ipotesi particolare in cui, pur non ricorrendo i presupposti della legittima difesa (o di altra scriminante), l’agente abbia ugualmente posto in essere il fatto nell’erronea convinzione (generatasi al momento del fatto medesimo) che invece tali presupposti ricorressero (si noti il parallelismo tra la disciplina sull’errore sulla scriminante – che ci si accinge ad illustrare – con quella sull’errore sul fatto dettata dall’art. 47, co. 1, c.p.). (MOLTO BENE)
Invero, ai sensi dell’art. 59, co. 4, primo periodo, c.p., «se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena [si legga: cause di giustificazione], queste sono sempre valutate a favore di lui». Sicché, in virtù di questa norma, anche la c.d. legittima difesa putativa (così chiamata per distinguerla da quella reale in cui ricorrono effettivamente i presupposti dell’art. 52 c.p.) ha efficacia scriminante. A tal proposito: la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che la presunzione della proporzionalità tra la condotta offensiva e quella difensiva opera anche nel caso di legittima difesa domiciliare putativa incolpevole; la dottrina, dal suo canto, ha evidenziato come la legittima difesa putativa abbia efficacia scriminante anche qualora l’errore sia dovuto a infermità o seminfermità mentale, ferma restando, tuttavia, la possibilità di applicare una misura di sicurezza all’agente infermo o seminfermo di mente (BENE) .
Tuttavia, è bene precisare che, affinché ciò sia possibile, l’errore deve ricadere sul fatto o sull’esistenza di una norma extrapenale integratrice della fattispecie (non essendo invece valido, in virtù dell’art. 5 c.p., l’errore di diritto, ossia il ritenere erroneamente di poter compiere un fatto in quanto vi sarebbe una norma che lo consentirebbe)
Per tornare a uno degli esempi di cui sopra, si ipotizzi che Tizio abbia cagionato delle lesioni personali a Caio, tramortendolo con un pugno, onde scongiurare il tentativo di quest’ultimo di provocarne la morte con una pistola. Come detto, la condotta di Tizio, normalmente punita ai sensi dell’art. 582 c.p., sarebbe scriminata ex art. 52 c.p.. Ora, però, si immagini che a posteriori venga accertato che tale pistola era un semplice giocattolo inoffensivo e che Caio era solito spaventare la gente con la stessa, non per far loro del male ma per semplice scherzo (per scopi puramente ludici). In questo nuovo scenario, l’art. 52 c.p. non sarebbe idoneo, da solo, a giustificare la condotta di Tizio: invero, nel caso di specie, l’aggressione di Caio non sarebbe stata idonea a determinare un pericolo attuale di offesa ingiusta nei confronti di un diritto soggettivo (alla vita o all’integrità fisica) di Tizio e quindi l’art. 52 c.p. non risulterebbe applicabile. Cionondimeno, in virtù dell’art. 59, co. 4, primo periodo, c.p., l’erronea valutazione incolpevole di Tizio, circa l’idoneità della condotta di Caio a procurargli un’offesa ingiusta e – conseguentemente – circa la legittimità della sua reazione difensiva, è valutata a suo favore e quindi come se la condotta di Caio fosse stata effettivamente idonea a cagionargli un’offesa ingiusta, rendendo così nuovamente applicabile, anche in questo scenario, l’art. 52 c.p. /BENE) . Il legislatore, invero, parifica la situazione di chi agisce effettivamente in presenza di una causa di giustificazione alla situazione di chi confida erroneamente (ma incolpevolmente) nella sua esistenza.
Tenuto presente quanto sopra, giova a questo punto ricordare che l’art. 59, co. 4, c.p., si compone anche di un secondo periodo, ai sensi del quale «se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo». Quindi, in deroga a quanto disposto dal primo periodo sopra esaminato, quando l’errore dell’agente appare rimproverabile (in quanto verificatosi a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (cfr. il concetto di “colpa” di cui all’art. 43 c.p.) e il fatto corrisponde a una fattispecie incriminatrice punita anche a titolo di colpa (art. 42, co. 1 e 3, c.p.), tale fatto non sarà scriminato e costituirà, conseguentemente, un reato colposo, anche se, secondo un’opinione dottrinale minoritaria si tratterebbe di un reato doloso equiparato a quello colposo soltanto nel regime penale.
Riprendendo l’ultimo esempio proposto, si immagini che potesse essere estremamente evidente per chiunque che la pistola utilizzata da Caio fosse un giocattolo (dunque non idonea a cagionare alcuna offesa ad alcuno) e che Tizio fosse al corrente degli usuali atteggiamenti burloni di Caio. In tal caso, l’errore di valutazione di Tizio sarebbe considerabile colposo, in quanto normalmente evitabile adottando un comportamento diligente e prudente, e la sua reazione difensiva non sarebbe scriminata ex art. 52 c.p., non ricorrendone i presupposti e non essendo questi “integrati” dal disposto dell’art. 59, co. 4, primo periodo, c.p.. Conseguentemente, Tizio sarebbe punibile per lesioni personali colpose ex art. 590 c.p.. (MOLTO BENE)
A integrazione di quanto poc’anzi illustrato, preme evidenziare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’accertamento dell’efficacia esimente della legittima difesa putativa deve essere effettuato con un giudizio ex ante relativo alle specifiche circostanze del caso concreto, onde valutare se la particolare situazione in cui si era trovato a reagire l’agente fosse oggettivamente tale da far sorgere nello stesso l’erroneo convincimento di trovarsi nelle condizioni di fatto che, se fossero state realmente esistenti, avrebbero escluso l’antigiuridicità della sua condotta prevista dalla legge come reato. Invero, l’errore che può giustificare la legittima difesa putativa deve essere stato indotto da un fatto obiettivo che, seppur malamente rappresentato o compreso, abbia avuto comunque la possibilità di determinare nell’agente la (comprensibile/ragionevole) persuasione di trovarsi esposto al pericolo (attuale) di un’offesa ingiusta. In altri termini, la giurisprudenza di legittimità adotta un’interpretazione molto rigoristica dell’art. 59, co. 4, c.p., e richiede che l’errore dell’agente sia sorretto da circostanze di fatto – dunque da dati oggettivi e non meramente soggettivi – che possano ragionevolmente giustificarlo. La ratio di tale lettura della norma de qua pare rinvenibile nell’esigenza, di carattere generalpreventivo e probatorio (fermo restando il dettato dell’art. 530, co. 3, c.p.p.), di evitare che l’agente alleghi pretestuosamente l’errore sulla legittima difesa (o su qualsiasi altra causa di giustificazione) al solo scopo di tentare di eludere la propria responsabilità penale; condotta processuale che risulterebbe assai agevole laddove fosse consentito di basarsi esclusivamente sulle asserzioni dell’agente imputato, rendendo impossibile per il giudice un’analisi critica delle stesse, e ampliando probabilmente fin troppo il campo di applicazione della legittima difesa putativa (o di qualsiasi altra scriminante putativa). BENE
Illustrato il dettato normativo dell’art. 59, co. 4, c.p., e la chiave di lettura fornitane dalla giurisprudenza, è ora possibile passare a riflettere sulla ratio di tale disciplina. Il dibattito dottrinale al riguardo sembra essere caratterizzato dalla presenza di due orientamenti contrapposti: (i) da un lato, quello che interpreta l’art. 59, co. 4, c.p., in termini di esclusione del dolo; (ii) dall’altro, quello che lo interpreta nel senso di escludere la colpevolezza. Quest’ultima tesi si fonda sulla teoria tripartita del reato, in base alla quale il terzo elemento costitutivo del reato dopo la tipicità e l’antigiuridicità in senso normativo (dove “normativo” è inteso a distinguere tale concezione da quella ormai superata della colpevolezza in senso psicologico), è costituito proprio dall’assenza di cause di esclusione della colpevolezza .
I sostenitori del primo orientamento evidenziano che quando ricorre una situazione come quella delineata dall’art. 59, co. 4, primo periodo, c.p., in cui l’agente commette il fatto nell’erronea (e incolpevole) convinzione di stare agendo per legittima difesa, l’atteggiamento psicologico dell’agente è incompatibile con l’elemento soggettivo del dolo: invero, in una simile ipotesi difetta la volontà di porre in essere un fatto costituente reato, essendo preliminarmente viziata dall’errore la rappresentazione del fatto tipico di tale reato. (BENE)
Si torni per un momento all’esempio proposto sub art. 59, co. 4, primo periodo, c.p., in cui Tizio aveva cagionato delle lesioni personali a Caio, tramortendolo con un pugno, ritenendo di starsi legittimamente difendendo dal tentativo di quest’ultimo di provocarne la morte con una pistola, convincimento poi rivelatosi erroneo in ragione del fatto che la condotta di Caio non voleva essere offensiva ma meramente scherzosa dal momento che era stata utilizzata, un’arma giocattolo. Ai sensi dell’art. 43, co. 1, c.p., un delitto è doloso quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione. Ai sensi dell’art. 582, co. 1, c.p., è punito per lesioni personali dolose chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente. Nell’esempio in esame, secondo i fautori del primo orientamento dottrinale di cui si discute, Tizio non avrebbe agito con dolo in quanto, al momento del fatto, non avrebbe dato un pugno a Caio prevedendo e volendo cagionargli una lesione personale (art. 582, co. 1 c.p.) ma ritenendo di esservi costretto dalla necessità di difendere in modo proporzionato il proprio diritto alla vita e all’integrità fisica contro il pericolo attuale essere ingiustamente colpito dall’arma da fuoco maneggiata da Caio con fare apparentemente minaccioso (art. 52, co. 1, c.p.). (BENE)
Come appare evidente dall’esempio di cui sopra, questo primo orientamento tende a fornire una versione peculiare del concetto di dolo, intendendolo non tanto come rappresentazione e volizione di un fatto corrispondente a una fattispecie incriminatrice ma come rappresentazione e volizione di un fatto qualificabile come lecito, in virtù delle cause di giustificazione (nella specie, quella della legittima difesa), e per questo è criticato dai sostenitori del secondo orientamento.(BENE)
Questi ultimi, come anticipato, ritengono che la ratio dell’art. 59, co. 4, primo periodo, c.p., sia da ravvisare nell’assenza di colpevolezza in senso normativo, osservando che l’agente, pur errando (incolpevolmente) circa la sussistenza dei presupposti fattuali di una causa di giustificazione (nel caso della legittima difesa: di quelli indicati dall’art. 52 c.p.), agisce comunque con la consapevolezza e la volontà di realizzare un fatto corrispondente alla fattispecie incriminatrice (quindi: con dolo) ma erra sull’illiceità della sua condotta, cosicché il suo comportamento non sarebbe rimproverabile e l’ordinamento ne terrebbe conto attraverso l’art. 59, co. 4, primo periodo, c.p..
La giurisprudenza non sembra aver ancora avuto modo di esprimersi su questo tema ma il fatto che interpreti l’art. 59, co. 4, c.p., come visto precedentemente, nel senso di richiedere l’allegazione di circostanze di fatto che possano ragionevolmente giustificare l’errore dell’agente, sembrerebbe indicare – almeno prima facie – una propensione per questo secondo orientamento. Invero, concetti come quello di “ragionevolezza” e di “giustificabilità” dell’errore sembrano rimandare al principio espresso dalla Corte Costituzionale in materia di errore sulle disposizioni penali, ove la responsabilità dell’agente è stata esclusa per la mancanza di colpevolezza in senso normativo in tutti quei casi in cui l’ignoranza da parte sua della legge penale si sia rivelata inevitabile e perciò scusabile (dichiarando parzialmente illegittimo l’art. 5 c.p. in quanto in contrasto, sotto questo profilo, con l’art. 27, co. 1 e 3, della Costituzione). (BENE)
Volendo esemplificare Tizio avrebbe agito con dolo in quanto, al momento del fatto, avrebbe dato un pugno a Caio prevedendo e volendo cagionargli una lesione personale (art. 582, co. 1 c.p.) ma avrebbe pensato, al contempo ed erroneamente, che la sua condotta fosse lecita in quanto dovuta a legittima difesa (art. 52, co. 1, c.p.) e in ragione di tale errore inevitabile la sua condotta sarebbe comunque scriminata putativamente.
Tuttavia, anche questo secondo orientamento è stato oggetto di critiche nella misura in cui parrebbe difficile conciliare l’esclusione della responsabilità dell’agente per l’assenza di colpevolezza in senso normativo con il dettato dell’art. 59, co. 4, secondo periodo, c.p., il quale, come precedentemente illustrato, fa espresso riferimento alla colpa quale elemento psicologico del reato. Sicché, la questione non pare al momento potersi dire definitivamente risolta. (BENE)
Ciò detto, pare opportuno soffermare, sia pur brevemente, l’attenzione sul rapporto tra l’art. 59, co. 4, c.p., e l’art. 55 c.p., il quale detta la disciplina dell’eccesso colposo nelle cause di giustificazione (nel caso che qui ci occupa: nella legittima difesa). Analogamente a quanto previsto dall’art. 59, co. 4, secondo periodo, c.p., anche l’art. 55 c.p. fa discendere da un errore colposo l’inapplicabilità di una scriminante laddove il fatto corrisponda a una fattispecie incriminatrice colposa. Tuttavia, mentre nel primo caso l’errore colposo verte sull’esistenza (in realtà assente) dei presupposti fattuali di una scriminante (nel caso della legittima difesa, ad esempio, sull’esistenza di un pericolo attuale di subire un’offesa ingiusta), nel secondo caso, l’errore investe le modalità di condotta con cui l’agente eccede (involontariamente ma colpevolmente) i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità di difendersi da un’offesa altrui così superando i limiti di proporzionalità tra condotta offensiva e condotta difensiva imposto dall’art. 52 c.p.
Ferma restando tale distinzione, la giurisprudenza di legittimità ha però avuto modo di esaminare anche casi in cui sussistevano contemporaneamente tanto una scriminante putativa quanto l’eccesso colposo in tale scriminante. In simili ipotesi, l’agente aveva ritenuto per errore incolpevole che esistesse una scriminante (in realtà, per l’appunto, inesistente) ma nell’agire aveva comunque trasceso colpevolmente i limiti consentiti dalla disciplina di tale scriminante. Nel caso della legittima difesa, per esempio, ciò si potrebbe verificare laddove Tizio, preso dal panico perché sentitosi minacciato da Caio , in base ad una convinzione poi rivelatasi infondata, lo abbia colpito d’impulso con un coltello nonostante il presunto aggressore fosse disarmato.
In conclusione, coerentemente ai principi cardine del diritto penale moderno e in particolare a quello di colpevolezza, il codice penale italiano consente la commissione di fatti che normalmente integrerebbero fattispecie incriminatrici se giustificati dalla circostanza di essersi dovuti legittimamente difendere e ciò anche nel caso in cui tale circostanza non fosse reale ma frutto di un errore di valutazione incolpevole dell’agente (purché suffragato, come richiesto dalla giurisprudenza, da dati di fatto che lo facciano apparire ragionevole e dunque scusabile), lasciando invece inalterata la punibilità di condotte integranti fattispecie incriminatrici colpose laddove tale errore sia a sua volta rimproverabile all’agente a titolo di colpa. Tuttavia, mentre la disciplina della legittima difesa opera su di un piano oggettivo (ossia a prescindere dalla circostanza che l’agente fosse consapevole dell’applicabilità di tale scriminante al fatto posto in essere), quella della legittima difesa putativa lo fa su di un piano soggettivo e quindi indaga se l’errore sull’esistenza della scriminante sia stato determinato o meno da colpa dell’agente.
PiùChe sufficiente
Elaborato molto ben scritto (anche se l’uso della parentesi lo affatica un po preceduto da adeguata scaletta e frutto di approfondita riflessione sulle norme.
Ottima l’esemplificazione.
Bravo Emilio.. credo siamo al punto di svolta
Maria
Il concorso apparente di norme penali e il concorso di reato. Criteri di assorbimento.
di Andrea Marabini
norme: art. 15 c.p.
schema:
– nozione;
– differenze e rapporto;
– specialità in astratto;
— specialità in concreto;
— specialità bilaterale;
– criteri valutativi, ratio;
– sussidiarietà;
– assorbimento-consunzione ne bis in idem sostanziale;
– clausole di riserva, ratio;
– conclusione.
Il concorso di norme penali può essere apparente o reale.
Il concorso apparente di norme penali si configura quando ad uno o più fatti appaiano astrattamente applicabili più norme incriminatrici, mentre una sola di esse è in concreto applicabile. (BENE)
Il concorso reale di norme penali, o concorso di reati, si configura quando ad uno o più fatti sono in astratto e in concreto applicabili più norme incriminatrici.
Concorso apparente di norme e concorso di reati sono quindi istituti reciprocamente escludenti, nel senso che, in relazione ad una medesima fattispecie, la configurabilità dell’uno comporta necessariamente l’inconfigurabilità dell’altro: o sussiste concorso apparente di norme, perché tra le norme astrattamente applicabili una sola lo è in concreto, oppure sussiste concorso di reati, in quanto una pluralità di norme astrattamente applicabili devono in concreto essere tutte applicate.(BENE)
Onde stabilire se la possibile applicabilità ad una medesima fattispecie di più norme incriminatrici sia soltanto apparente (concorso apparente di norme) oppure sia reale (concorso di reati) assume rilievo l’art. 15 c.p. e l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale maturata in materia.
L’art. 15 c.p. esprime il c.d. criterio logico di specialità in astratto, in forza del quale la norma speciale deroga e deve essere applicata in luogo della norma generale che regola la stessa materia. (BENE)
Una norma è speciale rispetto ad un’altra (generale) quando (la norma speciale) contempla tutti gli elementi costitutivi della seconda (norma generale) oltre ad uno o più elementi specializzanti.
Gli elementi specializzanti possono essere per aggiunta, quando costituiscono elementi non contemplati dalla norma generale, ovvero per specificazione, quando rappresentano una sottoclasse degli elementi già contemplati dalla norma generale. (MOLTO BENE)
La relazione di specialità tra fattispecie astratte è tale per cui se non esistesse la norma speciale, il fatto ivi descritto rientrerebbe nell’ambito di applicazione della norma generale che regola la stessa materia. In senso figurativo tale relazione può essere rappresentata come due cerchi concentrici di diametro diverso, in cui quello più ampio contiene in sé quello minore, ed abbia, inoltre, un settore residuo, destinato a ricomprendere gli elementi specializzanti. (MOLTO BENE)
Ne consegue che, laddove ad una fattispecie siano astrattamente applicabili più norme incriminatrici, si configura un concorso apparente di norme e trova applicazione una sola di esse (quella speciale) laddove esse regolino la stessa materia e si pongano in rapporto di specialità nei termini descritti.
Secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza la locuzione “stessa materia” di cui all’art. 15 c.p. dovrebbe essere interpretata come indicante il bene giuridico tutelato, con l’effetto che l’operatività del principio di specialità dovrebbe essere subordinata all’ulteriore requisito dell’identità (o alla omogeneità) dei beni giuridici tutelati dalle norme astrattamente applicabili. (BENE)
Tale assunto, che appare smentito dalla giurisprudenza delle sezioni unite della Cassazione e non sembra trovare fondamento nel dato normativo, sembra tuttavia trovare eco in alcune pronunce recenti, in quanto ritenuto necessario per la risoluzione delle problematiche sottese.
Altra parte della giurisprudenza ritiene invece che il criterio logico della specialità in astratto, ancorché sia l’unico espressamente previsto dalla legge, non sarebbe di per sé sufficiente a regolare la tematica in esame e ritiene necessario affiancare ad esso ulteriori criteri, di tipo valutativo, che sarebbero implicitamente contemplati dal sistema codicistico. (BENE)
In particolare, alcune impostazioni teoriche, pur fondandosi sul principio di specialità ex art. 15 c.p., ne ridefiniscono la portata applicativa. Altre impostazioni affiancano invece al principio di specialità ulteriori criteri.
Nel primo gruppo di ipotesi rientra anzitutto la ricostruzione secondo cui il principio di specialità sarebbe operante anche quando una medesima fattispecie sia riconducibile in tutti i suoi elementi ad una pluralità di norme, pur se tra le medesime non sussiste una relazione da genere a specie in astratto (c.d. specialità in concreto).
Tale opzione interpretativa, che muove dall’assunto per cui il concetto di “stessa materia” dovrebbe essere interpretato nel senso di “stesso fatto”, pare esporsi a critiche difficilmente superabili.
Innanzitutto, il concetto di “stessa materia” non appare idoneo sotto il profilo semantico a ricomprendere o ad esaurirsi in quello di “stesso fatto”.
In secondo luogo, l’applicazione rigorosa di tale criterio porterebbe a non ritenere mai configurabile il concorso di reati in luogo del concorso apparente di norme, in quanto consente di porre in relazione di specialità fattispecie e materie affatto diverse. (BENE)
Altra critica è che tale teoria non indica in realtà un criterio certo idoneo alla risoluzione dei conflitti, in quanto tra norme marcatamente eterogenee non consente di individuare quale sia quella speciale rispetto all’altra. Ed ancora, il dato letterale dell’art. 15 c.p. sembra presuppore un confronto tra norme e non tra fatti, sicché non appare possibile configurare una relazione di specialità in concreto se essa non risulti configurabile in astratto.(BENE)
Sempre muovendo dal principio di specialità ex art. 15 c.p., altra parte degli interpreti ritiene che esso possa configurarsi anche in senso bilaterale o reciproco (c.d. specialità bilaterale o reciproca).
In particolare, si configurerebbe una relazione di specialità bilaterale o reciproca quando ciascuna norma sia ad un tempo generale e speciale, perché entrambe presentano, accanto ad un nucleo di elementi comuni, elementi specifici ed elementi generici rispetto ai corrispondenti elementi dell’altra.
Tale impostazione, che pare legata alla struttura astratta delle norme in relazione, sembra fornire un contributo utile più su un piano descrittivo che applicativo, in quanto non risulta agevole stabilire in base a quali parametri debba essere scelta la norma in concreto applicabile, ed essendo il criterio della maggior gravità della pena di carattere eminentemente soggettivo. (BENE)
Come accennato, un secondo gruppo di ipotesi interpretative muove dall’assunto secondo cui il criterio di specialità sarebbe insufficiente a sciogliere l’alternativa tra concorso apparente di norme e concorso di reati ed affiancano ad esso ulteriori criteri valutativi.
Tra essi va in primo luogo menzionato il criterio di sussidiarietà.
Secondo questa linea di pensiero esso trova applicazione quando due norme contemplino gradi o stadi diversi di offesa allo stesso bene giuridico, così che l’offesa maggiore assorbe la minore.
La sussidiarietà può essere espressa (quando esiste una clausola di riserva) ovvero tacita (quando è desumibile in via interpretativa) ed una norma è sussidiaria rispetto ad un’altra (principale), quando quest’ultima tuteli, accanto al bene giuridico protetto dalla prima norma, uno o più beni ulteriori ovvero reprima un grado di offesa più intenso allo stesso bene.
Altra ricostruzione teorica risolve la problematica in esame facendo ricorso agli ulteriori criteri di consunzione-assorbimento o ne bis in idem sostanziale. (BENE)
Secondo queste teorie deve ritenersi configurabile il concorso apparente di norme in luogo del concorso di reati tutte le volte in cui l’applicazione di una sola delle norme astrattamente applicabili esaurisca l’intero disvalore del fatto sotto il profilo oggettivo e soggettivo, e ciò in nome di esigenze equitative rinvenibili nel sistema.
In particolare, secondo autorevole dottrina il principio di consunzione-assorbimento si applica quando la realizzazione di un reato comporta secondo l’id quod plerumque accidit la commissione di un secondo reato più grave, il quale, ad una valutazione normativo-sociale, apparirebbe assorbito dal primo, ovvero, secondo una variante di tale teoria, quando la commissione di un reato è strettamente funzionale ad un altro e più grave reato, la cui previsione “consuma” e assorbe in sé l’intero disvalore del fatto concreto.
Tali criteri, in quanto valutativi e non previsti dalla legge, sono ritenuti inapplicabili dalla giurisprudenza prevalente, mentre secondo parte della dottrina e della giurisprudenza il loro fondamento andrebbe rinvenuto non solo in una esigenza di giustizia sostanziale, ma nelle stesse norme del codice che contemplano le c.d. clausole di riserva, in quanto esse sarebbero espressione normativa di tali criteri, che, pertanto, potrebbero essere applicati oltre i casi espressamente previsti laddove si riscontri la medesima ratio. (BENE)
In particolare, le clausole di riserva sono dei precetti presenti in varie norme incriminatrici che subordinano l’applicabilità della norma alla non applicabilità di altra norma, variamente individuata, ed hanno la funzione di escludere il concorso di reati, a favore del concorso apparente di norme.
Diversa è la ratio sottesa alle diverse clausole di riserva.
Talora esse esprimono una logica di sussidiarietà: la norma che contiene la clausola appresta una tutela sussidiaria rispetto alla tutela apprestata dalla norma principale richiamata, nel senso che quest’ultima incrimina uno stadio più avanzato o un grado maggiore di offesa allo stesso bene giuridico (es. cfr. art. 316-ter c.p.: “salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640 bis”).
In altri casi la clausola di riserva esprime invece una logica di consunzione, tale per cui la non punibilità della condotta successiva si giustifica in quanto la punizione della condotta anteriore esaurisce l’esigenza di repressione, costituendo risposta adeguata al disvalore del fatto complessivamente considerato (es. post-fatto non punibile).(BENE)
In altri casi ancora le clausole di riserva sottendono entrambe le logiche (es. art. 600-quater c.p., detenzione di materiale pedopornografico, in relazione alla condotta di detenzione conseguente a produzione di materiale pedopornografico e alla condotta di detenzione antecedente alla divulgazione).
In conclusione, al fine di risolvere l’alternativa tra concorso apparente di norme e concorso di reati la giurisprudenza delle sezioni unite appare orientata nel ritenere applicabile il solo criterio della specialità unilaterale in astratto, mentre parte della giurisprudenza ritiene tale criterio logico insufficiente e ritiene applicabili ulteriori criteri valutativi rinvenendone il fondamento nel sistema codicistico.
Ampiamente sufficiente
Nulla da dire ne sotto il profilo di forma che quello di sostanza.. dal punto di vista teorico, praticamente perfetto,. Forse sarebbe stato utile qualche esemplificazione…
Comunque, molto Bene
Maria
ALBERTO | Il candidato, dopo aver esaminato l’istituto del trust interno, ne esamini caratteristiche e funzione economico-sociale, individuandone i limiti di riconoscimento secondo l’ordinamento giuridico italiano, con particolare riferimento all’art. 2645-ter c.c.. Ne illustri altresì gli elementi differenziali con il fondo patrimoniale e la fondazione oltre che la sua assoggettabilità all’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c.
SCALETTA
- Negozio fiduciario: definizione
- Fiducia cum creditore: divieto del patto commissorio
- Fiducia cum amico: ammessa! Quanto meno nei limiti di fiducia romanistica
- Caratteristica di fiducia romanistica è che fiduciario è proprietario formale e sostanziale -> eventuale ritrasferimento ex 2932 e pignorabilità
- Diverso modello fiducia “germanistica”: proprietario formale fiduciario, ma sostanzialmente fiduciante
- Unico esempio nel codice è mandato ad acquistare beni mobili: “rivendicare”
- Esempio che sembra diffondersi dai paesi anglosassoni di fiducia germanistica è il trust
- Settlor – trustee – beneficiary
- Ciò che propriamente distingue il trust da negozio fiduciario tradizionale è fiducia germanistica -> scissione proprietà -> segregazione patrimoniale
- Tensione con 2740: riserva di legge ex comma 2
- Al fine di comprendere ratio bisogna analizzare istituti di segregazione
- -> patrimoni destinati
- Sostituzione fedecommissaria
- Fondo patrimoniale (opponibilità, onere probatorio)
- Fondazione: attenzione! Personalità giuridica!
- 2645-ter (trascrizione o sostanziale? Obbligazione o diritto reale?)
- Da questa analisi si vede ratio: segregazione in seguito a destinazione meritevole di tutela
- Quindi ammessa segregazione per trust? Differenza fondo patrimoniale, fondazione e soprattutto 2645-ter
- Trust esterno: convenzione, ma… meritevolezza! No trust liquidatorio, ma sottolineare comunque revocabilità
- Trust interno: stesse conclusioni
- Problemi per trust meramente interno: nessun criterio di conflitto
- Può essere convenzione stessa fondamento?
- No, perché solo norma di conflitto
- Sì, è norma sostanziale e art. 13
- Oggi comunque problema forse superato col “ dopo di noi”
SVOLGIMENTO
Il negozio fiduciario è il contratto con il quale un soggetto, detto fiduciante, trasferisce ad un altro soggetto, detto fiduciario, la proprietà di un bene perché questi lo amministri nell’interesse del fiduciante stesso o di un terzo beneficiario e successivamente lo ritrasferisca al fiduciante o al beneficiario.(Bene)
La fiducia può essere cum creditore, volta all’alienazione di un bene a scopo di garanzia: tale negozio è però spesso in frode al divieto del patto commissorio e dunque illecito ex artt. 1344 e 2744 c.c.(bene)
Sicuramente ammessa è invece la fiducia cum amico, volta alla gestione del bene, senza alcuno scopo di garanzia.
Nell’ordinamento italiano tradizionale di derivazione romanistica il fiduciario diviene proprietario a tutti gli effetti di legge: autorevole autore ha quindi ritenuto che nel negozio fiduciario “romanistico” la causa tipica ecceda il motivo, in quanto il mero scopo gestorio è attuato a mezzo dell’integrale trasferimento del diritto dominicale.
Si sottolineano in particolare due precipitati applicativi della fiducia c.d. romanistica. Da una parte, l’obbligo di ritrasferimento è tutelato esclusivamente in via obbligatoria a mezzo dell’azione ex art. 2932 c.c., con salvezza dei terzi sub-acquirenti: tuttalpiù, sarà ipotizzabile un obbligo risarcitorio in capo al terzo che abbia acquistato in mala fede, ossia conscio del rapporto fiduciario violato. Dall’altra, i creditori del fiduciario possono soddisfarsi sui beni oggetto di fiducia, che fanno pienamente parte del patrimonio del fiduciante. (BENE)
Un diverso modello di negozio fiduciario si ha nella tradizione anglosassone (fiducia germanistica). In esso, si assiste a una scissione fra proprietà formale, in capo al fiduciario, e proprietà sostanziale, che, nonostante l’atto di trasferimento, permane in capo al fiduciante.
Secondo l’interpretazione maggioritaria, l’unico esempio di fiducia germanistica nel codice italiano del 1942 è rinvenibile nel mandato ad acquistare cose mobili senza rappresentanza. Infatti, essendo il mandatario privo di potere rappresentativo, egli diviene proprietario, almeno formale, della cosa acquistata per conto del mandante. Così, nel mandato ad acquistare beni immobili, il mandatario è obbligato a ritrasferire la proprietà, obbligazione eseguibile ex art. 2932 c.c. Invece, l’art. 1706 co. 1 c.c., nel caso di mandato ad acquistare cose mobili, concede al mandante l’azione di rivendica delle cose acquistate dal mandatario: tale azione denuncia, secondo i più, che la proprietà sostanziale è in capo al mandante, nonostante la mancanza di procura faccia permanere a proprietà formale in capo al mandatario. (BENE)
Negli ultimi decenni la circolazione dei modelli giuridici sta favorendo l’importazione nell’ordinamento italiano di un altro istituto di origine anglosassone di fiducia germanistica: il trust. Esso si caratterizza per il fatto che un soggetto, c.d. settlor, trasferisce la proprietà formale ad un altro, detto trustee, perché questi gestisca la cosa nell’interesse suo o di un beneficiary.
Come detto, però, trattandosi di istituto germanistico, il settlor mantiene sul bene la proprietà sostanziale. La più importante conseguenza di tale scissione fra proprietà formale, in capo al trustee, e sostanziale, in capo al settlor, è che il bene non entra a far parte del patrimonio del trustee ad ogni effetto, ma vi rimane “segregato” e destinato esclusivamente allo scopo del trust. Per l’effetto, i creditori del trustee non potranno soddisfarsi sui beni oggetto del trust, perché, appunto, mai del tutto entrato a far parte del patrimonio del trustee.(BENE)
Tale scissione fra proprietà formale e sostanziale e tale segregazione hanno portato parte della dottrina a revocare in dubbio l’ammissibilità del trust nell’ordinamento italiano. Infatti, l’art. 2740 c.c., che, come è noto impone il principio della garanzia patrimoniale generica, dispone che il debitore risponde con tutti i suoi beni presenti e futuri, non potendosi ammettere che l’autonomia privata segreghi taluni beni, sottraendoli alla garanzia generica dei creditori. In altri termini, giusta detta norma, se il trustee è proprietario dei beni oggetto del trust, questi devono essere posti a garanzia di tutti i suoi debiti, personali e non , così come previsto per il negozio fiduciario “romanistico”. Il secondo comma dell’art. 2740 c.c. pone infatti una riserva di legge alle “limitazioni di responsabilità” e, dunque, non sono ammissibili fenomeni di segregazione patrimoniale istituiti per convenzione privata.
Al fine di comprendere la ratio delle ipotesi di segregazione patrimoniale regolate dalla legge e, dunque, l’eventuale ammissibilità del trust, occorre brevemente passare in rassegna i più importanti istituti all’uopo regolati dal codice civile.
Un primo esempio sono i “patrimoni destinati ad uno specifico affare”, regolati dagli artt. 2447-bis ss. c.c., che, se trascritti al registro delle imprese, consentono di sottrarre ai creditori sociali taluni beni della società, sui quali possono soddisfarsi solamente coloro che abbiano un credito contratto in relazione all’affare specifico (BENE).
Poi, nell’ambito della sostituzione fedecommissaria, i creditori personali dell’istituito possono soddisfarsi solo sui frutti dei beni oggetto della sostituzione: tale segregazione è giustificata dal fatto che beneficiario della sostituzione è un soggetto debole, ossia un interdetto. Peraltro, detta giustificazione è l’unica che può legittimare la sostituzione fedecommissaria in sé, da considerarsi in ogni altra ipotesi illegittima (BENE).
Importante nella tradizione civilistica è il fondo patrimoniale, regolato dagli artt. 167 ss. c.c. Trattasi di destinazione, operata per atto pubblico dai coniugi o da un terzo, anche per testamento, di determinati beni ai bisogni della famiglia, con ultrattività, in caso di crisi familiare, fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio. Essendo un patrimonio destinato ai bisogni della famiglia, su di esso non si possono soddisfare i creditori che sapevano che l’obbligazione era stata contratta per scopi estranei ai bisogni di questa. Tuttavia, è onere dei coniugi provare che il creditore era a conoscenza di tale estraneità, tenendo presente che possono essere ritenuti funzionali alla famiglia debiti con qualunque causa, anche extracontrattuale, purché contratti nell’ambito della gestione del ménage. Perché sia opponibile tale destinazione, è comunque necessario che l’istituzione del fondo sia annotata a margine dell’atto di matrimonio, mentre la trascrizione ai registri immobiliari, in quanto non richiamata dall’art. 2644 c.c., ha funzione di mera pubblicità notizia.(BENE)
Importante istituto di segregazione è anche la fondazione. Essa si caratterizza però per il fatto di dar luogo ad una persona giuridica distinta dal fondatore: in altri termini, se i beni conferiti in fondo patrimoniale sono pur sempre in proprietà dei coniugi, o anche di solo di uno, con l’atto di fondazione il fondatore si spoglia dei beni, conferendoli in una persona giuridica da lui distinta. Il patrimonio della fondazione è dunque gestito da amministratori e, su di esso, attesa l’utilità sociale della fondazione, veglia l’autorità amministrativa, nella specie il Prefetto.(BENE)
Il d.l. 273/2005, conv. in L. 51/2006, ha inserito nel codice civile l’art. 2645-ter, il quale dispone che possono essere trascritti gli atti pubblici che destinano a scopi meritevoli di tutela determinati beni per un periodo di tempo non superiore a novant’anni o alla vita del beneficiario: detti beni possono essere oggetto di esecuzione solo per crediti riferiti a tale scopo. La latitudine di tale norma, riferentesi genericamente a “interessi meritevoli di tutela […] ai sensi dell’art. 1322 c.c.”, ha creato numerosi interrogativi in dottrina.(BENE)
Innanzitutto, parte della dottrina aveva opinato trattarsi di una mera norma sulla trascrizione, ossia legittimante la trascrizione delle forme di segregazione patrimoniale già previste dall’ordinamento. Tale impostazione è stata presto abbandonata sulla scorta del fatto che tutti questi istituti sono già trascrivibili e, dunque, l’art. 2645-ter deve essere letto come norma sostanziale.
Appurato dunque che l’art. 2645-ter c.c. è norma sostanziale, parte della dottrina l’ha ritenuto istitutivo di un nuovo diritto reale, come testimoniato dalla trascrivibilità del vincolo. La dottrina maggioritaria ha invece ritenuto trattarsi di mera obbligazione: infatti, l’atipicità delle ipotesi di destinazione violerebbe il principio di tipicità dei diritti reali e, ormai, la trascrizione non è più esclusivo appannaggio dei diritti reali, come testimoniato dalla trascrivibilità delle locazioni ultranovennali; anzi, il fatto che venga esplicitamente disposta la trascrizione dimostra ulteriormente il carattere meramente obbligatorio del vincolo, atteso che i diritti reali sono per natura trascrivibili e dunque, altrimenti opinando, la norma sarebbe inutile.
Peraltro, l’art. 2645-ter c.c. non è richiamato dall’art. 2644 c.c. e, dunque, la trascrizione non ha efficacia dichiarativa, dovendosi piuttosto individuare il dies a quo di opponibilità ai terzi nella data certa dell’atto, portata a loro conoscenza con la trascrizione.
Alla luce di quanto esposto, emerge che i fenomeni di segregazione patrimoniale sono tipizzati dalla legge per cause meritevoli di tutela, tipiche (i bisogni della famiglia) o atipiche (2645-ter). Occorre dunque indagare se tali requisiti, ossia la presenza di una legge e la meritevolezza degli interessi, sono integrati dal trust.
Bisogna innanzitutto rilevare che il fondamento legislativo della segregazione patrimoniale operata col trust deve essere trovato in norma diversa da quelle sopra esposte, in quanto esso non può essere integralmente ricondotto a nessuno degli istituti summenzionati: non al fondo patrimoniale, perché il trust può avere molte cause anche non riconducibili ai bisogni della famiglia; non alla fondazione, in quanto per pacifica giurisprudenza il trust non ha autonoma personalità giuridica. Parte della dottrina aveva ritenuto che il trust fosse stato introdotto nell’ordinamento a mezzo dell’art. 2645-ter, ma tale opinione pare ormai superata per il fatto che detta norma ha dei limiti, di forma e di tempo, estranei all’istituto del trust, e, soprattutto, crea una destinazione statica, in luogo della possibile dinamicità della gestione del trust.(BENE, anche se non sono personalmente d’accordo,visto che l’effetto segregativo è ciò che caratterizza il negozio ex art. 2645 – ter e che la legge Dopo di Noi ha accomunato nella disciplina il trrust a tali negozi seppure ai soli fini di esenzione tributaria )
Ciò premesso, si rileva che il trust nei rapporti internazionali è regolato dalla convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, ratificata con L. 364/1989. Tale convenzione costituisce la legge fondativa del riconoscimento in Italia dei trust istituiti all’estero. Tuttavia, la giurisprudenza ha affermato che alla soddisfazione del requisito della riserva di legge deve sommarsi il secondo requisito sopra menzionato, ossia quello della meritevolezza degli interessi sottesi. Dunque, un trust “esterno” che persegua interessi immeritevoli di tutela non può essere in ogni caso riconosciuto in Italia, anche ai sensi dell’art. 15 della Convenzione medesima.
A titolo di esempio, non è stato ritenuto meritevole il trust “liquidatorio”, ossia una segregazione patrimoniale volta a sottrarre alcuni beni sociali alla par condicio dei creditori della società.
Tuttavia, si sottolinea che la lesione alla garanzia generica dei creditori può essere altresì evitata a mezzo dell’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. Con tale azione, infatti, i creditori possono far dichiarare rispetto a loro l’inefficacia del conferimento in trust e, dunque, ben possono eseguire le proprie ragioni sui beni conferiti. Peraltro, ove si ritenesse il trust atto a titolo gratuito, oggi la tutela dei creditori sarebbe rafforzata con l’esperibilità dell’actio pauliana invertita ex art. 2929-bis c.c.: laddove il trust sia stato concluso dopo il sorgere del credito, i creditori possono pignorare i beni addirittura senza previo esperimento dell’actio pauliana ordinaria, trascrivendo il pignoramento entro un anno dalla trascrizione del trust.
Si noti infatti per inciso che, secondo la dottrina maggioritaria, la Convenzione dell’Aja consente anche la trascrizione del trust, superando il principio di tassatività degli atti trascrivibili ex art. 2643 c.c. (BENE)
Poste queste conclusioni per il trust “esterno”, alle medesime si deve giungere per il trust “interno”, o parzialmente tale, ossia che sia concluso da cittadini italiani su beni esteri o da almeno un cittadino straniero su beni siti in Italia.
Decisamente problematico si è posto invece il problema dell’ammissibilità in Italia del trust “meramente interno”, ossia concluso in Italia da cittadini italiani su beni siti in Italia. (BENE)
Secondo parte della dottrina, infatti, in tale situazione mancherebbe qualsivoglia criterio di collegamento che giustifichi l’applicazione della Convenzione dell’Aja e, dunque, non sarebbe integrata la riserva di legge ex art. 2740 co. 2 c.c. Per l’effetto, in assenza di legge, l’istituzione del trust non potrebbe dunque avere effetto segregativo alcuno, dovendosi considerare i beni conferiti in piena proprietà del trustee, pignorabili dai suoi creditori personali: il che è dire che non è ammesso il trust puramente interno. Altra parte della dottrina, invece, ha opinato nel senso di ritenere la Convenzione dell’Aja non solamente una norma di conflitto, ma una vera e propria norma sostanziale, capace di introdurre essa stessa nell’ordinamento interno l’istituto del trust. Dunque, anche nel caso del trust meramente interno, la riserva di legge sarebbe integrata dalla Convenzione dell’Aja. Tutto ciò sarebbe ancor più vero considerando che l’Italia non ha mai esercitato la facoltà attribuita dall’art. 13 della Convenzione di non riconoscere trust strettamente connessi a ordinamenti che non conoscono tale istituto: detta omissione sarebbe vieppiù conferma della volontà del legislatore di far entrare nell’ordinamento interno l’istituto del trust a mezzo della legge di autorizzazione alla ratifica della Convenzione dell’Aja.
La giurisprudenza ha ormai da tempo valorizzato questa seconda impostazione, ammettendo così il trust meramente interno, purché persegua interessi meritevoli di tutela. La Corte di legittimità ha infatti opinato che la norma fondativa del riconoscimento è proprio la Convenzione la cui efficacia in Italia non può essere disconosciuta e ha dichiarato la nullità di un trust interno non caratterizzato dalla presenza di tre differenti centri di imputazione secondo quanto previsto dalla Convenzione negando in ogni caso al Trust autonoma soggettività giuridica ( Cass. Sez. n. 12718 del 2017 secondo cui “ il”trust”, che non è un soggetto giuridico dotato di una propria personalità, postula, in capo al “trustee”, una proprietà limitata nel suo esercizio in funzione della realizzazione del programma stabilito dal disponente nell’atto istitutivo a vantaggio del o dei beneficiari, sicché i tre centri di imputazione (disponente, “trustee” e beneficiario) non possono coincidere. In caso contrario, il “trust” è affetto da nullità rilevabile di ufficio, in nessun modo differendo la proprietà del “trustee” da quella piena, per violazione dell’art. 2 della Convenzione dell’Aja dell’1 luglio 1985, resa esecutiva in italia con l. n. 364 del 1989, entrata in vigore l’1 gennaio 1992. (In applicazione di tale principio, la S.C., avendo accertato la nullità di un “trust” nel quale i disponenti, soci di una s.r.l. posta in liquidazione e poi cancellata dal registro delle imprese, si erano autonominati “trustee” e primi beneficiari, ha affermato, in una controversia promossa da una lavoratrice per il conseguimento di indennità varie, la legittimazione passiva dei predetti soci, in quanto ritenuti responsabili ai sensi dell’art. 2495, comma 2, c.c.).
Occorre infine segnalare che la problematica sembra ormai superata per l’effetto dell’art. 6 L. 112/2016 (c.d. “dopo di noi”), che prevede benefici fiscali per l’istituzione di trust in favore di persone gravemente disabili. Tale norma pare dunque oggi implicitamente ammettere il trust meramente interno, pur vincolandolo alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela e così in qualche modo riconoscendo a tale negozio una sua autonoma collocazione nell’ordinamento italiano.
Ampiamente sufficiente
Tema ben scritto, preceduto da adeguata scaletta, chiaro ed esemplificativo sia dal punto di vista dottrinario che propriamente giurisprudenziale.
Buona la forma.
Lo pubblichiamo sul sito con il titolo
“La proprietà segregativa in Italia”
Bravo Alberto
Maria
BARBARA | IL CONSENSO DELL’AVENTE DIRITTO E IL REATO DI ISTIGAZIONE AL SUICIDIO.
SCALETTA:
- Il consenso dell’avente diritto: scriminante tipica art. 50 c.p.: ratio e fondamento; è scriminante di natura dichiarativa;
- Presupposti del consenso: libero, spontaneo, informato, attuale, revocabile e limitato nel tempo
- Si deve trattare di diritto disponibile: quali diritti posso considerarsi disponibili?
- L’istigazione o aiuto al suicidio: art. 580 c.p.
- Caratteri generali:
- bene giuridico protetto,
- condotte rilevanti: determinazione o rafforzamento della volontà dell’altrui proposito, agevolazione (rilevanza di una condotta materiale),
- elemento soggettivo: dolo
- rilevanza dell’avvenuto suicido: condizione obiettiva di punibilità;
- il consenso nell’aiuto al suicidio: può configurarsi la scriminante? Problema della disponibilità del bene vita: giurisprudenza e casistica recente.
- eutanasia e nuove DAT
SVOLGIMENTO
Il consenso dell’avente diritto costituisce una scriminante codificata dall’art. 50 c.p.
Le scriminanti sono rappresentate da condotte e fatti rientranti nell’ambito della fattispecie tipica, i quali, in presenza di determinati presupposti previsti dalla legge, perdono il carattere dell’antigiuridicità e quindi non possono ritenersi punibili. (BENE)
Parte della dottrina ritiene che le scriminanti rappresentino elementi negativi della fattispecie astratta, la cui assenza / esistenza deve essere in ogni caso accertata per affermare la configurazione o meno del reato (BENE, anche se nella pratica lo si fa automaticamente senza neanche pensarci).
La disciplina delle scriminanti si fonda su un giudizio di bilanciamento tra gli interessi tutelati dalla fattispecie penale e gli interessi che vengono in rilievo nella situazione scriminata, dando prevalenza a quest’ultimi ove abbiano valore superiore o quantomeno parificato rispetto a quello tutelato dalla norma penale (BENE).
A titolo esemplificativo, nella legittima difesa il bene tutelato dall’aggredito viene ritenuto prevalente rispetto all’interesse sacrificato dell’aggressore soggetto all’azione di reazione, purché quest’ultima risulti essere proporzionata all’offesa subita
La ratio della codificazione delle scriminanti risiede nel principio di non contraddizione dell’ordinamento, secondo il quale una condotta non può essere imposta o autorizzata e contemporaneamente punita.
L’assunto si desume in particolare nell’ambito delle scriminanti dell’esercizio del diritto o dell’adempimento del dovere (bene).
Su questi presupposti si fonda la scriminante del consenso dell’avente diritto, che giustifica l’azione lesiva o pericolosa di beni altrui nei casi in cui la vittima abbia manifestato validamente il suo consenso.
In questo caso la pretesa punitiva della Stato viene meno a fronte della volontà del soggetto, che può disporre del diritto, di rinunciare alla sua tutela.
Secondo la dottrina l’art. 50 c.p. configurerebbe una mera norma dichiarativa di un principio già insito nello stesso ordinamento, secondo il quale la facoltà di disporre dei propri diritti rientra nella nozione stessa di diritto, innanzi alla quale la potestà punitiva dello Stato irrimediabilmente cede. (bene)
Ai fini dell’operatività della scriminante in esame è necessario che il consenso sia validamente prestato e quindi sia libero e spontaneo, ossia prestato in modo autonomo e in assenza di qualsivoglia coercizione; inoltre esso deve essere attuale, informato, revocabile e passibile di limitazioni, anche temporali, da parte del suo titolare. Deve, infine, promanare da chi può validamente disporne, per cui esso dovrà essere manifestato dal suo titolare in possesso della capacità di agire. Pertanto non potrà disporre del diritto il minore o colui che sia incapace di intendere e volere secondo le norme del c.c.
Requisito importante della scriminante prevista dall’art. 50 c.p. è che il diritto che viene leso o messo in pericolo dalla condotta altrui sia disponibile.
In merito non sorgono questioni circa la disposizione di diritti a carattere patrimoniale, quali diritti di credito o diritti reali come la proprietà, mentre discussa è la possibilità di disporre di beni personalissimi e inerenti la persona. (BENE) In quest’ultimo caso non esiste una preclusione generale prevista dal legislatore, dovendosi distinguere i diversi beni della vita che possono venire in rilievo.
Con riferimento alla salute , l’art. 32 cost. prevede la possibilità per ognuno di decidere i trattamenti sanitari cui sottoporsi, salvo che si tratti di trattamenti obbligatori per legge.
L’integrità fisica può essere oggetto di disposizione se non comporti delle menomazioni fisiche permanenti e irreversibili e purchè non siano pratiche contrarie alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume (art. 5 c.c.). (BENE)
Al riguardo non può ritenersi violata l’integrità fisica nei casi di menomazioni su parti del corpo che si rigenerano spontaneamente come unghie e capelli o quelli, che seppur determinino una diminuzione permanente, siano finalizzati a scopi terapeutici propri (si pensi all’amputazione di una gamba in cancrena) o a vantaggio di altri soggetti (trapianto di rene da donatore in vita) (BENE).
Si ritiene inoltre che beni di rilevanza costituzionale, quali l’onore, la dignità personale, l’identità personale e la libertà sessuale, possono essere oggetto di disposizione purché non ne comporti una loro totale abolizione, trattandosi di beni insiti nella persona e come tali irrinunciabili.
Deve, invece, considerarsi bene non disponibile la vita, per cui ogni sua lesione o messa in pericolo determina una condotta penalmente rilevante, a prescindere da una volontà del soggetto titolare.
Secondo la dottrina e la giurisprudenza si tratta di un bene assoluto e irrinunciabile, come si desume dalle stesse norme del codice penale, il quale sanziona ogni comportamento diretto a ledere o far venire meno la vita altrui.
Emblematico al riguardo è l’ipotesi di reato di omicidio del consenziente, il quale punisce la condotta di chi cagiona la morte di un soggetto con il suo consenso (art. 580 c.p.). Altra ipotesi normativa che punisce le condotte pregiudizievoli o lesive del bene vita è il reato di istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) (BENE) .
La norma è diretta infatti a tutelare il bene della vita anche da quelle condotte che, seppur non cagionino in modo diretto la morte della persona, siano tali da condizionare il proposito suicida altrui.
L’art. 580 c.p. prende in considerazione tre specifiche ipotesi di condotte rilevanti: la determinazione del suicida verso il gesto estremo o il rafforzamento di un proposito suicida già esistente nonché l’agevolazione del soggetto nell’esecuzione del suicidio. (BENE)
Le prime due condotte prese in considerazione (di determinazione e rafforzamento) possono consistere in un contributo materiale o anche solo morale al suicidio altrui. Si pensi al caso di colui che mediante pressioni psicologiche o minacce induca un soggetto a togliersi la vita.
L’aiuto al suicidio invece consiste in una condotta materiale, che si esplica in atti che agevolino il soggetto nel suo proposito, interpretazione desumibile dallo stesso tenore letterale della norma che fa riferimento all’ “esecuzione” del suicidio.
A tal riguardo può prendersi in considerazione qualsiasi tipo di condotta (cfr. art. 580 c.p.), in quanto idonea e adeguata a portare a termine l’intento altrui di suicidarsi. Vengono quindi in rilievo atti preparatori all’atto suicida o anche atti contestuali al gesto, purché non si risolvano nella diretta esecuzione della morte stessa (altrimenti si verserebbe nella diversa ipotesi di cui all’art. 579 c.p.). (BENE)
Si pensi a colui che procuri la corda al suicida o che accompagni un soggetto a praticare l’eutanasia in uno Stato in cui è ammessa, tema quest’ultimo molto discusso nell’ambito della giustizia italiana odierna e del quale si accennerà nel prosieguo.
In merito all’elemento soggettivo, è necessaria la sussistenza del dolo, intesa come consapevolezza e volontà di determinare, rafforzare o agevolare l’altrui proposito suicida.
Ne deriva quindi che l’ignoranza dell’altrui proposito o la semplice minaccia o persuasione non possono rilevare, ove non vi sia anche la volontà di usare quella condotta per rafforzare, indurre o aiutare un soggetto al suicidio.
Ai fini della punibilità l’art. 580 c.p. prevede inoltre, come requisito essenziale, che il suicidio sia portato a termine. L’azione suicida si pone in questo caso come condizione obiettiva di punibilità, quale fattore esterno e indipendente dalla condotta del reo che ne condiziona la punibilità.
Va dato atto tuttavia come il suicidio secondo parte della dottrina configurerebbe l’evento dannoso, riconducibile causalmente alla condotta dell’agente e allo stesso riferibile sotto il profilo soggettivo.
Se il suicidio non avviene, la punibilità è esclusa, salvo che il tentativo di suicidio abbia arrecato lesioni gravi o gravissime al suicida.(BENE)
Il reato di cui all’art. 580 c.p. esclude quindi la possibilità di scriminare la condotta delittuosa prevista anche a fronte del consenso della vittima ai sensi dell’art. 50 c.p.
La questione si è posta di recente con riferimento all’aiuto al suicidio, nell’ambito del quale la condotta del soggetto si inserisce in un contesto in cui vi è una volontà suicida già formata e consapevole.
L’aiuto al suicidio presuppone infatti il consenso del suicida.
I problemi attuali si sono posti in particolare per quelle situazioni che vedono coinvolti soggetti in fin di vita e terminali, che si recano all’estero per praticare l’eutanasia con l’aiuto di familiari o persone di fiducia, condotta quest’ultima che può essere ricondotta pacificamente nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 580 c.p.
La mancata previsione e disciplina dell’eutanasia nel nostro Paese esclude infatti la possibilità di porre in essere qualsiasi condotta agevolativa o d’aiuto alla morte, anche di tipo terapeutico, seppur vi sia il consenso dell’avente diritto. Alla luce dei valori costituzionali, dovrebbe procedersi a una revisione dell’attuale panorama normativo affinché si predisponga una specifica disciplina sull’eutanasia e sul fine vita, situazione nelle quale spesso la vita perde il suo valore assoluto a fronte di interessi altrettanto fondamentali quali la dignità e il diritto a una morte dignitosa.
La giurisprudenza sul punto si è mostrata aperta a queste nuove problematiche, riconoscendo, in alcuni casi limite, l’irrilevanza penale delle condotte agevolatrici alla morte di pazienti che si trovavano in stato vegetativo o in situazioni di irreversibile ripresa delle funzioni vitali. (BENE)
Emblematico è il caso Welby, che riguardava un uomo affetto da una malattia invalidante tale da costringerlo alla respirazione artificiale e immobilizzato. In questo caso la Corte aveva escluso il reato di omicidio del consenziente verso il medico che aveva staccato il respiratore artificiale, rilevando come il consenso del paziente di rifiutare le cure fosse diritto inviolabile ai sensi dell’art. 32 Cost. Pertanto la condotta del medico rientrava nella scriminante dell’adempimento del dovere ai sensi dell’art. 51 c.p..(BENE)
Di rilievo è anche il recente caso di Dj Fabo, un giovane divenuto cieco e tetraplegico a seguito di sinistro stradale, che, con l’aiuto di un soggetto, si era recato in Svizzera per praticare l’eutanasia.
Sul punto, il Tribunale di Milano è stato investito della questione sulla configurabilità del reato di aiuto al suicidio in capo a colui che aveva accompagnato il paziente in altro Stato, aiuto quantomeno essenziale visto che il ragazzo era impossibilitato a muoversi da solo.
La Procura della repubblica (attenta è stata la Corte d’Assise di milano, perché Cappato era stato rinviato a giudizio dal Gip di Milano che aveva disatteso la richiesta di archiviazione) ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale al fine di vagliare la legittimità dell’art. 580 c.p., nella parte in cui condanna la condotta di chi agevoli il suicidio di persone capaci ma soggette a patologie irreversibili e sofferenze non superabili con le ordinarie cure, e la sua compatibilità rispetto a valori inderogabili quali la dignità umana, il diritto a una morte dignitosa e il diritto a non soffrire.
La Consulta, pur rilevando la costituzionalità dell’art. 580 c.p., ha invitato il Parlamento a una revisione della fattispecie penale alla luce di questi nuovi e preminenti valori della persona che vengono in rilievo nella fase della malattia e nel momento terminale della vita, affermatisi nella società odierna. (BENE, anche se c’è da dire che si è trovata un po in difficoltà visto che appena qualche anno prima aveva recisamente respinto analoga questione ritenendo il reato pienamente rispondente ai principi costituzionali )
La norma appare sul punto carente e lesiva della libertà del paziente di autodeterminarsi, ove non considera i casi limiti di soggetti affetti da patologie terminali o invalidanti ma comunque coscienti nei quali l’aiuto materiale di soggetti terzi si rivela quantomeno necessario per portare a termine le proprie decisioni sull’epilogo della vita.
Prima della pronuncia della Consulta, il Parlamento era già intervenuto con l’introduzione delle Dichiarazioni anticipate di trattamento (cd. DAT), che consentono ai cittadini di disporre, quando ancora capaci, dei trattamenti sanitari e diagnostici cui sottoporsi nel caso in cui si trovino in stato permanente di incoscienza e perdano la capacità di disporre dei propri diritti.
In questo caso il consenso diviene fonte scriminante per la configurazione del reato in capo al sanitario, al quale al contrario è preclusa la possibilità di intervenire con trattamenti terapeutici per i quali l’interessato ha manifestato previamente il suo rifiuto.
Seppur la normativa sulle DAT costituisce un risvolto importante nell’ambito della materia in esame, soprattutto innanzi all’accanimento terapeutico spesso ingiustificato, si auspica un intervento del legislatore che possa disciplinare in via definitiva l’eutanasia e il trattamento di fine vita, un passo importante per un Paese civile e democratico.
Piùche sufficiente
Tema ben svolto sia dal punto di vista formale che sostanziale.
Controlla la correzione che ho fatto su chi ha sollevato la questione di costituzionalità (che non può essere, comunque, un organo requirente) e cita la questione precedente. In sostanza la Corte non ha ritenuto che l’attuale norma incriminatrice sia passibile di annullamento e si è limitata a rinviare la decisione in attesa della pronuncia del legislatore (che secondo il mio modesto parere su questo argomento non si pronuncerà mai..)
Se integri, pubblichiamo sul sito..
Maria
GIOVANNI | TEMA DI DIRITTO PENALE
Il candidato, dopo aver inquadrato nelle sue linee generali il fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo, illustri l’ipotesi dell’abolitio di illecito penale sostituito con la previsione, per il medesimo fatto, di un illecito amministrativo o di un illecito civile alla luce dei decreti legislativo n. 7 e 8 del 15 gennaio 2016, con particolare riguardo all’ipotesi di fatti costituenti reati commessi in data anteriore e/o posteriore alla depenalizzazione con o senza intervento di giudicato penale.
- §§
Schema di redazione:
- Principio generale di irretroattività della legge;
- principio di irretroattività della legge penale;
- breve commento all’art. 2 c.p. e problemi applicativi;
- successione di leggi penali e successione di interpretazioni giurisprudenziali;
- depenalizzazione di reati e “scivolamento” delle relative fattispecie in materia civile o amministrativa;
- §§
Normativa di riferimento:
- Costituzione;
- Cedu;
- Carta di Nizza;
- Protocollo di New York;
- Codice penale;
- lgs. 7-8 del 15 gennaio 2016;
- n. 94 del 15 luglio 2009
Svolgimento del tema:
Ai sensi dell’art. 11, comma primo, prel., “la legge non dispone che per l’avvenire”, essendo precluso qualsivoglia effetto retroattivo della stessa.
È così regolata l’efficacia della legge nel tempo. Ne consegue che “le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori, per dichiarazione espressa del legislatore ovvero per incompatibilità tra le nuove disposizioni e quelle precedenti” (art. 15, comma primo, prel.). (BENE)
In questo modo l’organo legislativo garantisce una piena aderenza del dettato normativo alle esigenze della comunità tenendo conto del fisiologico progresso socio-culturale e tecnologico dell’ordinamento. Il disposto viene reso pubblico ed è cogente erga omnes a far tempo dalla data della pubblicazione in G.U.; ragione per cui solo a decorrere da tale data può esplicare i suoi effetti. (art. 10, comma primo, prel.). (BENE)
Nella stesura della Carta costituzionale, l’Assemblea ha posto l’articolo 25 Cost. in stretta correlazione con l’articolo 11 prel. testé citato, stabilendo che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Allo stesso modo, all’articolo 7, primo comma, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fa salvo che “nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale”. (BENE)
Per ragioni di completezza, devesi fare menzione dell’articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui “nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale”, nonché dell’articolo 15 del Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici dell’uomo (dalla portata pressoché identica). (BENE)
È chiaro il rimando alla legislazione in materia penale. Considerata la possibilità concessa a (e solo a) essa di limitare la capacità di autodeterminazione dell’uomo in presenza di condotte antisociali imputabili a lui medesimo, la Costituente ha voluto assicurare, qui più che altrove, che ciò avvenisse esclusivamente alla stregua di una regolamentazione certa (o quantomeno conoscibile) e in vigore. (BENE)
In via generale, un soggetto deve (poter) adeguare il proprio agire alle disposizioni vigenti al tempo in cui è capace di intendere e di volere (id est, in vita o almeno imputabile) ed essere messo al corrente (o nella facoltà di apprendere) di quello che la legge vieta o permette al momento di qualunque azione, a maggior ragione se ne può conseguire un trattamento sanzionatorio-detentivo. (BENE)
Si noti bene che “vigente” è sinonimo di “corrente”, susseguendone, quindi, l’inapplicabilità retroattiva di una legge a comportamenti umani anteriori alla sua emanazione perché non conoscibile.
Ecco perché il fenomeno della successione delle leggi nel tempo, meglio inquadrabile sotto il profilo del principio di irretroattività della legge, costituisce uno dei corollari essenziali del principio cardine degli ordinamenti moderni, ossia il principio di legalità (art. 25 Cost.).
Dal carattere della vigenza di una norma, dunque, dipendono la certezza (rectius, l’apprendimento) del diritto (e del “lecito”) e la libertà degli individui di orientare le loro azioni a seconda di quanto previsto dal legislatore, a prescindere dal fatto che siano sanzionabili o meno. (BENE)
“Conditio sine qua non” è che siano conoscibili.
Non può, però, non essere oggetto di approfondimento il già anticipato riferimento dell’articolo 25 della Costituzione alla disciplina penalistica. Nella specie si parla di irretroattività della legge penale; o meglio, di irretroattività della legge penale e retroattività della legge penale in bonam partem, configurandosi nel primo caso la regola generale e nel secondo l’eccezione: non sarà punibile, infatti, (né sarà punibile più) quel comportamento che la legge non prevede come reato in un’epoca successiva alla commissione del fatto (precedentemente incriminato). Cesseranno, altresì, l’esecuzione e gli effetti penali delle relative condanne. Non v’è dubbio che una condanna che poggia le basi su un reato che ha ad oggetto un fatto non rilevante penalmente sarebbe priva di peso giuridico e portata punitiva, ancorché coperta dal giudicato ovvero non divenuta ancora definitiva. Potrà, pertanto, essere oggetto di correzione da parte del giudice dell’esecuzione ex art. 673 c.p.p. quella sentenza che non ha tenuto conto della successione di leggi penali nel tempo in senso più favorevole per il reo. Più precisamente, nel caso di abrogazione della legge penale sulla quale si basa il giudicato (penale), la sentenza viene revocata dal giudice dell’esecuzione penale e ne cessano gli effetti; mentre quella non definitiva dovrà essere riformata nel senso di pervenire all’assoluzione del reo perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. (BENE)
Da un punto di vista teorico-formativo, la regola generale è dettata dal primo comma dell’articolo 2 del codice penale, il quale recita, in perfetta coincidenza con l’art. 25 Cost., che “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”.
Ciascun individuo deve essere messo nella condizione di distinguere le azioni od omissioni ammesse dall’ordinamento da quelle sanzionate penalmente. L’obiettivo de quo è perseguibile soltanto facendo riferimento a una legge chiara, precisa e, per l’appunto, vigente.
Il secondo comma dell’art. 2 c.p. appena citato dispone, inoltre, che “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali”.
Evidente sin da subito è l’intenzione del legislatore (del dopoguerra) di far assurgere il concetto di favor libertatis ad assioma e utilizzarlo come parametro di adeguatezza della produzione legislativa. Senza contare che è principio generale quello secondo cui lex posterior derogat priori.
Si aggiunga, infine, che rappresenterebbe senz’altro un paradosso il continuare a punire un soggetto per un fatto che era previsto poco prima dalla legge come reato ma che poi è stato oggetto di depenalizzazione. Il tutto a tutela del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost., dall’osservazione del quale non è certo esentato il giudice una volta adito per la comminazione della pena nei confronti dell’imputato. Principio che, vale la pena evidenziarlo ancora una volta, travolge anche il giudicato.
Dottrina e giurisprudenza hanno dovuto compiere, invece, un importante sforzo esegetico con riguardo al quarto comma dell’articolo in esame: “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e quelle posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”.
Si parla a proposito di successione impropria di leggi penali. Essa si contrappone alla successione propria di cui al comma secondo art. 2 c.p. Se in questa ultima (ultimo caso) l’organo deputato alla normazione ha fatto espresso riferimento all’istituto della c.d. abolitio criminis, ossia allo strumento dell’abrogazione avverso (di) una legge che prevedeva un fatto come reato, nella prima si assiste ad una c.d. abrogatio sine abolitione. Ne discende la “convivenza” di due norme incriminatrici di uno stesso fatto senza che il legislatore si sia pronunciato in merito all’abrogazione di quella meno recente. (BENE)
In un contesto del genere, l’attività interpretativa è stata volta a dirimere quegli inconvenienti che possono presentarsi sul piano pratico-applicativo.
Non ha trovato seguito la teoria della “continuità normativa” che faceva leva sull’individuazione del bene giuridico coinvolto in ogni singola fattispecie e conseguenziale applicazione della “disposizione più favorevole al reo” in circostanze di simultaneità.
Né è stato avallato il pensiero di chi sosteneva una “doppia punibilità” in concreto del fatto, in base al quale se lo stesso fosse stato riconducibile sia all’ipotesi del comma secondo che all’ipotesi del comma quarto si sarebbe potuto parlare di abrogatio sine abolitione, con applicazione della “disposizione più favorevole al reo”. Altrimenti, ci si sarebbe trovati innanzi ad una abolitio criminis tacita.
L’idea che ha trovato accoglimento si fonda sul “principio della continenza”. Ad avviso dei suoi promotori, sussisterebbe sempre un rapporto di specialità tra due norme che concernono (a prima vista) la medesima fattispecie. Il combinato operare del criterio di specialità (lex specialis derogat generali) e dell’assunto “disposizione più favorevole al reo” dovranno fungere da guida. (bene)
È, poi, dato comune che l’organo giurisdizionale di legittimità eserciti una notevole influenza sui giudici di merito al cospetto di un dubbio ermeneutico da sciogliere. È pacifica la funzione nomofilattica della Suprema Corte di Cassazione, anche laddove la riserva di legge sia assoluta, come accade in ambito penale.
Se si trattasse di mera successione di interpretazioni giurisprudenziali, quid iuris sulla prerogativa di un organo detentore di un potere non legislativo di attribuire a detta interpretazione forza coercitiva in quanto “più favorevole al reo”.
Le implicazioni di rito avrebbero spessore tutt’altro che ridotto a risposta affermativa. Vale la pena richiamare sul punto il secondo comma dell’articolo 2 c.p. “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore (o una interpretazione giurisprudenziale posteriore), non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penali”. (questo pezzo va eliminato, perché è oscuro e ripetitivo)
Con la sentenza n. 230 del 2012, la Corte Costituzionale ha( escluso una simile evenienza, facendo leva sulla) valorizzato tale funzione intendendola nella sua accezione (nomofilattica dei giudici di legittimità, da leggersi con una connotazione non cogente, bensì) persuasiva, idonea ad indirizzare la decisione dei giudici di primo e di secondo grado, i quali rimangono comunque liberi di discostarsene seppur con adeguata motivazione.( che la decisione dei giudici ermellini resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa da qualunque giudice della Repubblica, ancorché previa adeguata motivazione).
A titolo esemplificativo, appare utile citare il contrasto giurisprudenziale verificatosi tra le alte Corti a proposito della fattispecie penale prevista dall’art. 6 comma terzo del l. n. 94 del 15 luglio 2009 modificativa del Testo Unico sull’immigrazione, introdotto con d.lgs. n. 286 del 25 luglio 1998 il disposto originario secondo cui “lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato è punito con l’arresto fino ad un anno e con l’ammenda fino ad euro 2.000”, è stato modificato rispetto al testo previgente, che recitava “lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso o la carta di soggiorno, è punito con l’arresto fino a sei mesi e l’ammenda fino a lire ottocentomila”.
Il contrasto è stato i originato dal fatto che, secondo quando disposto dalla precedente disposizione, essa poteva trovare applicazione sia agli stranieri in posizione regolare che agli stranieri in posizione irregolare, circostanza, al contrario, esclusa successivamente alla riforma dai giudici di merito i quali avevano, in sede di post- riforma, applicato la norma incriminatrice ai soli stranieri regolari. La questione, giunta all’esame del Giudice delle leggi, si era pertanto sostanziata nel ritenere integrata una fattispecie di abolitio criminis, seppur tacita, ovvero di una semplice rettifica in via interpretativa della precedente disposizione incriminatrice La questione rileva tanto sul piano dogmatico, quanto su quello empirico, dal momento che, nella forma dell’art. 2 c.p. secondo comma, le accuse mosse agli stranieri irregolari dovrebbero cadere per l’operare della novella del 2009 che fa riferimento ai soli stranieri regolari ex art. 2 c.p. comma secondo. Se la Corte costituzionale si è espressa come riportato poc’anzi, e, (soprattutto, nel senso che si è difronte ad una successione di interpretazioni giurisprudenziali,CANCELLARE ) i giudici di Cassazione sono giunti ad una soluzione diametralmente opposta. A parere dei quali, fermo restando il principio di divisione dei poteri e, quindi, l’impossibilità per l’organo de quo di pronunciarsi con valenza normativa, si configura con la l. n. 94 del 15 luglio 2009 una ipotesi di abolitio criminis tacita, nella parte in cui il d.lgs. punisce chi “non ottempera, senza giustificato motivo, all’ordine di esibizione del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno” e non più chi “non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso”. La congiunzione “ovvero” che precede “il permesso” è stata sostituita da “e (il permesso)”, dovendosi ricollegare la norma ai soli stranieri regolari che non ottemperano ad un ordine preciso dell’autorità pubblica (e non anche a quelli irregolari) per il semplice fatto che non avrebbe alcuna ragione (senso) richiedere ad un straniero in posizione irregolare il permesso di soggiorno (che non ha mai avuto). Ne consegue, (inoltre cancellare), che ottemperare all’ordine di esibire il permesso di soggiorno unitamente ai documenti identificativi, oltre che qualificare lo straniero come “regolare”, ne esclude la responsabilità per il reato di clandestinità; perciò lo straniero irregolare che non ottempera all’ordine della consegna del documento di soggiorno poteva, nel passato, essere esente da responsabilità esibendo il documento di riconoscimento, cosa non più possibile oggi laddove i documenti devono essere esibiti tutti e due ed è possibile ipotizzare un concorso di responsabilità in entrambi i reati, quello di clandestinità e di mancata esibizione dei documenti richiesti dalla norma penale. Ciononostante, il cuore del problema appare un altro, e cioè quello che attiene alla individuazione della disposizione più favorevole al reo. È dubbio se essa dovrà individuarsi in quella che prevedeva l’obbligo di esibizione del documento di riconoscimento e in alternativa del permesso di soggiorno ovvero quella che prevede l’obbligo di esibizione di entrambi di documenti. O, ancora, se, come dedotto dalla Corte Costituzionale, si può parlare di continenza, con la conseguenza per cui nel caso di soggetto irregolare trovato in possesso dei soli documenti di riconoscimento e non del permesso di soggiorno, non sarà configurabile la contravvenzione.
La prassi ha poi assistito al succedersi di disposizioni in materia di depenalizzazione che hanno fatto “scivolare” fattispecie originariamente previste dal codice penale nella disciplina dell’illecito civile o amministrativo. (BENE)
A titolo esemplificativo, può rammentarsi il combinato disposto tra l’articolo 2 del d.lgs. n. 7 del 15 gennaio 2016, con la rubrica “modifiche al codice penale”, e l’articolo 3 dello stesso decreto, recante la responsabilità civile per gli illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie, prevedendo che “i fatti previsti dall’articolo seguente, se dolosi, obbligano, oltre che alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria civile ivi stabilita; si osserva la disposizione di cui all’articolo 2947, primo comma, del codice civile”. La norma ha posto seri problemi applicativi di carattere intertemporale con particolare riguardo alle porblematiche inerenti la sopravvivenza defgli effetti civile ad una s sentenza di condanna revocabile o riformabile per effetto dell’intervenuta depenalizzazione.
Sulla questione si sono formati due orientamenti. Nella giurisprudenza di legittimità si è formato un primo indirizzo interpretativo, favorevole al mantenimento, in capo al giudice penale della impugnazione contro la sentenza di condanna (di secondo grado), del potere di decidere il ricorso agli effetti civili. Questa giurisprudenza fa leva, in primo luogo, sul testo dell’art. 2, secondo comma, ultima parte, c.p. Norma diretta a disciplinare il fenomeno della abrogazione sopravvenuta a sentenza definitiva di condanna e ritenuta principio-guida laddove statuisce, in caso di abolitio criminis intervenuta dopo la sentenza di condanna, la cessazione dell’esecuzione di questa e dei relativi effetti penali, desumendosi da tale formulazione, a contrario, che gli eventuali effetti civili non vengono travolti dall’abrogazione (BENE).
Un secondo argomento è dato dalla evocazione dell’art. 11 prel., che, nello statuire che “la legge non dispone che per l’avvenire” farebbe salvo il diritto acquisito dalla parte civile a vedere esaminata la propria azione già incardinata nel processo penale, fatta eccezione per il caso, non messo in discussione, in cui l’abrogazione sopravvenga alla instaurazione del giudizio di primo grado ma sia antecedente alla pronuncia conclusiva del grado stesso: in tal caso la pronuncia della abrogazione travolgerebbe il diritto pure già esercitato dalla parte civile costituita (BENE).
Alle suddette conclusioni la giurisprudenza in questione perviene sia richiamando l’analogo meccanismo procedurale creato dal coevo d.lgs. n. 8 del 2016, in tema di depenalizzazione, sia proponendo un’applicazione analogica, a tali limitati fini, dell’art. 578 c.p.p. che, in tema di cause di estinzione del reato sopravvenute a sentenza di condanna, attribuisce al giudice della sola impugnazione il potere di decidere agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.
Il secondo orientamento esclude, invece, che il giudice della impugnazione possa decidere ai fini dei soli capi civili. Secondo questa lettura, l’annullamento della sentenza di condanna per una delle fattispecie criminose abrogate dal d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, determina la preclusione a decidere in merito ai collegati effetti civili. Secondo questo indirizzo, le ragioni di tale principio risiedono nella regola generale del collegamento necessario tra condanna e statuizioni civili del giudice penale, nella tassatività della preclusione di deroga contenuta nell’art. 578 c.p.p., nonché nella diversa disciplina sancita dall’art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016 per gli illeciti oggetto di depenalizzazione, non prevista per le ipotesi di abolitio criminis dal d.lgs. n. 7 del 2016, né ad esso applicabile in via analogica. L’orientamento in questione sottolinea la non conferenza dell’art. 2, secondo comma, ultima parte, c.p. e della giurisprudenza che su tale norma si è espressa riferibile al caso, diverso da quello in oggetto, della cessazione dei soli effetti penali in caso di abrogazione sopravvenuta ad una sentenza di condanna definitiva.
Le S.U. ha composto il contrasto nel senso che in caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, il giudice della impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Il giudice della esecuzione, viceversa, revoca, con la stessa formula, la sentenza di condanna o il decreto irrevocabili, lasciando ferme le disposizioni e i capi che concernono gli interessi civili. La decisione, oltre a prendere atto della diversa fase temporale processuale in cui è avvenuta la depenalizzazione, da per scontata la tesi secondo cui la norma più favorevole al reo, in caso di depenalizzazione, è l’illecito civile o la sanzione amministrativa che sostituisce l’originaria fattispecie penale, sulla base di una concezione formalistica della gravità del fatto reato rispetto ad altri illeciti.
Alla luce, invece, delle molteplici pronunce della Corte di Giustizia in merito alla violazione dell’art. 4, prot. 7, CEDU (c.d. divieto di “ne bis in idem”) da parte degli Stati membri per avere questi ultimi previsto l’applicazione di una sanzione accessoria amministrativa, sostanzialmente penale, ad una fattispecie di reato, configurandosi per l’appunto un’ipotesi di doppia condanna per lo stesso fatto, sembrerebbe quantomeno rischioso affermare a priori che ogni disposizione in materia di depenalizzazione di un reato in favore di una sanzione amministrativa produca effetti più favorevoli per il reo.
Adottando, infatti, il criterio interpretativo delle norme penali della Corte UE, che fa leva sul principio di legalità in senso sostanziale, si potrebbe scorgere in alcune sanzioni amministrative un’essenza tipicamente penalistica.
Pertanto, sarebbe corretto parlare di successione di leggi penali e non di abolitio criminis.
La questione, tuttavia, rileva sotto un profilo squisitamente dottrinario, essendo unanime l’applicazione dell’art. 25 Cost. in senso formale, che fa leva, nel caso di specie, sul nomen iuris della sanzione.
Piùche sufficiente
Il tema, completo in ogni suo aspetto, anche con riguardo a tutta la fase della depenalizzazione di indubbia difficoltà, è ben centrato sulla questione inerente la successione delle leggi del tempo e risponde, pertanto, alle principali questioni teorico – pratiche che essa pone
Forma a tratti un po faticosa (soprattutto nei passaggi più ardui) ma nel complesso credo che il tema sarebbe passato.
Bravo… Giovanni, ti sei impegnato ed hai studiato.
Maria
ANGELO | La giurisdizione esclusiva del G.A. con riguardo agli atti di regolazione delle Autorità indipendenti. Il grado di intensità e controlli del sindacato giurisdizionale con particolare riguardo alle linee guida ANAC.
SCALETTA
- DEFINIZIONE DI GIURISDIZIONE ESCLUSIVA
- DEFINIZIONE DI A.A.I. E RELATIVI ATTI
- SINDACATO GIURISDIZIONALE SUGLI ATTI DI REGOLAZIONE
- LINEE GUIDA ANAC
- CONCLUSIONE
RIFERIMENTI NORMATIVI
- ART 133 CPA
- ART 120 CPA
- 190/2012
- DLGS 50/2016
SVOLGIMENTO
La giurisdizione esclusiva consiste in un particolare settore della giurisdizione amministrativa in cui il Giudice amministrativo è competente a conoscere sia degli interessi legittimi che dei diritti soggettivi. (BENE)
Essa costituisce una deroga al generale principio di bipartizione della giurisdizione in funzione del quale al G.O. viene attribuita la competenza in ordine alle controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi e al G.A. quella in materia di interessi legittimi. (BENE)
L’introduzione nell’ordinamento della giurisdizione esclusiva oggi disciplinata dall’articolo 133 C.P.A. risponde all’esigenza di attribuire al Giudice amministrativo il potere di conoscere di tutti gli aspetti rilevanti della controversia ad esso devoluta.
L’estensione della sua competenza, ponendosi in evidente contrasto con il già citato principio della giurisdizione a doppio binario è controbilanciata dalla tassatività delle materie che rientrano in questo particolare settore.
Più in particolare, deve osservarsi che l’elencazione tassativa delle materie rientranti nella giurisdizione esclusiva testimonia che l’intenzione del legislatore non sia stata quella di sottrarre materie alla competenza del G.O., bensì quella di assicurare maggiore pienezza ed effettività al sindacato del Giudice amministrativo in relazione a materie molto particolari. (BENE)
La dottrina maggioritaria, infatti, sostiene che le materie di giurisdizione esclusiva siano connotate da un grado di specificità tale per cui anche la statuizione in ordine ai diritti soggettivi in esse coinvolti debbano spettare al G.A. (non solo, si tratta di materie in cui l’esercizio dell’azione amministrativa è talmente penetrante da involgere anche la sfera giuridica soggettiva piena propria dei diritti, ragione per cui il sindacato sull’operato della PA è opportuno venga espletato da un unico giudice e segnatamente al giudice della PA per eccellenza)
A norma dell’articolo 133 comma 1 lettera l) C.P.A. rientrano nelle materie di giurisdizione esclusiva anche i provvedimenti delle Autorità Amministrative Indipendenti.
La natura del sindacato giurisdizionale in ordine a tali provvedimenti e la sua inclusione nelle materie di giurisdizione esclusiva deriva, in particolare, dalle peculiarità dei soggetti deputati ad emanarli.(bene, qui introduci il principio formalistico dell’atto, da considerarsi tale nella misura in cui promana da un’Autorià che, pur avendo caratteristiche multiforme, viemne considerata amministrativa)
Le Autorità Amministrative Indipendenti, infatti, sono delle pubbliche amministrazioni che, diversamente da quelle ordinarie, risultano prive del tipico requisito di dipendenza dal potere esecutivo.
Queste autorità, pur avendo natura pubblicistica, non sono gerarchicamente e funzionalmente sottordinate al governo e sono istituite dalla Legge con il precipuo scopo di controllare e vigilare determinati settori del mercato o dell’azione amministrativa; pertanto, rivestono una posizione di indipendenza e imparzialità (BENE) .
La loro finalità secondo la dottrina maggioritaria impone di evitare che esse restino assoggettate ai vincoli della politica governativa o al sistema dello spoils system.
La Legge istitutiva di tali Autorità, oltre a prevedere nel dettaglio la loro struttura ed il loro funzionamento, attribuisce un insieme di poteri necessari a perseguire la funzione attribuita.
Pur non essendo possibile assimilare le varie forme di Autorità ad un modello unitario, si ritiene che tra i poteri ad esse spettanti vi siano quelli di adozione di provvedimenti regolatori e sanzionatori, nonché poteri di contenzioso, vigilanza e controllo.
Proprio in ragione dell’attribuzione di funzioni contenziose, parte della dottrina ha definito le Autorità alla stregua di veri e propri organismi paragiurisdizionali aventi funzioni giustiziali. (bene)
Tale visione, non accolta dalla posizione maggioritaria, viene smentita in considerazione del fatto che non esiste una funzione giurisdizionale parallela a quella del G.O., del G.A. e delle altre giurisdizioni speciali e, dunque, tali autorità sarebbero dei meri organismi di controllo che esercitano una semplice funzione deflattiva del contenzioso (in quanto la loro azione si pone, per lo più, in una fase antecedente al contenzioso a fini preventivi ed anticipatori).
Gli atti di regolazione delle Autorità indipendenti hanno dato vita a notevoli problematiche di natura pratico-applicativa soprattutto in relazione al loro regime di impugnabilità ed alla tipologia del sindacato del G.A.
Il primo problema che investe tali atti riguarda, innanzitutto, la natura giuridica. (BENE)
La questione, lungi dall’essere un semplice problema definitorio, comporta delle importanti ricadute pratiche sul piano della impugnabilità.
Sul punto si registrano due contrapposti orientamenti; secondo una posizione dottrinale (ormai in via di superamento) gli atti di regolazione avrebbero natura regolamentare e sarebbero dunque da annoverare tra le fonti secondarie dell’ordinamento. (BENE)
Per la posizione dominante, invece, essi sarebbero degli atti amministrativi generali ed in quanto tali, privi del carattere di innovatività delle fonti regolamentari.
A favore della seconda ricostruzione si osserva che, da un lato, promanano da una pubblica autorità e, (questa e la dobbiamo eliminare altrimenti il periodo rimane senza principale) dall’altro, mirano a soddisfare un preciso interesse pubblico, ovvero, quello relativo al loro operato (tutela della concorrenza e del mercato, tutela del risparmio e degli investitori etc.).
Deve quindi osservarsi che l’atto di regolazione dell’autorità rappresenta lo strumento concreto attraverso il quale essa esplica la sua attività di controllo e vigilanza del settore di competenza.
La riconduzione di tali atti nell’alveo degli atti amministrativi generali comporta la possibilità di impugnazione dinanzi all’Autorità giurisdizionale amministrativa al fine di far valere la loro illegittimità. (BENE)
Nell’ambito dell’impugnazione e, quindi, del relativo sindacato del G.A. sono sorti alcuni problemi in ragione del fatto che essi sono spesso espressione della discrezionalità tecnica della Autorità di riferimento. (BENE)
L’alto contenuto di discrezionalità tecnica precluderebbe al G.A. di poter sindacare il merito del provvedimento, dovendo quest’ultimo limitarsi ad un sindacato “debole”, ovvero, senza poter valutare l’aspetto tecnico dell’atto.
Secondo l’impostazione prevalente, tuttavia, oggi si ritiene che la peculiarità dell’atto di regolazione non precluda al G.A. la verifica del contenuto tecnico dell’atto, potendosi dunque affermare che a quest’ultimo spetti un sindacato “forte” non limitato alla sola verifica della legittimità formale. (qui , qualche piccola esemplificazione non ci sarebbe stata male… per esempio: ’art. 33 Cod. assicur. priv., in base al quale «l’Isvap determina, con regolamento, per tutti i contratti da stipulare [relativi ai rami vita] che prevedono una garanzia di tasso di interesse un tasso di interesse massimo, che non può superare il sessanta per cento del tasso medio dei prestiti obbligazionari dello Stato»; l’art. 15, co. 5, del Tuf, in tema di potestà regolamentare della Banca d’Italia sulla partecipazione al capitale in Sim e Sicav; al di fuori del quadro normativo indicato, a volte il legislatore interviene con successive norme limitative dei poteri normativi delle Autorità (come ad es. l’art. 1, co. 3, d.l. n. 7/07, conv. in l. n. 40/07, che limitail potere regolamentare dell’Agcom sui contratti per adesione con operatori della telefonia.. tutte queste norme attribuiscono poteri regolamentari alle Autorità Indipendenti in settori tecnici specifici individuandone il preciso ambito di applicazione; la caratteristica comune dei provvedimenti emanati dalle Autorità è la pubblicazione in G.U.))
Tra gli atti di regolazione delle Autorità Amministrative Indipendenti rientrano (assumono particolare e specifico rilievo) le linee guida A.N.A.C.
Quest’ultima è un’Autorità indipendente istituita attraverso la L. 190/2012 con lo scopo di vigilare, controllare e reprimere i fenomeni di corruzione all’interno della P.A. e più in particolare nella contrattazione pubblica.
La sua specifica funzione è quella di valutare la regolarità delle procedure ad evidenza pubblica potendo intervenire attraverso gli ampi poteri di cui dispone.
Il peculiare campo d’azione e i poteri ad essa riconosciuti hanno spinto la dottrina a ritenere che essa di discosti dalla generale figura dell’Autorità indipendente costituendo una sua species dotata di funzioni normative e giustiziali del tutto atipiche. (BENE)
La ragione di tale teorizzazione deriva anche dalle compito (dal fatto che alla predetta autorità è demandato il compito di esercitare anche una funzione) di esercitare attività contenziosa e precontenziosa.
Le linee guida rappresentano, unitamente ai bandi-tipo, capitolati-tipo ed altri strumenti di contrattazione flessibile, atti di regolazione delle Autorità indipendenti.
Esse consistono in indicazioni rivolte alla stazione appaltante o all’ente aggiudicatore finalizzate alla correttezza e regolarità della procedura. (BENE)
È possibile distinguere tra due tipologie di linee guida; quelle vincolanti e quelle non vincolanti.
La prime si differenziano dalle altre in quanto vincolano la P.A. procedente e consistono in vere e proprie prescrizioni che non posso essere disattese.
In ragione delle loro caratteristiche, parte della dottrina ritiene che esse siano veri e propri regolamenti; ciò porterebbe ad applicare nei loro confronti i principi tipici delle fonti secondarie nonché le generali differenziazioni in ordine all’efficacia temporale, vacatio legis e disapplicazione in sede giurisdizionale (BENE).
In ordine alla loro impugnazione dottrina e giurisprudenza ritengono, ormai pacificamente, che esse vadano impugnate dinanzi al Giudice amministrativo rientrando nelle materie di giurisdizione esclusiva.
La loro concreta impugnabilità ha dato vita ad un dibattito generale avente ad oggetto il rapporto intercorrente tra queste ultime e la discrezionalità amministrativa.
Più nel dettaglio ci si è chiesti se l’imposizione di tali indicazioni potesse precludere quel margine di autonomia della discrezionalità amministrativa necessario per la predisposizione del bando di gara. (BENE)
Secondo la posizione maggioritaria non vi sarebbe alcuna ipotesi di confliggenza in quanto l’atto vincolante A.N.A.C. sarebbe dotato di una efficacia regolamentare funzionalizzata a reprimere il fenomeno corruttivo negli appalti pubblici che è concreta espressione dei principi di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa. (BENE)
La posizione della giurisprudenza prevalente ritiene che le linee guida vincolanti possano essere impugnate ai sensi dell’articolo 120 comma 1 lettera a) C.P.A., questa norma, infatti, disciplina il rito accelerato del ricorso giurisdizionale e prevede espressamente che si possano impugnare tutti i provvedimenti dell’ agenzia di vigilanza per la corruzione nei contratti pubblici (ora assorbita dall’A.N.A.C.).
La peculiarità di tale procedimento riguarda il fatto che esso preveda termini dimezzati rispetto al rito ordinario in quanto l’accelerazione del rito risulta dettata dalle esigenze di celerità dell’impugnazione nel corso della procedura ad evidenza pubblica. (BENE)
Altresì impugnabili sono le linee guida non vincolanti.
Queste ultime, pur non vincolando la stazione appaltante o l’ente aggiudicatore sono comunque obbligatorie; ciò significa che la P.A. dovrà motivare adeguatamente la scelta di disattendere le indicazioni contenute in tali atti, pena l’irrogazione di una sanzione pecuniaria(bene).
Tale onere di motivazione ha portato la giurisprudenza amministrativa ad ammettere la loro impugnabilità sul presupposto che si traducono in un vincolo (seppur indiretto) alle scelte che la P.A. intende operare.
In conclusione, deve ritenersi che le linee guida A.N.A.C. siano sempre impugnabili dinanzi al G.A. ed il relativo sindacato incontra il limite del merito della discrezionalità amministrativa, ciò in considerazione del fatto che tali atti, pur rientrando nell’area della giurisdizione esclusiva, non rientrano in quella estesa al merito.
Piùche sufficiente
Tema compatto, ben scritto, rispondente ad una scaletta adeguata, forse carente di qualche esemplificazione (soprattutto con riguardo al grado del sindacato del giudice ) che avrebbe impreziosito di molto l’elaborato.
Comunque sarebbe passato tranquillamente.. Bravo Angelo, Miglioriamo (si vede che studi)
Maria
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