Il legislatore del Codice Civile non ha previsto una norma specifica sull’abuso del diritto, sebbene nel progetto definitivo di Codice del 1942, precisamente all’art. 7, invece, fosse stato previsto; tale norma, infatti, prevedeva che “nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto gli fu riconosciuto”. Tale istituto, tuttavia, è espressamente normativizzato solamente nella disciplina tributaria all’art. 10 bis dello Statuto del contribuente (così come modificato dall’art. 1 del D. Lgs. 128/2015). Segnatamente, l’art. 10 bis della L. 212/2000, rubricato “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”, unificando le fattispecie di elusione e abuso del diritto precedentemente distinte, postula, ai fini della sua configurabilità, la coesistenza di alcuni elementi: la mancanza di una valida giustificazione economica sottesa all’operazione de qua, l’inidoneità della stessa a produrre altri effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali, nonché l’ottenimento – attraverso la suddetta operazione economica – di vantaggi fiscali che sarebbero altrimenti indebiti.
La previsione normativa sopra richiamata, avvenuta in tempi relativamente recenti, costituisce l’evidente conferma di come l’abuso del diritto, concetto per lo più di definizione giurisprudenziale, abbia sempre più assunto il ruolo di vero e proprio principio generale nel nostro ordinamento, a scapito della tesi dottrinale, in passato dominante, che relegava la sussistenza di tale istituto ai soli casi previsti dalla legge, in ossequio al principio per cui “qui sui iure utitur neminem laedit”. E ciò, anche in ragione del riconoscimento, a li-vello europeo, di una clausola generale di divieto di abuso del diritto direttamente nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 54), accanto allo speciale divieto di abuso di posizione dominante previsto nell’art. 102 TFUE; nonché in ragione dell’ampio utilizzo di tale categoria fattone dalla stessa Corte di giustizia in molteplici settori. Infatti, nel nostro ordinamento giuridico, il concetto di abuso del diritto poggia sugli stessi princìpi di solidarietà (art. 2 Cost.) e utilità sociale (art. 41, c. 2, Cost.) dai quali è stato enucleato proprio dalla giurisprudenza europea.
La migliore dottrina fa discendere l’esistenza del concetto di abuso del diritto, e il suo divieto, direttamente dall’art. 1175 c.c., che postula, in tema di obbligazioni, il principio di correttezza e buona fede proprio nella realizzazione della solidarietà fra i consociati. Infatti, è proprio la clausola generale di buona fede e correttezza a vietare l’esercizio abusivo del diritto. La norma in parola ha assurto a principio generale dell’ordinamento giuridico, permeando tutte le fasi esistenziali del contratto: dalla fase delle trattative, come si legge nell’art. 1337 c.c., al-la fase di esecuzione dello stesso (art. 1375 c.c.).
E la derivazione dell’abuso del diritto da un principio (buona fede) che caratterizza sia la fase genetica, che la fase esecutiva del contratto, permette di affermare che anche l’istituto dell’abuso del diritto, e il relativo divieto, può operare in tutte le fasi contrattuali.
In realtà, pare opportuno precisare come l’istituto analizzato, e il relativo divieto, han-no assunto una valenza generale che si estende non solo all’ambito contrattuale, bensì a tutti i rapporti giuridici, nonché all’esercizio di qualunque diritto soggettivo. In generale, l’abuso del diritto può essere definito come il distorto esercizio di un diritto realizzato al di fuori dei limiti consentiti dall’ordinamento In altre parole, il divieto di abuso del diritto costituirebbe un limite esterno all’esercizio di un diritto da parte del suo titolare.
In dottrina, poi, si sono elaborate due sottocategorie di abuso del diritto; a seconda della configurazione che assume, l’abuso può essere funzionale ovvero modale.
Si parla di abuso del diritto “funzionale” allorquando l’esercizio del diritto da parte del soggetto che ne è titolare sia posto in essere nella realizzazione di un fine diverso da quello per cui l’ordinamento giuridico riconosce tale diritto; e tipico esempio ne è l’art. 833 c.c., che fa divieto al soggetto che esercita il proprio diritto di proprietà di esercitarlo per il solo fine di mole-stare altri.
L’abuso del diritto “modale”, invece, consisterebbe nell’esercizio di un diritto con modalità che risultino sproporzionatamente nocive dell’altrui sfera giuridica, senza che ne derivi un concreto interesse meritevole di tutela. Nella categoria dell’abuso “modale” può esserne ricondotta quella particolare forma di abuso del diritto che prende il nome di abuso del processo. In particolare, si parla di abuso del processo per fare riferimento all’abusiva richiesta giudiziale avanzata dal titolare del diritto che si vuole far valere; con la conseguenza che l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c. ricomprende non solo l’oggetto della domanda giudiziale ma altresì le modalità di proposizione della stessa.
Ebbene, passando alla tipizzazione di tale istituto, si possono individuare alcune figure “tipiche” direttamente individuate dal codice che, oltre a quella prevista dall’art. 833 c.c., sono previste in tema, fra le altre, di potestà genitoriale (art. 330 c.c.), di usufrutto (art. 1015 c.c.), di minaccia di far valere un diritto (art. 1438 c.c.), di concorrenza sleale (art. 2598 c.c.) e di pignoramento (art. 2793 c.c.), etc.
La giurisprudenza, dal canto suo, ha ricondotto alla figura dell’abuso del diritto alcune fattispecie, tra cui si ricordano, in tema di contratto autonomo di garanzia, l’escussione della garanzia da parte del creditore a conoscenza dell’adempimento del debitore principale, sfruttando la clausola di autonomia; l’abusiva concessione di un finanziamento da parte di una banca ad un’impresa ovvero ad un imprenditore per dissimulare il suo stato di decozione; il contratto stipulato con finalità di ottenere un vantaggio fiscale; l’abusivo esercizio dell’attività d’impresa tramite la forma societaria che, in tal caso, funge da schermo; o, ancora, il frazionamento delle domande giudiziali per ottenere il pagamento di crediti, anche molteplici e distinti, facenti capo ad uno stesso rapporto obbligatorio (c.d. abuso del processo), etc.
Quanto a quest’ultima figura di abuso del diritto che, come visto sopra, prende il nome di abuso del processo, pare opportuno specificare quanto segue. La Suprema Corte di Cassazione, seguendo uniforme-mente l’orientamento inaugurato dalle Sezioni Uni-te nel 2007, ha da sempre escluso la sussistenza in capo al creditore di un qualunque interesse a frazionare le richieste creditorie in giudizio; di fatti, a prescindere dalla inesistenza di una specifica sanzione nel codice di procedura civile per le richieste giudiziali frazionate di molteplici crediti tutti facenti capo al medesimo rapporto, se ne ravvisava la inammissibilità, in ragione, per l’appunto, del fatto che si trattasse di un esercizio abusivo (costituendo, cioè, abuso “modale”) del diritto a vedere tutelati i propri crediti in giudizio, importando un sacrificio sproporzionatamente eccessivo in capo al debitore-convenuto sotto vari aspetti (aumento esponenziale delle spese processuali, pericolo di contrasto fra giudicati, necessità di plurime opposizioni, etc.). Tuttavia, nel 2017 tale orientamento è stato parzialmente rivisto e mitigato dalle stesse Sezioni Unite, con particolare riferimento ad un caso in cui la richiesta giudiziale frazionata aveva ad oggetto sì molteplici diritti di credito, ma diversi e distinti fra loro, i quali, anche se derivanti dal medesimo rapporto obbligatorio di durata, non originavano dallo stesso fatto costitutivo. In tale ipotesi, si è detto, qualora sussista in capo al creditore-attore un interesse oggettiva-mente valutabile alla domanda frazionata di code-sti crediti, allora le plurime domande non si dovranno considerare inammissibili.
A fronte della molteplicità delle forme con cui può manifestarsi un’operazione abusiva, vari sono i rimedi approntati dall’ordinamento a favore della parte danneggiata.
Innanzitutto, vi è l’eccezione di dolo (exceptio doli generalis seu praesentis), proponibile dal soggetto che ha subito l’abuso del diritto altrui. Tale eccezione deriva dal diritto romano di origi-ne pretoria e, pur non trovando espressa disciplina in nessuna norma, discende, per la maggior par-te della dottrina, dal generale dovere di buona fede. Essa, configurandosi come rimedio generale, può essere esperita in relazione ad ogni rapporto esistente fra le parti nell’ipotesi in cui si verifichi l’esercizio abusivo di un diritto da parte del suo titolare. L’eccezione di dolo generalis seu praesentis, che postula l’esistenza di un dolo attuale al momento dell’esercizio del diritto da parte del suo titolare, va a neutralizzare la pretesa del titolare del diritto che lo abbia esercitato abusivamente.
Essa non va confusa, tuttavia, con l’exceptio doli specialis seu praeteriti, rimedio accordato, invece, al danneggiato in caso di sussistenza di dolo al momento della conclusione del contratto.
Oltre all’exceptio doli generale, la tutela della parte danneggiata è garantita dall’ordinamento con il riconoscimento in capo al titolare del diritto esercitato abusivamente della responsabilità civile, con conseguente diritto al risarcimento del danno in capo della parte danneggiata. La natura della responsabilità di volta in volta configurabile in caso di abuso del diritto può assumere sia qualificazione contrattuale (art. 1218 c.c.), che extracontrattuale (art. 2043 c.c.), in ragione, rispettivamente, che l’abuso si sia verificato nell’ambito di un rapporto obbligatorio, ovvero al di fuori di tale circostanza. In particolare, per la maggior parte della dottrina e della giurisprudenza, se l’abuso del diritto non si verifica all’interno di un rapporto obbligatorio – e, cioè, quindi, se si tratta di responsabilità ex art. 2043 c.c. – si configurerebbe un’ipotesi di responsabilità oggettiva, non essendo necessaria la sussistenza di alcun elemento soggettivo ed essendo sufficiente l’ingiustizia dell’esercizio del diritto ad opera del titolare dello stesso a costituire il fatto antigiuridico.
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