Il nome, comprensivo del prenome e del cognome, identifica, nel suo insieme, la persona. Gli artt. 34 e 35 d.P.R. 396/2000 regolano l’attribuzione del prenome. Esso è generalmente scelto dai genitori, ma la legge attribuisce a tale scelta di alcuni limiti: il prenome deve corrispondere al sesso del bambino, non può coincidere con quello del padre, di un fratello o di una sorella viventi, non può essere ridicolo o vergognoso; sono ammessi nomi stranieri, purché scritti con alfabeto italiano, comprensivo delle lettere J, K, X, Y, W e, dove possibile, dei segni grafici propri della lingua di origine del nome.
Se dunque il prenome è, entro questi limiti, generalmente scelto dai genitori, è invece la legge a normare direttamente l’attribuzione del cognome. L’art. 262 c.c. dispone che il cognome di figlio nato fuori dal matrimonio è quello del genitore che per primo lo ha riconosciuto e, se entrambi lo hanno riconosciuto contemporaneamente, quello del padre; se la paternità è riconosciuta o dichiarata successivamente all’attribuzione del cognome, il figlio assume il cognome del padre anteponendolo o sostituendolo a quello della madre. L’art. 299 c.c. disciplina l’attribuzione del cognome in caso di adozione di maggiorenni, sancendo che l’adottato assume il cognome dell’adottante e lo antepone al proprio; se l’adozione è compiuta da entrambi i coniugi, l’adottato assume il cognome del marito; se l’adozione è effettuata da sola donna maritata, l’adottato che non sia figlio del marito assume il cognome di lei.
Non vi è invece norma espressa circa il cognome di figlio nato in costanza di matrimonio, per il quale non è previsto alcun riconoscimento, attesa la presunzione di paternità in favore del marito della madre. Tuttavia, la giurisprudenza ha ritenuto essere immanente nell’ordinamento la norma, poi dichiarata parzialmente incostituzionale, secondo la quale il bambino assume il cognome del padre.
Infine, si rammenta come, ai sensi della XIV disposizione transitoria e finale della Costituzione, i titoli nobiliari riconosciuti prima del 28 ottobre 1922 non hanno valore, ma sono parte integrante del nome.
Tutto ciò premesso, occorre evidenziare che il nome è riconosciuto dall’ordinamento quale diritto fondamentale della personalità. A livello costituzionale, l’art. 22 Cost. sancisce che nessuno può essere privato del nome per motivi politici. A livello primario, la tutela del nome è offerta dagli artt. 6, 7, 8, 9 c.c. Il legislatore del 1942 non ha elaborato una vera e propria categoria unitaria e coerente di diritti della personalità, ma ha piuttosto offerto tutela ad alcuni, specifici, aspetti della personalità umana: essi sono l’integrità fisica (art. 5 c.c.), l’immagine (art. 10 c.c.) e, appunto, il nome. Ne risulta dunque una tutela parcellizzata, disciplinata con riguardo a singoli aspetti della personalità, in relazione a ciascuno dei quali il legislatore ha previsto da specifici rimedi. Nello specifico, l’art. 6 riconosce ad ogni persona il diritto al nome, mentre l’art. 9 estende la tutela allo pseudonimo, ossia a quel nome che, pur non corrispondendo a quello registrato all’anagrafe, abbia assunto, per consuetudine e scelta del titolare, valenza identificativa della persona. L’art. 8 legittima poi ad esperire le azioni a tutela del nome anche i familiari, purché a tale tutela abbiano un interesse ex art. 100 c.p.c.
Le azioni a tutela del nome sono normate dall’art. 7 c.c. Esse sono l’azione di reclamo, data alla persona alla quale si contesti il diritto all’uso del proprio nome, e l’azione di usurpazione, data a chi possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente faccia del proprio nome. Come evidente, dunque, la persona non solo ha il diritto a liberamente usare il proprio nome, ma ha altresì il diritto all’esclusiva su di esso, non potendo altri utilizzare abusivamente il nome altrui. Per esempio, la giurisprudenza ha ritenuto illegittimo l’utilizzo a scopi commerciali del nome “Faruk”, in quanto abusivamente richiamante il nome di un famoso sovrano d’Egitto riparato in Italia dopo la costituzione della Repubblica nel suo paese d’origine. Comunque, ben possono darsi casi di legittimo utilizzo del nome altrui, come il caso dell’omonimia, caratterizzata dall’uso legittimo del nome altrui perché anche proprio, o l’esercizio del diritto di cronaca, protetto exart. 21 Cost., salvi i diritti alla riservatezza e all’oblio.
A fronte di tali comportamenti illeciti, l’ordinamento offre tutela inibitoria, onde farli cessare pro futuro, e risarcitoria, onde ottenere ristoro dei danni patiti a causa degli illeciti già perpetrati in passato. È possibile quantificare il danno nel minor valore che il titolare ha potuto trarre dall’utilizzo del proprio nome a causa del comportamento altrui; altri invece ritengono possibile condannare l’utilizzatore ad indennizzare il titolare per un ammontare pari al lucro ottenuto dall’utilizzo indebito a titolo di arricchimento privo di causa.
Si è posto all’attenzione degli interpreti il problema se il diritto all’utilizzo esclusivo del proprio nome sia suscettibile di cessione oppur no. Si è comunemente concluso che è possibile la disposizione dello sfruttamento economico del nome, essendo anzi molto diffusi nella pratica contratti nei quali personaggi famosi concedono a terzi l’utilizzo del proprio nome, o della propria immagine, dietro corrispettivo. Al contrario, non sarebbe disponibile il diritto “morale” all’utilizzo del proprio nome, non potendo nessuno rinunciare al proprio nome, né trasferirlo a terzi. Fra le altre conseguenze, deriva da ciò che i summenzionati contratti sono sempre unilateralmente revocabili dal concedente, che può essere tuttalpiù condannato a corrispondere un indennizzo per la violata aspettativa del concessionario.
Tale indisponibilità è dovuta non solo al fatto che il nome è un diritto fondamentale della persona, ma anche al fatto che esso è rilevante per la collettività. In altri termini, il nome, quale identificativo della persona, è rilevante non solamente per il senso d’identità privato del titolare, ma anche ai fini del controllo e della regolamentazione pubblica della società. Conoscere l’identità degli appartenenti alla comunità è necessario al fine di curare la pubblica sicurezza, gestire i servizi pubblici, regolamentare i traffici giuridici. Per questo motivo, la p.a. si fa carico di curare il servizio di anagrafe, ossia quel servizio deputato precipuamente alla registrazione dei nomi e delle vicende giuridiche delle persone. A causa dell’estrema rilevanza nazionale del servizio, l’anagrafe è competenza esclusiva dello Stato exart. 117 co. 2 lett. i) Cost., ed è esercitata dal Sindaco nella sua veste di ufficiale di governo exart. 54 co. 3 TUEL.
L’importanza pubblicistica del nome è vieppiù testimoniata dal fatto che, ex art. 95 d.P.R. 396/2000, è data possibilità al procuratore della Repubblica di promuovere il procedimento di rettificazione del nome “in ogni tempo”, anche su segnalazione dell’ufficiale di stato civile che ravvisi una violazione delle norme sull’attribuzione del nome ex art. 34 co. 4 d.P.R. 369/2000.
Si è fin qui discorso del diritto al nome quale tutela di un aspetto della personalità uti singuloconsiderato. Va però dato atto del fatto che la riflessione della dottrina e della giurisprudenza attorno ai diritti inviolabili della persona exart. 2 Cost. ha portato a riconsiderare tale concezione, portando il nome ad inserirsi nel più ampio diritto all’identità personale, ritenuto ricompreso nell’art. 2 Cost. Infatti, dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, si era sviluppato un dibattito intorno alla natura dell’art. 2: secondo una prima impostazione, esso doveva ritenersi un “catalogo chiuso”, dovendosi leggere la locuzione “diritti inviolabili dell’uomo” come un rimando ai singoli diritti positivamente normati da specifiche norme giuridiche; altra impostazione, invece, voleva l’art. 2 un “catalogo aperto”, comprensivo di tutti i fondamentali diritti necessari all’esplicazione della personalità dell’individuo “sia come singolo sia nelle formazioni sociali”, anche se non sanciti da specifica norma.
La prevalenza, ormai certa, di questa seconda impostazione ha portato alla riconsiderazione dei diritti della personalità, non più monadi isolate, ma adesso espressione del generale diritto all’identità personale. Occorre segnalare peraltro che la creazione di un più ampio diritto all’identità personale, entità autonoma e distinta rispetto alle sue singole manifestazioni, trae linfa anche dal diritto europeo. In modo particolare, si pensi all’art. 8 CEDU, a più riprese interpretato dalla Corte di Strasburgo in modo estensivo: secondo i giudici della Convenzione, l’espressione letterale “vita privata e familiare” deve essere intesa come ricomprendente il nome, la vita sessuale, l’integrità fisica, il domicilio, la corrispondenza, la salute.
Plurime sono state le applicazioni di questo diritto “all’identità personale”: da un riconoscimento della privacy avvenuto ad opera giurisprudenziale (casi Caruso e Petacci) prima che legislativo (L. 675/1996), al diritto alla fedele rappresentazione delle proprie opinioni (caso Veronesi), fino al diritto alla protezione dei propri dati personali sensibili..
Con specifico riguardo al diritto al nome, anche esso è stato rivisitato ad opera della giurisprudenza, anche costituzionale, quale espressione dell’identità dell’individuo. Si ricordi, ad esempio, la sentenza 286/2016, con la quale la Corte Costituzionale ha sancito l’illegittimità di svariate norme nella parte in cui non consentivano ai genitori di trasmettere di comune accordo anche il cognome materno: ciò non solo a tutela della parità dei coniugi ex art. 3, 29 Cost., ma anche a tutela dell’identità personale . La riconsiderazione del nome quale espressione dell’identità personale ha coinvolto sotto svariati aspetti la disciplina della rettifica del nome. Già s’è detto che essa è normata dall’art. 95 d.P.R. 396/2000, a mente del quale chiunque può avanzare ricorso al Tribunale per ottenere detta rettificazione e vi è legittimato in ogni tempo anche il procuratore della Repubblica. La rettifica del nome, però, consiste in una modifica di un fondamentale attributo identificativo della persona e dunque può negativamente incidere sulla sua identità, costituzionalmente garantita. Per questi motivi, il Giudice delle Leggi ha dichiarato l’incostituzionalità della legittimazione del Pubblico Ministero nella parte in cui il procedimento da lui avviato porti al cambiamento di un nome ormai entrato nel bagaglio identificativo della persona: oggi, dunque, il co. 3 art. 95 d.P.R. 396/2000 dispone che l’interessato può chiedere il mantenimento del cognome originariamente attribuito “se questo costituisce ormai autonomo segno distintivo della sua identità personale”.
Sulla scorta del medesimo principio, la Consulta, con sentenza 297/1996, aveva dichiarato incostituzionale il summenzionato art. 262 c.c. nella parte in cui non prevedeva che il figlio naturale, nell’assumere il cognome del genitore che lo aveva riconosciuto, potesse mantenere il cognome precedentemente attribuitogli dall’ufficiale di stato civile, ormai divenuto autonomo segno identificativo della sua identità personale. Tale norma è stata poi inserita nel corpo positivo della disposizione con d.lgs. 154/2013.
Sempre sulla scorta del medesimo principio, la Corte Costituzionale, con sentenza 120/2001, ha dichiarato illegittimo l’art. 299 c.c. nella parte in cui non prevedeva che, qualora l’adottato sia figlio naturale non riconosciuto dai propri genitori, possa aggiungere al cognome dell’adottante anche quello originariamente attribuitogli dall’ufficiale di stato civile.
Occorre però segnalare che il diritto all’identità personale non costituisce solo il limite alla rettifica del nome, ma può (e deve) legittimare l’azione di rettifica tutte le volte il nome non corrisponda all’identità personale dell’individuo che lo porta. Si pensi in modo particolare alla rettifica del nome per mutamento del sesso, che consente di mantenere i dati anagrafici al passo con l’evoluzione psico-fisica dell’individuo. Oggi, peraltro, detta possibilità è stata estesa dalla Corte Costituzionale, con sentenza 180/2017, anche al caso in cui non vi sia stato un vero e proprio intervento chirurgico, ben potendosi, secondo il Giudice delle Leggi, aversi un cambiamento identitario anche senza demolizione degli organi genitali originari, purchè risulti provata l’identità di genere che si chiede di rettificare.
Dall’analisi di queste pronunce emerge che il più lato diritto all’identità personale costituisce oggi il nuovo inquadramento entro il quale indagare il problema della rettifica del nome: da una parte, ne costituisce il limite tante volte quante la modifica del nome possa privare il soggetto di un nome ormai entrato nel suo bagaglio identitario; dall’altra, invece, costituisce fondamento doveroso della rettifica, laddove sia al contrario necessario mutare il nome al fine di riallineare l’identità anagrafica alla concezione che l’individuo ha di sé.
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